venerdì 7 ottobre 2022


 
SICCITÀ (I, 2022)

DI PAOLO VIRZÌ 

Con SILVIO ORLANDO, CLAUDIA PANDOLFI, VALERIO MASTANDREA, ELENA LIETTI.

GROTTESCO/DRAMMATICO 

A Roma non piove da 367 giorni, e l'umanità che l'affolla sta andando ad un'asciutta deriva: Silvio Orlando è un detenuto che preferisce starsene in galera per paura dell'esterno, Claudia Pandolfi è un medico che investe per errore un ragazzo, mentre prova la macchina nuova assieme al marito avvocato Vinicio Marchioni, Valerio Mastandrea un tassista perennemente in balia di pericolosi colpi di sonno, Max Tortora un ex imprenditore ridottosi a vivere in un'automobile con il cane, Elena Lietti lavora in un supermercato e chatta di continuo con un virtuale spasimante, per ovviare alla distrazione cronica di un marito attore in preda del proprio narcisismo sfrenato e alle smanie da influencer dei social, e via enumerando. E in aggiunta alla mancanza d'acqua si diffonde un'epidemia che provoca appunto sonnolenza, febbre alta e valori sballatissimi delle transaminasi. Paolo Virzì ritorna quattro anni dopo "Notti magiche" con un film più imponente del suo solito, corale a più non posso, con una schiera di personaggi delusi, rancorosi, frustrati, ribollenti di insoddisfazione, pronti a tradire sé stessi e chi fa comodo pur di sfuggire a noia e depressione. "Siccità" è un ambizioso apologo con una vena largamente pessimista su dove stia andando la società (non solo italiana, par di capire) tra le troppe distrazioni virtuali, un'immaturità congenita rispetto alle cose che dovrebbero contare davvero, e una sostanziale vaghezza di intenti che, appunto, dà la sensazione di un'infinità lastra di superficialità pronta a andare in briciole di fronte alla durezza della realtà. Il film ricorda "L'ingorgo" di Comencini per la sua natura rapsodica (anche se i personaggi risultano collegati gli uni agli altri, via via che la proiezione scorre) e per la desolata dimensione di cui è intriso il racconto in generale, però, per quanto siano serie le sue intenzioni, questa volta il regista livornese ha messo fin troppa carne al fuoco, dagli intellettuali che divengono star grazie ai pareri sulle emergenze, le baby gang, gli arruffapopolo che sfruttano il malessere per emergere a suon di slogan qualunquisti, i capitalisti poco lungimiranti, gli acidi e tanti altri tipi mediocri o negativi ancora. Lo spirito sarebbe affine a quello di tanto cinema di Marco Ferreri, cineasta oggi comodamente accantonato, ma che aveva capito tante poco belle cose di quel che ci riguarda, ma il regista de "La grande abbuffata" avrebbe tirato dritto fino in fondo la sua invettiva: Virzì mette sempre in risalto la fondamentale non cattiveria dell'Uomo, e ci mette una sorta di agnizione finale che stempera non poco il messaggio di riflessione di un'opera dispersiva quanto incline al disperato.


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