domenica 29 dicembre 2019

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STORIA DI UN MATRIMONIO
( Marriage story, USA 2019)
DI NOAH BAUMBACH
Con SCARLETT JOHANSSON, ADAM DRIVER, Laura Dern, Alan Alda.
DRAMMATICO/COMMEDIA
Ci si incontra, ci si innamora, ci si sposa...poi? A volte va bene, a volte si fa andare, a volte le cose non reggono. E poi subentrano voci esterne, che siano parenti o amici, e ancor peggio avvocati, che consigliano le due parti coinvolte a non negare alcun colpo basso all'altra persona, divenuta un avversario cui imporre regole dure e amarezze nuove. "Marriage story", dramedy distribuita da Netflix, racconta il rapporto, lungo gli anni, di Nicole (Scarlett Johansson) e Charlie (Adam Driver), attrice lei, regista teatrale lui, nonostante tutta la buona volontà, mandano all'aria il loro matrimonio per un tradimento dell'uomo, e dopo segue tutta la trafila delle staffilate da infliggersi. Noah Baumbach aveva già lavorato per la compagnia streaming con "The Meyerowitz Stories", e dirige e scrive questo titolo che ha umori sia alleniani che altmaniani, su due persone che, in un percorso inevitabilmente doloroso, anche se non privo di momenti di leggerezza, devono anche salvaguardare l'equilibrio del figlio avuto insieme. Senza negare qualche crudezza nei dialoghi, o nella scena in cui in macchina Nicole dà sfogo ad un impulso sessuale e niente più, la storia tuttavia riesce a planare in un finale di una certa delicatezza, e tuttavia si ha modo di farsi coinvolgere dalla bravura dei due interpreti, specie nella scena della rabbiosa resa dei conti rimandata per molto tempo. In un cast di ottima scelta, dai legali Ray Liotta, Alan Alda e Laura Dern, tutti in parte e a proprio agio con figure talvolta rassicuranti, altre maligne, plauso a Scarlett Johansson, il cui gioco con un ruolo da attrice implica qualcosa di personale, e soprattutto a Adam Driver, che fornisce una prova ruvidamente toccante, spigolosamente sensibile, che culmina sia nello scontro in cui amore e rabbia, rancore e disperazione si rincorrono nelle parole e nei gesti, e nella bellissima reinterpretazione di "Being alive", pezzo da musical anni Settanta. Meritevole di una candidatura a Golden Globes e Oscar, e forse qualcosa in più.
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UOMINI E NOBILUOMINI ( I, 1959)
DI GIORGIO BIANCHI
Con VITTORIO DE SICA, ANTONIO CIFARIELLO, Silvia Pinal, Mario Carotenuto.
COMMEDIA 
Le differenze di classe, che problema: innamorata di un ragazzo serio, però modesto impiegato, la nipote di un marchese trova la fiera opposizione del parente, che l'ha tirata su come una figlia, e, nonostante i due giovani si sposino in gran segreto, continuano poi a vivere ognuno a casa propria, per non incorrere nel rancore dello zio. Di lì, complicazioni varie.... Diretto dal competente, anche se non brillantissimo, Giorgio Bianchi, regista professionale che ha avuto per le mani attori anche importanti, "Uomini e nobiluomini" è una commedia leggerissima, all'acqua di rose che più non si può, su una storia d'amore contrastata che, va da sè, troverà il giusto coronamento nel finale. Più che il romanzetto sentimentale che costituisce la spina dorsale della storia, questi film valevano maggiormente per l'apporto dei caratteristi, che impreziosivano il racconto, con professionale abilità, regalando qualche sorriso e qualche espressione memorabile, più del film stesso. Qui, appunto, quel che vale soprattutto è il lavoro di Vittorio De Sica e Mario Carotenuto, ed i loro siparietti che, perlomeno, portano un pò di buonumore in una storiella risaputa. 

lunedì 23 dicembre 2019

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I GANGSTERS ( The killers, USA 1946)
DI ROBERT SIODMAK
Con BURT LANCASTER, AVA GARDNER, Edmond O'Brien, Albert Dekker.
NOIR
Nonostante un amico sia giunto ad avvertirlo che due tipi pericolosi lo cercano, un uomo aspetta il suo destino inesorabile di morte: da questo incipit notevolissimo già per l'epoca, parte la storia a ritroso de "I gangsters", da un racconto breve di Ernest Hemingway, noir passato poi a livello di culto. La regia di Siodmak ha polso, sfrutta i chiaroscuri della fotografia per raccontare una storia fatta di crimine, tradimento plurimo, sentimenti mandati nel verso sbagliato, amicizie virili mantenute nonostante si stia ai due lati della barricata della legge. Del resto, l'autore, provenuto dalla Mitteleuropa, ha firmato più di una pellicola importante, anche se oggi è un regista colpevolmente dimenticato: basti citare "La scala a chiocciola" per sottolinearne la grande capacità di far cinema. Una dark lady sinuosa e magnetica come Ava Gardner trova qui uno dei suoi ruoli migliori, Lancaster, praticamente esordiente, presta la sua fisicità eloquente ad un personaggio incastrato in meccanismi di cui non aveva tenuto conto: e il tema delle scelte, sbagliate o giuste, percorre l'intera pellicola, condotta a ritmo sostenuto tra flashbacks e tempo corrente. Alcuni critici si sono soffermati a indicare l'atmosfera, talvolta richiamante una dimensione quasi onirica, di sogno inquietante, che accompagna molti passaggi del racconto; da notare anche come i killers siano vestiti allo stesso modo, anche se fisicamente antitetici, anticipando di fatto altre coppie di criminali a venire. Sferzante e felpato allo stesso tempo, è un classico che, come appunto tanti lavori di prim'ordine, non conosce vero invecchiamento, essendo un generatore di archetipi e punti di riferimento. 

sabato 21 dicembre 2019

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STAR WARS- EPISODIO IX: L'ASCESA DI SKYWALKER
( Star wars- Episode IX: Rise of Skywalker, USA 2019)
DI J.J. ABRAMS
Con DAISY RIDLEY, ADAM DRIVER, Oscar Isaac, Carrie Fisher.
FANTASCIENZA/AVVENTURA
L'avvio è più dark che non si può: in preda alla sua sete di Potere, Kylo Ren, l'antagonista principale della terza trilogia della serie creata ormai più di quarant'anni fa da George Lucas, giunge all'antro dei Sith, alla radice del Male che ammorba la galassia lontana lontana che muove tutto "Star Wars", e giunge il primo dei colpi di scena. Che, lungi dalla tradizione, si susseguono al punto di lasciare, dopo un pò, abbastanza poco sorpreso lo spettatore: ce n'è uno, vero, piuttosto stordente, ma lo è ancor più perchè rivela qualcosa che mai, negli otto capitoli, ci avevano nemmeno fatto supporre. Ed è questo il maggior limite del capitolo conclusivo della saga della Guerra delle Stelle: forse per non correre il rischio di scontentare le orde di fans più conservatori, quelle che sui social si sono accaniti con furore dando addosso all'opinabile, ma di fatto coraggiosa, nuova direzione data da "Gli ultimi Jedi", si è messo su un lungometraggio che pare un giro in "Star Warsland", mettendo tutto e di più delle creature che hanno popolato la serie, anche per pochi fotogrammi, arrivando ad una conclusione che, narrativamente, fa intravedere poco coraggio o una fondamentale pigrizia nell'esplorare il racconto dello scontro tra lati della Forza ( a proposito, poco rammentata e più che altro messa in scena, ma con momenti che creano confusione anche nel pubblico più esperto della serie). Non è un film brutto come i critici da due righe dei social vorrebbero far credere, lo spettacolo c'è, manca semmai di epica, che invece nei due titoli precedenti non veniva meno, e usa fin troppo i deus-ex-machina come chiave per far svoltare la narrazione. Abrams, richiamato in corsa dopo l'allontanamento di Colin Trevorrow, che aveva rivitalizzato il mondo "Jurassic", per idee non collimanti con quelle di casa Disney, mostra di aver talento per il ritmo, ma ci dà fin troppo dentro, sommando accadimenti senza dar tempo alla storia di prender fiato e lievitare: ed il conflitto lungo e strenuo tra Rey e Ren, che arriva ad una fase finale concitata ma discretamente prevedibile, forse andava trattato meno spettacolarmente e più di scrittura. Tra ritorni in scena vari, "L'ascesa di Skywalker" è in fondo una storia di spettri, di un Passato inaffondabile che marca il presente ed il futuro, come un solco già tracciato e non variabile. Resta un pò di insoddisfazione perchè, probabilmente, si sarebbe voluto un finale diverso, ma vive ancora il ricordo di parziali mugugni di delusione alla fine de "Il ritorno dello Jedi" più di trent'anni fa, ed oggi è considerato uno dei picchi della lunga saga. Che continuerà ancora, in qualche modo. 

martedì 17 dicembre 2019

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GASTONE ( I, 1959)
DI MARIO BONNARD
Con ALBERTO SORDI, Vittorio De Sica, Anna Maria Ferrero, Franca Marzi.
COMMEDIA
"Ho comprato i salamini e me ne vanto...." recitava la storica canzone di Ettore Petrolini quando si calava nei panni sfarzosi del gagà Gastone, "attor bello" pieno di sè e narcisista irrefrenabile: tra le tante maschere petroliniane, quella del presunto "divo" è una delle più ricordate, insieme a Nerone, e l'idea di trarre un film dal personaggio dette l'occasione a Alberto Sordi di impersonare un bellimbusto, superficiale e in fondo disgraziato. Abbinato ad uno dei suoi "numi" cinematografici, Vittorio De Sica, che con divertito mestiere riveste il ruolo del principe idolo e mentore del protagonista, Sordi presta la sua verve in modulità "presuntuoso senza basi" alla storia della presunta ascesa di una star del tabarin. Peccato che la regia dell'ordinato Mario Bonnard, però, sia senza guizzi, e che la storia proceda in maniera lineare ma si affidi, soprattutto, all'intesa tra interpreti, e qui, appunto, sia Sordi che De Sica forniscono un buon apporto: per fortuna, l'epilogo è sia beffardo che malinconico, vede Gastone caduto in miseria, che vive delle sue affabulazioni vuote, rievocando successi che non ci sono poi stati, ma perde l'occasione anche di un bagno d'umiltà che lo recupererebbe almeno parzialmente. Invece, per coerenza, rimane solo millantando un rilancio che non arriverà. Gradevole, ma nella sostanza un'occasione buona mancata. 

venerdì 13 dicembre 2019

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UN GIORNO DI PIOGGIA A NEW YORK
( A rainy day in New York, USA 2019)
DI WOODY ALLEN
Con TIMOTHEE CHALAMET, ELLE FANNING, Selena Gomez, Jude Law.
COMMEDIA/SENTIMENTALE
Avrebbe dovuto essere il film di Woody Allen "per" Amazon Studios, quindi l'adeguamento ai tempi di un grande regista: del resto, alle logiche dello streaming si è adattato di recente anche Martin Scorsese con il suo "The Irishman", e perchè non possono farlo altri maestri coevi? Nel seguire la vicenda dei due fidanzatini di buona famiglia che passano un weekend nella Grande Mela, e si separano per questioni logistiche, ma poi una serie di circostanze protrae la divisione, e si susseguono incontri disparati, che li porteranno, però, a confrontarsi con il loro rapporto e quel che vogliono da esso. Ambientazione e trama sono molto alleniane: gli scorci newyorkesi sono sempre carpiti con conoscenza e amore per la città cui l'attore e regista appartiene, e le nevrosi sentimental-esistenziali di molti dei personaggi sono parte dell'ormai lungo corollario al quale ci ha abituato da una cinquantina d'anni e più. Però, fin dall'inizio, la sensazione che questo sia un copione stiracchiato, con due giovani quasi anacronistici (lui che si chiama Gatsby, addirittura, gira con la sigaretta con bocchino, lei viene dalla provincia e ostenta entusiasmo e ingenuità, parlano di autori di cinema grandi ma difficilmente assimilabili ai gusti di ventenni odierni) che sono fin troppo caratterizzati, e si muovono in mezzo a personaggi purtroppo contrassegnati da clichès, vedi il regista tormentato e in crisi creativa, il divo latinoamericano seduttore, e via enumerando, è forte. Mettiamoci anche una situazione da pochade classica ma trita, come l'arrivo della fidanzata a sorpresa mentre si sta per concludere la scappatella: scarse le occasioni di sorriso, e una certa monotonia narrativa, nonostante, appunto, le varie cose che succedono in soli due o tre giorni ( a proposito, in una metropoli incontrare vecchie conoscenze in strade non principali è abbastanza inusuale, soprattutto se succede più volte in poco tempo...) fanno sì che questo divenga uno dei lavori di Allen meno riusciti in generale. Forse la querelle con lo studio che doveva distribuire la pellicola ha influito, gli scandali che perlomeno dall'inizio degli anni Novanta hanno accompagnato la carriera dell'autore di "Manhattan" si ripetono: ma questo è il lavoro fiacco di un autore che, forse anche per la prolificità con cui ha sfornato film, sembra più che mai dedito a ripetere se stesso. Dispiace dirlo, ma, a parte il dialogo rivelatore tra Chalamet e Cherry Jones, che nel ruolo della madre gli narra un impensabile passato, vero momento cardine di una commedia spesso poco saporita, si riscontra ben poco di colui che ha scritto molti dei dialoghi che, al cinema, ci hanno maggiormente impressionato lungo i decenni.

martedì 3 dicembre 2019

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THE IRISHMAN ( The Irishman, USA 2019)
DI MARTIN SCORSESE
Con ROBERT DE NIRO, Al Pacino, Joe Pesci, Ray Bufalino.
DRAMMATICO 
Jimmy Hoffa, il sindacalista più celebre d'America, dopo aver caratterizzato per decenni le lotte tra lavoratori e grosse compagnie, sparì nel nulla a metà anni Settanta, ed è uno dei grandi misteri insoluti statunitensi. All'argomento sono stati dedicate almeno tre grossi film, "F.I.S.T." nel 1978, di Norman Jewison ( in cui Sylvester Stallone fornì una delle sue migliori interpretazioni), "Hoffa: santo o mafioso?" nel 1993, in cui Jack Nicholson dava volto al personaggio e quest'ultima opera firmata Martin Scorsese: anche se Hoffa entra in scena solo dopo quaranta minuti di visione, e il corpo del racconto riguarda i rapporti tra un killer della mafia di origine irlandese ( da qui il titolo), il sindacalista e un boss della mala, rappresentante della famiglia Bufalino. Oltre tre ore e mezzo di durata, i volti degli attori principali rimodellati con la computer graphic ( e tra le ingenuità evitabili, la scena del pestaggio del negoziante da parte del sicario De Niro, con viso da quarantenne e movenze da uomo anziano), per la quarta volta Al Pacino e Robert De Niro insieme e per la prima Al diretto da Martin: l'evento c'è tutto. Quarant'anni e passa di storia americana, passando per gli omicidi dei due Kennedy e la crisi cubana, sullo sfondo dell'amicizia tra il killer e il boss dei sindacati, che si conclude nel peggiore dei modi, perchè la mafia ha le sue regole ineluttabili. Girato con piglio elegante, con cura di un montaggio avulso dalle logiche fulminee dell'oggi ( più di una volta le inquadrature si protraggono a lungo, mai gratuitamente), dal romanzo "I heard you paint houses"  ( "Ho sentito che imbianchi case" è la frase, in codice, che Hoffa rivolge a Sheran, il sicario, per incontrarlo) di Charles Brandt, "The Irishman" è un'opera intensa, scandita quasi con calma, in cui il furore della violenza da sempre presente nella cinematografia scorsesiana è presente, ma meno rimarcato che in passato, seppure scene come quella in cui un congestionato e ricoperto di sangue Joe Pesci rincasa, incidono a fondo: notevole, al solito, la conduzione degli attori, e la fluidità dei dialoghi, in cui vengono annunciati omicidi senza dirlo esplicitamente ( "E' quel che è..."), e messe in atto strategie di un potere che consuma e lascia, infine, macilenti, vecchi e soli. Perchè, come il Michael Corleone che finiva solo e spettrale alla fine de "Il padrino parte II", qui i mafiosi che arrivano in là con gli anni finiscono le loro esistenze ruminando cornflakes e pan bagnato, soli, devastati e aspettando di morire, senza più coscienza e talmente assorbiti nella loro negazione del male esercitato, da dimenticarsene quasi. Se De Niro dà una delle migliori prove degli ultimi anni, il che non è necessariamente un complimento, vista la quantità di film sbagliati alle spalle, è ottimo Al Pacino nella sicumera arrogante che perderà Hoffa, e peccato che a Harvey Keitel sia riservato un pugno di minuti, in questa summa dell'antropologia scorsesiana sulla criminalità italoamericana: ma il migliore in scena è il boss pratico e apparentemente dimesso di Joe Pesci, in un ruolo opposto per carica interpretativa e proprietà di finezza d'interprete rispetto ai precedenti gangsters impersonati sotto la regia del director di "Mean streets" da suscitare naturalmente il plauso e, probabilmente, meritare una candidatura lanciata all'Oscar come non protagonista.