martedì 3 dicembre 2019

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THE IRISHMAN ( The Irishman, USA 2019)
DI MARTIN SCORSESE
Con ROBERT DE NIRO, Al Pacino, Joe Pesci, Ray Bufalino.
DRAMMATICO 
Jimmy Hoffa, il sindacalista più celebre d'America, dopo aver caratterizzato per decenni le lotte tra lavoratori e grosse compagnie, sparì nel nulla a metà anni Settanta, ed è uno dei grandi misteri insoluti statunitensi. All'argomento sono stati dedicate almeno tre grossi film, "F.I.S.T." nel 1978, di Norman Jewison ( in cui Sylvester Stallone fornì una delle sue migliori interpretazioni), "Hoffa: santo o mafioso?" nel 1993, in cui Jack Nicholson dava volto al personaggio e quest'ultima opera firmata Martin Scorsese: anche se Hoffa entra in scena solo dopo quaranta minuti di visione, e il corpo del racconto riguarda i rapporti tra un killer della mafia di origine irlandese ( da qui il titolo), il sindacalista e un boss della mala, rappresentante della famiglia Bufalino. Oltre tre ore e mezzo di durata, i volti degli attori principali rimodellati con la computer graphic ( e tra le ingenuità evitabili, la scena del pestaggio del negoziante da parte del sicario De Niro, con viso da quarantenne e movenze da uomo anziano), per la quarta volta Al Pacino e Robert De Niro insieme e per la prima Al diretto da Martin: l'evento c'è tutto. Quarant'anni e passa di storia americana, passando per gli omicidi dei due Kennedy e la crisi cubana, sullo sfondo dell'amicizia tra il killer e il boss dei sindacati, che si conclude nel peggiore dei modi, perchè la mafia ha le sue regole ineluttabili. Girato con piglio elegante, con cura di un montaggio avulso dalle logiche fulminee dell'oggi ( più di una volta le inquadrature si protraggono a lungo, mai gratuitamente), dal romanzo "I heard you paint houses"  ( "Ho sentito che imbianchi case" è la frase, in codice, che Hoffa rivolge a Sheran, il sicario, per incontrarlo) di Charles Brandt, "The Irishman" è un'opera intensa, scandita quasi con calma, in cui il furore della violenza da sempre presente nella cinematografia scorsesiana è presente, ma meno rimarcato che in passato, seppure scene come quella in cui un congestionato e ricoperto di sangue Joe Pesci rincasa, incidono a fondo: notevole, al solito, la conduzione degli attori, e la fluidità dei dialoghi, in cui vengono annunciati omicidi senza dirlo esplicitamente ( "E' quel che è..."), e messe in atto strategie di un potere che consuma e lascia, infine, macilenti, vecchi e soli. Perchè, come il Michael Corleone che finiva solo e spettrale alla fine de "Il padrino parte II", qui i mafiosi che arrivano in là con gli anni finiscono le loro esistenze ruminando cornflakes e pan bagnato, soli, devastati e aspettando di morire, senza più coscienza e talmente assorbiti nella loro negazione del male esercitato, da dimenticarsene quasi. Se De Niro dà una delle migliori prove degli ultimi anni, il che non è necessariamente un complimento, vista la quantità di film sbagliati alle spalle, è ottimo Al Pacino nella sicumera arrogante che perderà Hoffa, e peccato che a Harvey Keitel sia riservato un pugno di minuti, in questa summa dell'antropologia scorsesiana sulla criminalità italoamericana: ma il migliore in scena è il boss pratico e apparentemente dimesso di Joe Pesci, in un ruolo opposto per carica interpretativa e proprietà di finezza d'interprete rispetto ai precedenti gangsters impersonati sotto la regia del director di "Mean streets" da suscitare naturalmente il plauso e, probabilmente, meritare una candidatura lanciata all'Oscar come non protagonista.

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