MECHANIC: RESURRECTION ( Mechanic: Resurrection, USA/F 2016)
DI DENNIS GANSEL
Con JASON STATHAM, Jessica Alba, Sam Hazeldine, Tommy Lee Jones.
AZIONE
Visto che "Professione: assassino" con Charles Bronson e Jan-Michael Vincent aveva una conclusione amarognola, ma di una coerenza che un film d'azione di questi anni non ha manco a inventarsela, per il remake del 2011, "The Mechanic", con Jason Statham e Ben Foster, a riprendere i personaggi del killer professionista e dell'allievo infido, lasciava logicamente uno spiraglio aperto per un potenziale sequel. Ed infatti, eccolo qui ( il primo, tuttavia, aveva una dignità di fondo): ritroviamo il super assassino Bishop in Brasile, accanto al Pan di Zucchero, a dover sgominare una squadra di sicari su una teleferica ( dalla quale si getta, e, vedi il caso, atterra su un deltaplano che passava di lì, oltretutto senza precipitare insieme al volatore), ma una sua antica conoscenza vuole, a tutti i costi, commissionargli tre delitti per eliminare rivali pericolosi per i suoi commerci, e per avere l'opera del protagonista, viene rapita una bellissima ragazza con la quale c'era del tenero, per Bishop. Dato che il killer ha un modus operandi di livello, imbastendo omicidi che sembrino incidenti, forse, la parte più vivace di questo atto secondo è lo scoprire come Bishop escogiti un sistema per far fuori le vittime commissionate: i 98 minuti di durata di "Mechanic: Resurrection" passano veloci, per carità, ma il regista tedesco Dennis Gansel ha la mano meno centrata del predecessore Simon West, che pure non è un fenomeno, e l'azione si fa spesso ripetitiva, con un "killcount" che sale di numero come il display di un flipper. Se Statham fornisce una prestazione atletica e nulla più, i nomi in cartellone di Tommy Lee Jones e Michelle Yeoh servono puramente ad attirare spettatori, dato che sono in scena per non più di tre o quattro sequenze per uno. E, a proposito di spiragli lasciati aperti, per tradizione il film si chiude su un'ipotesi per un terzo capitolo...
L'ONOREVOLE ANGELINA ( I, 1947)
DI LUIGI ZAMPA
Con ANNA MAGNANI, Nando Bruno, Ave Ninchi, Agnese Dubbini.
COMMEDIA/DRAMMATICO
Donna passionale e incline ad attrarre a sè le coinquiline della borgata in cui vive nell'immediato dopoguerra, Angelina Bianchi conduce piccole battaglie quotidiane contro chi pratica la borsa nera, chi specula sulla povera gente, chi nega l'utilizzo dell'acquedotto: acclamata da donne e uomini che vivono, come lei, in costruzioni già in malora, nonostante siano state costruite nel Ventennio, quindi solo vent'anni prima, la protagonista rischia di arrivare alla Camera dei Deputati, dopo aver dato il via all'occupazione di un vicino stabile, ma quando arriva a trattare con i "piani alti" rimane offesa e disgustata dai troppi pastrocchi di palazzo.... Tra i maggiori incassi dell'anno in cui uscì, "L'onorevole Angelina" è una commedia drammatica, che non dista troppo dal nascente neorealismo dei coevi grandi dello schermo italiano, da De Sica a Lizzani, da De Santis a Rossellini: certo, Luigi Zampa faceva un cinema più "commestibile" e sicuramente di più facile smercio, però in questo film, quanto sapore della verità dell'epoca, quanta sapidità nei dialoghi, che grinta nella resa dei volti e delle espressioni di ogni attore in scena, capitanato, ovviamente da una Anna Magnani impetuosa, vivida, abilissima a cambiare registro nello spazio di un'inquadratura: grandissima, in sostanza. Certo, quello che muove Angelina e i popolani che la sostengono, assomiglia, volendo, molto da vicino ai movimenti populisti che oggi vanno di moda, con tutti i rischi che ciò comporta, ma il "ravvedimento" finale, quel gesto di umiltà onesta della cittadina semplice che comprende che la società vive di deleghe e di competenze, manca del tutto a molti dei politici generati da questa ondata di presunta reimpostazione della cosa pubblica. Un bell'esempio di cinema popolare, che dice cose importanti, in una fase delicatissima socialmente e politicamente, e con tanto coraggio.
ROBIN HOOD- L'origine della leggenda
( Robin Hood, USA 2018)
DI OTTO BATHURST
Con TARON EDGERTON, Jamie Foxx, Eve Hewson, Ben Mendelsohn.
AZIONE/AVVENTURA
Versione dopo versione, l'arciere di Sherwood ha avuto tanti volti al cinema, come altri "colleghi", vedi Dracula, Zorro, Tarzan e via elencando,da Errol Flynn a Kevin Costner: l'ultima grossa produzione riguardante la leggenda di Robin Hood è quella diretta da Ridley Scott, che vedeva Russell Crowe vestire calzamaglia e furore del reduce dalle Crociate, tornato a combattere Giovanni Senzaterra, e, visto che gli aggiornamenti sono sempre in voga, ecco una rilettura del mito molto al passo con le serie televisive oggi sugli scudi, e con un "taglio" decisamente giovanilistico. Il che, per certi versi, o almeno, fino a un certo punto, potrebbe anche incuriosire: il problema è che ci ritroviamo dinanzi ad una versione lazzarona e che si cura, più che altro, del look dei personaggi ( Robin con una trapuntina molto fashion, per non parlare del soprabito dello sceriffo di Nottingham), di innestare alcune anomalie semifuturibili ( balestre a multicarica che funzionano come mitragliatrici, o bazooka....), e di prendersi qualche libertà narrativa sul classico. Lungo neanche due ore, ma greve al punto di sembrare di molto più ampio minutaggio, affidato ad una regia pretenziosa, non coinvolge mai neanche a livello di intrattenimento lo spettatore, Edgerton è un Robin Hood abbastanza scialbo, Foxx gigioneggia come Little John "coloured", Ben Mendelsohn si ripropone abbastanza svogliatamente negli sciccosi panni di questo sceriffo. Si nota la bellezza fresca di Eve Hewson, figlia di Bono Vox degli U2, ma c'è veramente poco altro in questo film, che ha fatto flop un pò dappertutto. E il sottotitolo italiano, che pomposamente parla di "Origine della leggenda" suona quanto mai inappropriato.
VICE- L'uomo nell'ombra ( Vice, USA 2018)
DI ADAM MCKAY
Con CHRISTIAN BALE, Amy Adams, Sam Rockwell, Steve Carell.
DRAMMATICO/BIOGRAFICO
Otto nominations agli Oscar prossimi venturi, e sei ai Golden Globes, sono solo i più prestigiosi della messe di candidature che ha raccolto "Vice", settima fatica registica per Adam McKay, che è passato dalle commedie scanzonate con Will Ferrell ad una satira da stiletto, ben documentata storicamente e su eventi recenti, come anche ne "La grande scommessa", che spiegava in modo assai minuzioso tante cose della grande crisi del 2008. McKay è interessato a far luce sulle stanze di cui nessuno dei "mortali", ovvero dei comuni cittadini, dovrebbe sapere molto, ed infatti una didascalia sferzante chiarisce, prima che questo film cominci, che gli sceneggiatori hanno dovuto lavorare molto di immaginazione per quanto riguarda i rapporti tra i personaggi realmente esistenti in scena, da Dick Cheney, il vicepresidente americano che ha avuto maggior potere di sempre, a George W. Bush, passando per la signora Cheney, e Donald Rumsfeld. Con sarcasmo e grintosa voglia di squarciare i troppi misteri ( ma lo sono davvero, alla fine? Per noi europei forse molte cose erano più semplici da decifrare, gli statunitensi paiono sempre sbalordire di fronte alla logica infame di tanta politica...), questa produzione racconta la parabola di un uomo grigio, ben deciso ad amministrare più potere possibile, restio a condividere opinioni e capace di pilotare un Paese inventandosi guerre che hanno aperto vasi di Pandora di una portata devastante, dato che l'Isis ha preso campo dopo la fallimentare avventura iraqena dell'amministrazione Bush II. Non solo, ma in nome del terrore scaturito dalla tragedia dell'11 Settembre, bellamente Bush, Cheney & co. ripristinarono cose molto brutte come la tortura, convincendo l'opinione pubblica della sua necessità per debellare il terrorismo, forzarono la mano riducendo a brandelli la libertà del popolo, e condizionando i rapporti tra Stati. McKay procede scioltamente, piazzando dei frastornanti titoli di coda a neanche cinquanta minuti dall'inizio, lavorando di bisturi nella narrazione degli eventi, analizzando con pessimismo le stanze del Potere. Abile quanto si vuole, ma resta, nel guardare il cinema di questo regista comunque capace e intelligente, la sensazione di un lavoro di documentazione molto accurato, ma anche di un umorismo non sempre condiviso con lo spettatore, di una freddezza di scrittura che illustra ma non coinvolge il pubblico: e sul piano attoriale, il campione di mimesi Christian Bale, che sembra aver assorbito in pieno la lezione del De Niro di "Toro scatenato", tramutandosi fisicamente per entrare nei personaggi, dà una bella interpretazione, o fa una splendida imitazione? Va visto, "Vice", se ne apprezza l'acume e la carica corrosiva, certo: resta la relativa incertezza su quanto sia un docufilm ben realizzato, o un film vero e proprio, che resti nella mente dello spettatore a lungo.
AMERICANO ROSSO ( I, 1991)
DI ALESSANDRO D'ALATRI
Con FABRIZIO BENTIVOGLIO, BURT YOUNG, Valeria Milillo, Sabrina Ferilli.
DRAMMATICO/COMMEDIA
Il belloccio e scansafatiche Vittorio, in piena era fascista, viene buttato fuori dall'agenzia assicurativa dallo zio che ne è il titolare: sposato, ma avvezzo a cercar gonnelle, incontra uno strambo americano di origine italiana, che cerca moglie. Annusato l'affare, l'italiano propone, dietro compenso, di sistemare lo straniero, ma il vizio di sedurre non lo perde.... Opera prima di Alessandro D'Alatri per il cinema, che veniva dalla pubblicità, conquistò molti pareri positivi alla sua uscita, per la sua natura di commedia drammatica, con risvolto "giallo" nel finale: ben recitato da un frivolo Bentivoglio, e da un ruvido Young, vedeva in pratica debuttare in un ruolo importante anche Sabrina Ferilli, anche se la si era già vista in altre pellicole. D'Alatri narra un'Italietta ancora convinta della fattibilità dell' "Impero Fascista", e che tante opportunità aleggino per i più dritti, pulsante di malizia semimascherata, e con la miseria che pulsa prepotente appena sotto la superficie. Peccato che il taglio del film risenta, come molti altri lungometraggi italiani dalla fine degli anni Ottanta all'inizio dei Novanta, di un modo di gestire le inquadrature, di un montaggio, di un uso di fotografia e musiche, troppo legate ad uno stile paratelevisivo, creando così un ibrido di incerta natura. Un Risi d'epoca avrebbe tratto un film molto migliore da uno spunto come questo: apprezzabile, questo film, ma senza una personalità veramente definita a livello di regia.
AMICI COME PRIMA ( I, 2018)
DI CHRISTIAN DE SICA
Con CHRISTIAN DE SICA, MASSIMO BOLDI, Lunetta Savino, Regina Orioli.
COMMEDIA
A tredici anni dalla loro ultima apparizione insieme, nel finale di "Natale a Miami", Christian De Sica e Massimo Boldi erano su un taxi guidato da un serial killer: dopo la divisione del duo, al romano le cose sono andate meglio, visto che le annuali strenne natalizie in cui via via ha cambiato partners, hanno incassato un bel pò di più delle parallele commediacce con il lombardo che, più o meno con la solita compagnia di giro (Salvi, Izzo, Minaccioni e altri) ha provato a raggiungere le stesse cifre, ma con minore risonanza. Poi, per forza di cose, ogni formula, pur di successo, conosce un declino, e se negli ultimi anni De Sica ha provato, un pò più defilato del solito, a prender parte a film brillanti un pò più strutturati, la diminuzione degli incassi c'è stata eccome. Come capita alle vecchie accoppiate, hanno provato la carta del ritorno insieme: stavolta in un lungometraggio diretto da De Sica (coadiuvato dal figlio Brando, non accreditato), in cui il miliardario Boldi rischia di essere interdetto dalla grintosa figlia unica (una Regina Orioli smagrita rispetto a come ce la ricordavamo vent'anni fa), e un direttore d'albergo di sua proprietà, appena licenziato ( lo stesso De Sica) non trova di meglio che travestirsi da badante per continuare a garantire alla viziata famigliola un tenore di vita soddisfacente. De Sica da regista non ha mai avuto la verve di quando fa l'attore, e se qua, si abbozza un vago sentore di malinconia a poco dalla fine, è comunque tratteggiato rozzamente. Le occasioni di riso sono pochine davvero, Boldi tende alla monoespressività, quando non fa le linguacce, e De Sica, come altre volte, sembra esaltarsi nel travestirsi da donnona: vistosamente invecchiati, i due confezionano gags stantie, e quando non ce la fanno con il ritmo, la buttano sul risaputo, con tanto di "Vattelappijander..." come chiosa ineffabile. Invece di accanirsi su se stessi, non sarebbe meglio se la chiudessero qua?
NATALE A 5 STELLE ( I, 2018)
DI MARCO RISI
Con MASSIMO GHINI, Ricky Memphis, Martina Stella, Paola Minaccioni.
COMMEDIA
Il primo "cinepanettone" pensato per una piattaforma on demand esce, in pratica, in parallelo al prodotto DOC che esce nelle sale, e rimette insieme, per la prima volta dopo tredici anni, la premiata (dagli incassi) coppia Boldi&De Sica: "Amici come prima" ha ottenuto buone cifre, anche se, com'era prevedibile, i numeri alti dei tempi in cui i vari "Natale sul Nilo" e "Bodyguards" viaggiavano in vetta, sono solo ricordi. Pare che anche "Natale a 5 Stelle", che si ispira al britannico "Out of order", sia stato visto da molti degli abbonati del colosso digitale: originariamente destinato alla regia di Carlo Vanzina, su soggetto del fratello Enrico, dopo la scomparsa del regista, è passato nelle mani di un altro director, figlio d'arte, Marco Risi. Se l'idea era di girare una pochade al tempo dei grillini al governo, la commediola, che schiera un cast composto di volti noti agli aficionados del genere, con Massimo Ghini, Ricky Memphis, Martina Stella, Riccardo Rossi, Paola Minaccioni, butta là qualche accenno alla politica, ma blandissimo, con lo spunto della relazione segreta tra un premier del Movimento e un'esponente del PD. In pratica, l'azione si svolge quasi per intero in una stanza, a mò di pièce teatrale, con equivoci, gaffes, apparizioni improprie, rischi di sputtanamento, mogli che capitano all'improvviso e amanti da nascondere nell'armadio: niente di nuovo sullo schermo, gags che potevano risultare vagamente divertenti decine di anni fa, riciclate senza particolare verve, nè battute che rimangano in mente. Marco Risi era più a suo agio fuori dal registro brillante, vedi "Soldati-365 all'alba", e il dittico "Mery per sempre"/"Ragazzi fuori", e qui si limita a una vera e propria regia di servizio: nel cast, recitazione sovreccitata per tutti, con un inusitato Ricky Memphis oggetto del desiderio dei principali personaggi femminili, in piena fregola. Senza rivolgergli strali fin troppo accaniti, come è capitato di leggere nell'ormai consueto teatro di guerra virtuale quali sono diventati i social network, un'operazione di una certa insulsaggine.
NON CI RESTA CHE IL CRIMINE ( I, 2018)
DI MASSIMILIANO BRUNO
Con MARCO GIALLINI, ALESSANDRO GASSMAN, GIANMARCO TOGNAZZI, Ilenia Pastorelli.
COMMEDIA/FANTASTICO
Al grido di "Pijamose Roooomaaaa!" tre poveracci, amici dall'infanzia, si sono ritrovati catapultati di trentasei anni indietro, fino al 1982, nel cuore della capitale italiana, a un passo dalla vittoria del mondiale in Spagna, e con la banda della Magliana ancora in piena attività. Moreno, Sebastiano e Giuseppe, che ai giorni nostri si sono inventati il "Tur della banda della Magliana" (senza la O) per portare i turisti nei luoghi in cui la gang criminale ha imperversato negli anni Settanta soprattutto, si ritrovano quindi, attraverso un portale misteriosamente nascosto nel retro di un bar, faccia a faccia con "Renatino" ( al secolo Enrico De Pedis), storico boss dei malviventi, e i suoi sgherri. "Non ci resta che il crimine", sulla possibilità di cambiare il presente agendo sul passato, non dice nulla di nuovo, se si pensa che ha per predecessori, per dire, classici moderni come "Non ci resta che piangere" e, ancor più, "Ritorno al futuro": Massimiliano Bruno, alla sesta regia per il cinema, si ritaglia il ruolo secondario ma funzionale al racconto di Gianfranco "Er Ventosa", coetaneo dei protagonisti, ma tagliato fuori da sempre dal terzetto, con la differenza di aver saputo sfruttare il mondo digitale, e avere fatto soldi con un'intuizione. Se con l'esordio di "Nessuno mi può giudicare", pur in tutta leggerezza, Bruno aveva dato mostra di agganciarsi alla commedia italiana senza sfigurare, nei titoli successivi aveva ritrovato quella miscela di umorismo e sguardo sul reale ben filtrato: questo film ha un discreto gioco d'attori (Giallini, un pò sacrificato dalla sceneggiatura, mentre è convincente più del solito Gianmarco Tognazzi: di Ilenia Pastorelli si nota che Bruno ne apprezza le effettivamente notevoli terga, e se ne apprezza il piglio grintoso, anche se sarebbe interessante vederla in ruoli diversi dalla coatta), qualche battuta azzeccata, e comunque, rispetto a molte commediole contemporanee, c'è almeno un'impostazione che sia una storia vera e propria, e non solo un assemblaggio di gags. Il film si chiude su un potenziale abbocco per un seguito, dipenderà dall'esito al box-office: però, se manca l'effetto del transfert temporale, c'è da chiedersi che senso possa avere.
RALPH SPACCA INTERNET ( Ralph breaks the Internet, USA 2018)
DI PHIL JOHNSTON, RICH MOORE
ANIMAZIONE
FANTASTICO/COMMEDIA/AZIONE
Anche se non è tra i record d'incassi assoluti di casa Disney, "Ralph Spaccatutto" è stato giudicato meritevole di un sequel, a giro abbastanza stretto ( uscì nel 2012), e le avventure del gigante forzuto e della bimba campionessa di corse automobilistiche, dall'universo dei videogames classici, che chiamavamo "arcade", vengono sbalzate nell'ancora più complesso universo internettiano. Infatti, per riparare la macchina di Vanellope, serve acquistarne un volante nuovo, e l'unico modo per procacciarselo, è di guadagnare via social network: l'operazione, che ai due personaggi principali appare dapprima molto astrusa, include, oltre allo scoprire appunto il grande marasma del web, anche la possibilità di nuovissime, potentissime nuove imprese, e sfondi ancora più fantasmagorici. La primissima parte di "Ralph Spacca Internet" è un pò macchinosa, per introdurre la nuova storia la sceneggiatura ci mette non poco, ma la musica cambia quando l'affaccio in Internet accade: e ritorna, ancora più sviluppato e ampio, il gioco di allusioni, citazioni e connessioni con il mondo Disney, con tanto di principesse in scena, anche funzionali alla storia, e apparizioni leggendarie di Iron Man, gli Storm Troopers lucasiani, C3PO come segretario, e i topolini di "Cenerentola" come alleati cruciali, diventa vorticoso. E se "King Kong" viene citato abbondantemente, ci sono accenni anche a saghe post-atomiche alla "Interceptor", e tanti altri agganci per appassionati di cinema. La parte più interessante del secondo capitolo, però, è la prospettiva agrodolce su cui la pellicola si chiude: perchè l' "e vissero felici e contenti" che suggella le favole ed i film d'animazione più classici, può diventare una rosea prigionia, e anche i personaggi possono fuoriuscire dalla dimensione in cui sono stati concepiti, così, arrivano a pretendere un'altro tipo di esistenza, anche se dichiarare conclusa una fase comporta sempre tanto coraggio, e porta con sè un pò di malinconia. Ma è il prezzo della crescita, e viene spiegato con garbo agli spettatori verso cui, in teoria, l'animazione è rivolta: anche se ci andiamo anche noi grandi, è sempre alla parte infante che, da qualche parte si illumina nel godersi un cartoon, che queste opere parlano.
IL PEGGIOR NATALE DELLA MIA VITA ( I, 2012)
DI ALESSANDRO GENOVESI
Con FABIO DE LUIGI, CRISTIANA CAPOTONDI, Diego Abatantuono, Antonio Catania.
COMMEDIA
A ruota dopo il buon successo commerciale de "La peggior settimana della mia vita", generata rifacendosi ad un programma tv inglese molto visto in patria, torna lo sventuratissimo Fabio De Luigi, che ce l'ha fatta a farsi ( più o meno) accettare dai suoceri Antonio Catania e Anna Bonaiuto, e all'inizio di questo secondo episodio, troviamo la moglie Cristiana Capotondi incinta: la famiglia si appresta a passare il Natale nel castello del ricco Diego Abatantuono, che si sente in debito d'amicizia con il suocero. Naturalmente, il protagonista darà luogo a incidenti, equivoci, e qui pro quo rovinosi, in attesa che il Natale passi e, forse, un lieto evento gli si accompagni. A dire il vero, anche se pare strano, se il primo film era insulso, questo è leggermente meglio, sarà per la presenza di Abatantuono, che conferisce un grado di ironia meno scialba, sarà per la storia che, forse, è leggermente più articolata rispetto al titolo precedente: certo che la ridda di sfortune, inciampi e tragicomici volgimenti al peggio di ogni situazione, alla lunga stanca, e si viaggia per accumulo, con il rischio, piuttosto evidente, di annoiare lo spettatore con un sistema di gags che si vorrebbero rifare alla comicità catastrofica dei cartoon Looney Tunes, ma a Genovesi manca il ritmo giusto. Abbastanza superflua l'esibizione di Andrea Mingardi e della giovanissima Rachele Amenta, nelle classicissime canzoni natalizie, si ridacchia qualche volta, ma, nonostante l'esigua durata del film, si ha tempo anche di sbadigliare.
SUSPIRIA ( Suspiria, I/USA 2018)
DI LUCA GUADAGNINO
Con DAKOTA JOHNSON, Tilda Swinton, Mia Roth, Angela Winkler.
HORROR
Riprendere un titolo di culto, che vanta appassionati tra i cinefili in tutto il mondo, era materia assai delicata: "Suspiria", che nel 1977 rappresentò la prima escursione nell'horror puro per Dario Argento, che con il genere aveva flirtato ma mai pienamente fino ad allora, ha oggi una rilettura firmata da Luca Guadagnino, su sceneggiatura di David Kajganich, che ha già scritto per il regista uno dei suoi lavori migliori, "A bigger splash". Non è un remake, che sarebbe stata la via più facile da prendere, ma una vera e propria rivisitazione, sul canovaccio preesistente: se il film argentiano era ambientato più o meno nel '77, ma, esclusa l'apertura in aeroporto, e un paio di sequenze in esterni, poteva benissimo essere un racconto che si svolgeva nel secolo precedente, qua la collocazione è molto specifica. Nella Berlino mostrataci infuria la tensione, la banda Baader-Meinhof di lì a poco perde i componenti ufficialmente suicidatisi, e la scuola di danza "Helena Markos" sorge vicino al muro che divide in due la città: lì arriva Susy Bannion dall'America, e impressiona da subito le insegnanti per la passione e per la foga con cui esegue le danze per cui è celebre l'accademia. In parallelo, l'anziano psicanalista Josef Klemperer, dapprima scettico, indaga su quel che gli ha raccontato l'allieva Patricia, di cui ha conservato il diario, dopo che la ragazza pare sparita nel nulla, a proposito delle troppe stranezze gravitanti attorno alla "Helena Markos". E' un film dell'orrore per adulti, il "Suspiria" di Guadagnino, un'opera complessa e a più chiavi di lettura, che mette in scena, delle streghe che forse rappresentano un concetto di Sinistra ( ideali contro lotta armata), e legami che emergono irrefrenabili in un contesto completamente al femminile ( l'unico personaggio maschile di rilievo, il dottor Klemperer, è anch'esso interpretato da una Tilda Swinton straordinaria, in tre ruoli): nel lungo lavoro del regista siciliano, che passa le due ore e mezzo di proiezione, ma avvince, se si entra nel meccanismo, per tutta la sua durata (la parte più debole è quella in cui si tirano le somme, lo showdown che è un delirio di sangue), e narra come si assomiglino i tanti tipi di malvagità umane, in nome della conservazione di ogni forma di regime. Quanto il "Suspiria" argentiano era un'opera d'arte barocca e scollegata dal reale, tanto questa rivisitazione è collocata in un contesto che tiene conto delle perversioni della Storia: eppure, al cospetto di ferocia, cattiveria e tendenza all'annichilimento dell'uno verso l'altro di tanti personaggi, il film si chiude sulla considerazione, imprevista e di puro sollievo, e qui una novella d'orrore cangia in un apologo spietatamente morale, che, infine, è l'esperienza dell'Amore provato e riuscito ad esprimersi, quello che resta di noi.
MOSCHETTIERI DEL RE- La penultima missione
( I, 2018)
DI GIOVANNI VERONESI
Con PIERFRANCESCO FAVINO, ROCCO PAPALEO, SERGIO RUBINI, VALERIO MASTANDREA.
COMMEDIA/AVVENTURA
Le avventure dei quattro moschettieri Athos, Porthos, Aramis e D'Artagnan, che viene sempre citato per ultimo, ma, come nel romanzo, è il prim'attore delle vicende, sono state portate più volte sugli schermi, grande e piccolo, ma con relativa fortuna, a parte le trasposizioni con Gene Kelly e Van Heflin, e quella con Oliver Reed e Michael York: è un destino, quello delle pagine dei Dumas, vedi anche per "Il conte di Montecristo", inspiegabilmente e apparentemente segnato. Classici dell'avventura, che parlano, fingendosi genere, di Storia, politica, rapporti e sentimenti umani, condendo il tutto con un umorismo sapido, i tre romanzi che compongono la storia dei Moschettieri raramente hanno generato buon cinema. E, per quanto sia apprezzabile la ricerca di una via alternativa alla commedia classica italiana di prima, e degli ultimi anni, in cui fin troppo sentimentalismo grava sui passaggi di sceneggiatura, oppure si fa una satira molto manichea, quando non annacquata, nemmeno Giovanni Veronesi fa un buon servizio agli eroi dumasiani: glissiamo pure sul fatto di ritrovarsi un D'Artagnan che parla con accento francesizzante, un Athos ed un Aramis dalla marcata provenienza dal Meridione italiano, ed un Porthos inequivocabilmente romanesco d'origine, ma è la sceneggiatura che va avanti a rabberci, la presunta "missione" ad un certo punto si vanifica o quasi, le situazioni che dovrebbero far ridere difficilmente trovano la tonalità giusta, fatta eccezione per qualche sparuta battuta azzeccata che gli esperti commedianti buttan lì con mestiere ( e il laconico Mastandrea la spunta sugli altri). Sebbene nel finale venga spiegato il perchè di tante cose astruse ritrovate nella proiezione, non basta a giustificare il corso tendente allo sgangherato della pellicola: e se come parodia si viaggia sul blando assai, come scene d'azione si rimpiange una singola scena di un qualsiasi film con Bud Spencer e Terence Hill, anche "Porgi l'altra guancia", che non è stato tra le cose migliori del duo (ma possibile che nel cinema italiano d'oggi non ci sia un maestro d'armi come quelli che coordinavano le sequenze delle scazzottate di allora?). C'è chi in sala se la ride di gusto, e verrebbe, a luci riaccese, di domandargliene il perché....
AQUAMAN ( Aquaman, USA/Aus 2018)
DI JAMES WAN
Con JASON MOMOA, Amber Heard, Patrick Wilson, Willem Dafoe.
FANTASTICO/AVVENTURA
Bollato per anni come lo "sfigato" di casa DC Comics, il re dei mari Aquaman si sta prendendo la sua rivincita surclassando vari titoli della parte cinematografica del colosso fumettistico: arrivato a 800 milioni di dollari di incasso totale, tra USA e resto del pianeta, infrangerà nuovi record, essendo uscito da sole tre settimane a livello internazionale. Ibrido tra umano e atlantideo, ha avuto negli anni 60 e 70 una relativa gloria come eroe dei cartoon che Hanna & Barbera trassero dalle strisce a fumetti, con il caratteristico costume arancio-verde e con la capigliatura biondissima. La versione cinematografica odierna riprende il corso degli ultimi anni a fumetti, con il supereroe barbuto e dalla capigliatura selvaggia e lunga (in parte della sua storia, Aquaman ha avuto anche una mano mozzata, rimpiazzata con un uncino-tridente): Jason Momoa, che da qualche anno a Hollywood provano a lanciare, ha trovato finalmente la via al successo, dando vita ad una rappresentazione simpaticamente grezza e tutta fisica. Benchè ci siano delle perplessità sul copione ( tipo uno tsunami super che non lascia più di tanto tracce di devastazione, e come mai l'eroe si decida solo molto avanti nella storia a sfruttare lo straordinario potere di comunicare con le creature del mare), il kolossal di James Wan funziona eccome: due ore e mezzo di inventiva visiva, con scenografie magniloquenti e fantasiose, creature orripilanti che risultano imparentate con mostri neoclassici (innegabile la somiglianza dei dentuti Trench con gli Alien), e una gestione della fotografia e delle musiche ( l'inglese Rupert Gregson-Williams, attivo da molto per il cinema, qui raggiunge il top della carriera: la scena della discesa negli abissi ha un commento che pare di Jean-Michel Jarre, elegantissimo) volte a confezionare un titolo per grandi platee divertente e con scene epiche, che ingloba anche una buona dose di ironia. Ci sono, nel film di Wan, imperfezioni consistenti ( tutto il prologo è fintissimo, purtroppo, alcuni presunti "colpi di scena" sono invece alquanto prevedibili), ma scene come il doppio combattimento in parallelo in Sicilia, l'ingresso nella tana del guardiano dell'abisso, la battaglia conclusiva, sono pagine di cinema d'avventura di serie A. Probabilmente questo successo darà nuova spinta alle iniziative DC Comics, molto più del mezzo passo falso compiuto con l'attesissimo "Justice League", che ebbe diversi travagli di produzione, e una sceneggiatura svogliatamente concepita sull'onda del "rivale" "The Avengers": un buon livello di intrattenimento paga sempre.
AL BAR DELLO SPORT ( I, 1983)
DI FRANCESCO MASSARO
Con LINO BANFI, JERRY CALA', Mara Venier, Pino Ammendola.
COMMEDIA
"E' stato Linoooo! Ci ho il moviolone!!" bercia con accento lombardo il proprietario del bar in cui si ritrova l'immigrato Lino con gli amici, tutti provenienti dal Sud dell'Italia e giunti a Torino sperando di trovare un lavoro solido: ospite della sorella e del cognato e trattato con sufficienza, quando non con sopportazione, vittima degli scherzi del nipote odioso, costretto a soffiare aria nell'acqua delle vongole al mercato e a muovere con la corrente (rischiando di rimanere fulminato) aragoste, il pover'uomo ha da tempo una relazione segreta con la bella cassiera del bar (Mara Venier), e spera di vincere un pò di soldi al Totocalcio. Il bello è che, grazie al suggerimento un pò folle del tuttofare muto del locale, Parola (Jerry Calà), il protagonista mette il 2 a Juventus-Catania e vince l'enorme somma di un miliardo e trecento milioni. Diffidente dei familiari e degli "amici", cerca di nascondere la vincita e progetta investimenti e un nuovo corso: ma siamo in una commedia, e la fortuna mica è tanto tenera con i personaggi. All'epoca della sua uscita questo era materiale soprattutto per seconde e terze visioni, in cui un film del genere faceva il pieno: negli anni è divenuto, così come "Vieni avanti cretino" e "L'allenatore del pallone", oggetto di culto, con appassionati che ricordano le battute a memoria e si concedono più visioni, magari in compagnia. Rispetto a diversi titoli diretti da Massaro e interpretati sia da Banfi che da Calà, "Al bar dello sport" ha dalla sua un garbo maggiore, e oggettivamente accenna a raccontare uno strato della società italiana dell'epoca ( i venuti dal Meridione ed il loro non semplice inserimento nei grandi centri del Nord) che un nato in anni recenti forse non può conoscere: tra sprazzi di umorismo paradossale ( l'amministratore di condominio en travesti) e tirate tra l'iroso e il disperato di Banfi, si può anche sorridere, anche se il copione, firmato in quattro( oltre a Massaro stesso, Enrico Oldoini, Franco Ferrini e Enrico Vanzina, è leggerino ai limiti dell'evanescenza. E come leit-motiv "L'italiano" di Toto Cutugno: siamo nel nazional-trash-cult-popolare anni Ottanta purissimo. C'è chi ne studia l'effetto irrinunciabile su molti nostalgici di tale periodo, più compostamente resta da dire che, sì, è robetta, ma, appunto, con qualche riuscito accenno di costume e società.
IL MISTERO DELLA CASA DEL TEMPO
( The house with a clock in its walls, USA 2018)
DI ELI ROTH
Con OWEN VACCARO, Jack Black, Cate Blanchett, Kyle MacLachlan.
FANTASTICO
Dalle truculenze di "Hostel" e "Green Inferno" al fantastico per ragazzi è un bel salto, per un regista, ma Eli Roth forse ambiva all'ingresso nel cinema per grandi platee: "Il mistero della casa del tempo" prevede un lato dark, con riesumazione di morti, e delle zucche maligne che quando esplodono diventano liquame giallognolo, ma in definitiva, è uno spettacolo soprattutto per giovanissimi. Nelle pareti della grande abitazione dello zio Jonathan, il ragazzo Lewis, rimasto orfano da poco di entrambi i genitori, sente ticchettare misteriosamente: dato che il congiunto e la vicina di casa sono uno stregone ed una strega ( buoni), qualcosa di decisamente anomalo sta per succedere. Tra vetrate che cambiano e comunicano, oggetti mirabolanti e cantine che celano segreti, il film strizza l'occhio ai fans dei vari "Harry Potter" e compagnia bella: il suo limite è che rievoca fin troppo scene e situazioni già viste, in questo ambito, e il suo pregio è che la butta discretamente sull'umorismo, anche se non tutte le gags risultano divertenti. Jack Black e Cate Blanchett stanno al gioco, mentre Kyle MacLachlan si alterna tra un "presente" (il film è comunque ambientato nei primissimi anni Sessanta) da zombie ed un passato in bianco e nero: Roth potrebbe, a questo punto, tramutarsi in un ordinario esecutore per produzioni medio-grosse, visto che sa come si gira un film e come lo si tiene insieme, meno come non sbracare e evitare che la storia si avviti su se stessa. Aspettarsi però qualcosa di più incisivo, o paradossalmente satirico, a suon di sangue e scene impressionanti, decisamente e prevedibilmente, no.
OPERATION FINALE ( Operation Finale, USA 2018)
DI CHRIS WEITZ
Con CHRIS ISAAK, BEN KINGSLEY, Mélanie Laurent, Joe Alwyn.
DRAMMATICO/THRILLER/BIOGRAFICO
La caccia ai criminali di guerra nazisti, di cui fu alfiere Simon Wiesenthal, fu una serie di operazioni volte ad assicurare alla Giustizia gente che della ferocia aveva fatto abuso durante la II Guerra Mondiale, e il servizio segreto israeliano, il Mossad, condusse in porto diverse missioni per processare ex-gerarchi ed alte cariche del partito nazista: Adolf Eichmann, come molti fuggito in Sud America, fu catturato e portato davanti alla corte nel 1961, a cui seguì la condanna a morte per impiccagione. Il film di Chris Weitz narra, ovviamente romanzando la vicenda, della messa a punto del rapimento dell'ex alto ufficiale e funzionario, tra i nomi di maggior peso all'interno del Reich: costruito come un thriller che rievoca alcuni passaggi dello spielberghiano "Munich", per la messa in scena dello staff di cacciatori di nazisti e dei rapporti, anche contrastanti, tra i membri, è una produzione di prim'ordine, anche se ha conosciuto la distribuzione soltanto via Netflix (facciamoci i conti, ormai fa parte della norma). In due ore e un soffio, si ha modo di seguire, tra Argentina e Israele, l'operazione, con l'ottica di Peter Malkin, cui dà fattezze Oscar Isaac, ossessionato dal dolore di aver perso una persona cara negli eccidi nazisti, e di osservare la "normalità" dell'Eichmann impersonato da Ben Kingsley, che dietro ad un aspetto di ometto poco significante cela un passato di morte e potere impastati da una malvagità di fondo inespugnabile. La prova di Kingsley, che esprime tutta la natura subdola del mostro nazista, che finge di provare rimorso per convenienza, e alla prima occasione tira fuori la propria viscida inumanità, è tra le cose migliori del lungometraggio, che ha un taglio molto classico, proprietà di inquadrature senza cedere ad accelerazioni forzate, ed una fotografia elegante di Javier Aguirresarobe, già apprezzato in "The Others" e "Mare dentro". Utile a non dimenticare l'insana onda di crudeltà che spazzò il mondo per lunghi anni, partendo dal centro dell'Europa, "Operation finale" è anche un racconto sul singolo al servizio del "bene comune" , e sui sacrifici inevitabili per esso.