IL GRANDE JAKE ( Big Jake, USA 1971)
DI GEORGE SHERMAN
Con JOHN WAYNE, Richard Boone, Patrick Wayne, Chris Mitchum.
WESTERN
Si parte con il massacro di una famiglia, per rapirne il membro più giovane, un ragazzino, da parte di una banda di desperados: la nonna del bambino non si fida però dell'apporto dello sceriffo e degli agenti federali, e chiama così l'ex-marito, un duro con il quale da anni non ha rapporti. Seppure la stazza fosse aumentata, un toupet in testa e il passo non più disinvolto e sciolto come negli anni d'oro, John Wayne, qui anche disposto a fare un pò d'autoironia, come si vede nelle scene in cui cade nel fango, e, clamoroso, ammette pure di aver paura, ad un certo punto della storia, entra in scena come un'icona americana che sia tale. Infatti, armato del suo fucile, a cavallo, ed accompagnato dal fidato collie scuro che lo segue dappertutto, manda all'aria i piani di tre figuri che vogliono impiccare un uomo. Partito all'inseguimento dei bravacci con l'aiuto di due dei figli, ne conquista durante il viaggio la perduta stima, e giunge al confronto finale con i banditi deciso a farne strage. Ai tempi in cui "Il grande Jake" uscì, si era soliti dare soprattutto una lettura ideologica dei film, e l'ultraconservatore John Wayne era spesso bacchettato, soprattutto negli ultimi anni di carriera, per l'ottica paternalistica e scettica sulle nuove generazioni: in questo senso, questo western scritto e diretto da George Sherman sarebbe stato in linea con detta considerazione. Ben fotografato, ma prevedibile nello svolgimento, contiene poca azione, data anche l'avanzata età del protagonista, salvo giungere ad uno showdown conclusivo, in cui la tattica di Jake e i suoi sfugge, dato che dà modo eccome di riorganizzarsi ai cattivi, ma alla fine sono questi ultimi che ci lasciano le penne. Non uno dei grandi western con Wayne, che aveva già dato il suo meglio nel genere, a parte il colpo di coda de "Il pistolero", ma decoroso, se si passa sopra la nonchalance con cui la morte, anche crudele, dei "sacrificabili" del manipolo degli eroi viene messa in secondo piano....
DOGMAN ( I/F 2018)
DI MATTEO GARRONE
Con MARCELLO FONTE, Edoardo Pesce, Alida Barbari Calabria, Adamo Dionisi.
DRAMMATICO
"Dogman" è la storia di due uomini: uno è un bambino cattivo mal cresciuto, che come tale si comporta, ma le cui dimensioni e l'attitudine violenta ne fanno un pericolo per la comunità, nemmeno poi tranquillissima, di uno squallido sobborgo romano; l'altro, e il titolo del film a lui si riferisce, è la sua vittima preferita, che subisce di tutto, dall'essere messo in mezzo alle botte, fino alla galera, che ad un certo punto mette in atto una vendetta ineluttabile. Ispirato al fatto di cronaca nerissima che trent'anni fa fece scorrere più di un brivido nell'opinione pubblica, riguardante "Er canaro della Magliana", che, come tristemente divenne noto, uccise l'ex amico, pugile dilettante, che lo vessava continuamente. A Cannes, nella recente edizione, l'ultimo lavoro di Matteo Garrone è stato molto acclamato, ed ha vinto il premio per la miglior interpretazione maschile, andato a Marcello Fonte: e appena uscito nelle sale, ha scatenato l'ira della madre di Ricci, la vittima dell'omicidio, il cui legale ha chiesto il risarcimento di un milione di euro e il sequestro della pellicola. Tornando al lungometraggio in sè, conferma il pessimismo meravigliato di un regista che non rinuncia mai ad un'illuminazione livida delle cose degli esseri umani: per lui dediti soprattutto a tirar fuori il proprio peggio, incapaci di volere il proprio bene e quello altrui, insaziabili nel correr dietro alle proprie debolezze, vizi e parti negative. Non c'è compiacimento alcuno in "Dogman", anche se il materiale era rischioso eccome. La violenza c'è, ma senza sadismo o accanimento: più che altro, è la dimensione naturale di questi reietti della Terra, in un quadro che non vede, tranne che nella bambina o in personaggi che transitano appena nelle scene, alcun personaggio veramente positivo. Marcello, il toilettatore di cani, è un ometto che arrotonda spacciando cocaina, anche se la gente lo tratta con simpatia e affetto: Simone, l'aguzzino, combina guai a tutto spiano, è invasato dall'utilizzo della coca, e spesso ricorre alla brutalità per togliersi d'impiccio. Tutta la storia è una via crucis verso un atto efferato, ma è un punto d'arrivo largamente prevedibile, in una novella amara e fluidamente scabra, che ricorda moltissimo l'apologo pasoliano di "Accattone": e il faticoso cammino conclusivo con il cadavere enorme sulle spalle rammenta appunto il segno della croce in catene che chiudeva quel titolo dell'autore de "Il vangelo secondo Matteo". Bravissimi gli interpreti, dal giustamente premiato Marcello Fonte, dal volto asimmetrico che ricorda Carlo Delle Piane, e di cui non ci togliamo di dosso lo sguardo immalinconito che non perde mai una forma d'innocenza (neanche quando attua il proprio piano), il naturalissimo Edoardo Pesce, attore abile anche nella commedia, notevole a sovraccaricare di odiosità il proprio orco di periferia, la splendida Alida Barbari Calabria, spontanea come non sempre i bambini al cinema risultano, e le facce dure di Adamo Dionisi e Francesco Acquaroli, al momento tra i migliori attori di supporto su cui conti il nostro cinema. C'è chi ha gridato al capolavoro, lo dirà il tempo: è comunque un film importante.
SOLO- A Star Wars Story ( Solo: A Star Wars Story, USA 2018)
DI RON HOWARD
Con ALDEN EHRENREICH, Emilia Clarke, Woody Harrelson, Donald Glover.
FANTASCIENZA/AVVENTURA
Il secondo spin-off dalle trilogie ufficiali di "Star Wars" inquadra quel che fu Han Solo prima di giungere al molo spaziale di Mos Eisley, incrociando la strada con quelle di Obi-Wan Kenobi, Luke Skywalker e Leia Organa: il film ce lo presenta giovane fuorilegge sul pianeta d'origine Corellia, in fuga da gangsters assieme alla fidanzata, ma i due vengono crudelmente separati dai rigidi controlli imperiali, e da lì in poi per il futuro pilota del "Millennium Falcon" sarà una vita ancora più avventurosa e a rischio. Il cambio di regia tra Phil Lord/Christopher Miller e Ron Howard, a riprese appena iniziate, poteva far presagire che il film zoppicasse, come purtroppo accade spesso in lungometraggi che hanno avuto una gestazione troppo stentata: però Howard, da scafato regista hollywoodiano, sapendo di avere da gestire una patata assai bollente per via dei fans della serie, sempre molto difficili da accontentare ( una volta per tutte, e lo dico da appassionato ormai quarantennale della saga della "Galassia, molto, molto lontana...", la vogliamo capire che sarebbe assurdo plasmare ogni film della serie tipo la trilogia '77/83?), e parte mettendo in scena una delle sequenze migliori della pellicola, con l'assalto al treno elevato, girata al cardiopalma. L'effetto di vedere un personaggio iconico interpretato da un altro è almeno straniante, all'inizio ( Ford non si sostituisce facilmente, e c'è da capire come sarà vedere "Terminator" senza Schwarzie, o il vociferato giovane Rambo senza Stallone) viene attenuato dal giovane Alden Ehrenreich che entra nel ruolo via via che il film scorre, anche se l'Han Solo prima versione era più disilluso e apparentemente più duro: del cast, però, quello che convince maggiormente è l'ambiguo ma accattivante Woody Harrelson nel ruolo del mentore di Solo. Concepito come un western spaziale, senza implicare Jedi o il lato mistico della saga, cosa del tutto logica, perchè infatti Han Solo è il personaggio che meno ha a che fare con questo, "Solo- A Star Wars Story" diverte, infilando almeno due sequenze da antologia della serie, vedi la sopra citata, e la fuga del "Falcon" dai caccia TIE sull'orlo del buco nero, e strizzando l'occhio ai cinefili con un paio di costumi che si vedranno più avanti nella saga, e l'apparizione di un malvagio conosciuto altrove cronologicamente. E' molto probabile che vedremo gli sviluppi di questo episodio, dato che Ehrenreich ha firmato per altri due film, ma prima avremo gli "Standalone" (termine con cui si definisce i film incentrati su un solo personaggio di un universo già definito, di Obi-Wan Kenobi, e di Boba Fett. Siamo avvertiti....
COME FARE CARRIERA....MOLTO DISONESTAMENTE( A shock to the system, USA 1990)DI JAN EGLESONCon MICHAEL CAINE, Elizabeth McGovern, Will Patton, Swoosie Kurtz.COMMEDIALa "Black comedy" è un sottogenere del brillante che da noi, salvo rare eccezioni ("Il vedovo" di Risi è tra le migliori) non ha mai fatto grandi proseliti, rimanendo più nella tradizione americana, e ancora più marcatamente, in quella britannica. Qui si narra di Graham Marshall, che ambisce a salire in graduatoria nella grande agenzia pubblicitaria in cui lavora da anni, pressato anche dalla moglie, che, stanco di non sfondare professionalmente, e di non potersi garantire quei lussi che gli sono sempre mancati, pensa di invertire le cose cominciando a mandare al Creatore chi lo intralcia, a partire proprio dalla consorte. Un poliziotto ostinato comincia però a stargli addosso, e l'amante ha dei dubbi su di lui: riuscirà a farla franca? Passata da noi abbastanza velocemente nei cinema, questa commedia firmata dal poi sparito Jan Egleson non è sgradevole, anche se sceneggiatura e regia non sfruttano il potenziale della storia appieno, e si ha più volte che la narrazione venga un pò tirata via per giungere al finale in bilico tra tensione e beffa. La cosa migliore della pellicola è l'interpretazione sottilmente maligna di Michael Caine, che mostra fin dall'inizio la natura del proprio personaggio, calcolatrice e senza coscienza, capace di spingere un mendicante sotto il metrò e allontanarsi con noncuranza, dopo avere appurato che nessun testimone potrebbe inguaiarlo. Per il resto, meglio la prima parte della seconda, ma qualche sorriso acido il film lo ottiene.
DEADPOOL 2 ( Deadpool 2, USA 2018)
DI DAVID LEITCH
Con RYAN REYNOLDS, Josh Brolin, Zazie Beetz, Morena Baccarin.
AZIONE/COMMEDIA/FANTASTICO
Il primo "Deadpool", in realtà seconda apparizione sugli schermi del più sboccato dei supereroi marvelliani ( analogo, in tal senso a "Lobo", pecora nera del mondo DC Comics) aveva realizzato in dieci giorni 400 milioni di dollari: questo capitolo secondo in un solo fine settimana è già sui 300 di incassi globali, garantito che batterà il primo film quanto a incassi. La scena si apre, tanto per dirne una, sul protagonista che si suicida, andando in cento pezzi: avremo successivamente modo di vedere quel che accade prima e dopo tale evento. Che per altri personaggi sarebbe cataclismatico, ma nella dimensione scanzonatissima del killer a tutta gag abilissimo nel massacrare i nemici, quanto a giocare di autoironia, è solo un segmento della trama. Passata la regia da Tim Miller a David Leitch, in questo nuovo episodio ci sono sterminii a velocità sostenuta, inimicizie che diventano alleanze, e un lato sentimental-coscienzioso dell'agitatissimo Deadpool che emerge: fino allo sberleffo di un finale che si riavvolge e diventa un'altra cosa. Il divertimento c'è, eccome, fin dal prologo, piuttosto lungo, e dai titoli di testa, sciroccati come è giusto auspicare. Anche se, va detto, dopo un avvio scoppiettante, nella prima parte la trama ci mette un pò ad ingranare, forse per troppo amor di citazione cinematografica e gusto per la comicità parodistica: però da metà proiezione in poi, "Deadpool 2" ingrana la quarta e riesce a miscelare con perizia una bella dose di spettacolarità, un'imprevedibilità selvatica nel mandare all'aria i canoni hollywoodiani di sviluppo di un racconto, e un umorismo apparentemente scellerato, che fa da controcanto a temi più seri come le vittime di abusi e la differenza tra Giustizia e Vendetta. Ci sono camei esilaranti (uno specialmente, attenzione ai fili dell'alta tensione...) e l'ingresso di personaggi classici della Marvel quali Cable, che ha il volto di Josh Brolin ( il primo caso di un attore che riveste due personaggi della Casa, è anche Thanos nell'ultimo "Avengers") e Il Fenomeno (Juggernaut) fratello colossale del Professor X, dedito al Male. Pur ammiccando diverse volte allo spettatore, suggerendogli che potrebbe essere l'ultimo capitolo del bizzarro antieroe, il franchise sembra avere fiato per un altro giro.
IL RACCONTO DEI RACCONTI - Tale of tales
(I/F/GB 2015)
DI MATTEO GARRONE
Con SALMA HAYEK, TOBY JONES, VINCENT CASSEL, SHIRLEY HENDERSON.
FANTASTICO
Progetto ambizioso, coproduzione tra Italia, Francia e Gran Bretagna, il kolossal che Matteo Garrone ha tratto dall'opera di Giambattista Basile ha avuto un'accoglienza discreta da parte della critica, alla sua uscita, e, senza raccogliere cifre notevoli, ha visto un'affluenza relativamente buona di pubblico. Dalla raccolta di novelle seicentesca, Garrone ed i suoi tre co-sceneggiatori hanno estrapolato tre storie: "La cerva", in cui una regina che non ha avuto figli è infelice, ed il suo consorte si sacrifica, dando retta ad un negromante, cacciando un drago marino per farne mangiare il cuore alla sposa, affinchè dia alla luce un bimbo; ma la sorte è beffarda, e per via dei vapori della cottura dell'organo del mostro, anche una serva rimane incinta e partorisce un bambino con il quale, il giovane principe ha in comune una forte somiglianza, oltre al giorno di nascita, ed un'empatia impressionante, scatenando la furia della regina; "Le due vecchie", che narra di un re vizioso che perde la testa sentendo cantare una donna del popolo, e la corteggia senza vederla: ma è una vecchia, che vive con la sorella, e inganna il regnante, passando al buio una notte con lui, per poi venir scaraventata dalla finestra nel bosco sottostante alla scoperta della frode. Una strega che la trova mezza moribonda la allatta, e la fa ringiovanire miracolosamente, facendo sì che il re, a caccia, la incontri e la prenda in moglie; "La pulce", nel quale un altro re nutre una pulce fino a farla diventare grande come un grosso cane, e quando muore, per accontentare la figlia che vuole prender marito, indice un indovinello per cui, chi indovina di quale animale sia la pelle che fa tendere in un salone, ma sarà un orco solitario il vincitore della tenzone. La cura con cui Garrone ha allestito questa sua ottava regia è ineccepibile: la qualità di costumi, scenografie, fotografia, gli effetti speciali delle creature, di prim'ordine, intessute da un commento musicale moderno e funzionale, ha meritato i molti premi ottenuti dalla pellicola. E il cast di peso, con volti internazionali ( anche chi, come John C. Reilly, ha pochissime scene), e nostrani, come Massimo Ceccherini, Alba Rohrwacher, che appaiono quasi di sfuggita in parti minori, aiuta il disegno della regia con uno stile di recitazione marcata ma consona alla dimensione fantastica del racconto. Però, la cupezza di fondo di fiabe nate dalla tradizione popolare, con un impasto di fantasia, crudeltà ed erotismo pervade la visione che risulta più cerebrale che sentita: e, alla fine, si rimane più ammirati per la messa in scena di alto livello, che appassionati o stuzzicati dall'effetto di una favola che si traduca in metafora. Sarebbe bello anche qualcosa tratto dalle "Fiabe italiane" di Italo Calvino, ma chissà se a qualche regista verrà voglia di mettervi mano.
LORO- 2 ( I/F, 2018)
DI PAOLO SORRENTINO
Con TONI SERVILLO, ELENA SOFIA RICCI, Riccardo Scamarcio, Kasia Smutniak.
DRAMMATICO/GROTTESCO
A pochi giorni dall'uscita del primo segmento, ecco la restante metà del dittico di Paolo Sorrentino sul fenomeno-Berlusconi. Come per "Novecento" di Bertolucci, l'aver diviso in due un'opera comunque molto densa e sentita per chi l'ha firmata, ha un significato che va oltre la praticità di aver separato un materiale piuttosto lungo: si tratta, anche, di voler leggere con un'ottica diversa, anzi, con due ottiche, o forse da due punti di vista, il medesimo tema. Infatti, se in "Loro-1" si trattava maggiormente della bolgia umana ruotante attorno ad un Berlusconi sconfitto politicamente alle elezioni del 2006, con ampie disgressioni pertinenti al sesso ed ai corpi femminili offerti in visione e fruizione a sbavanti figuri di svariato cabotaggio e grado di potere, in questa parte seconda, ciò viene messo in secondo piano, anche se si apre con uno dei principali personaggi femminili che si depila indelicatamente il pube al bordo di una piscina. E sale più in primo piano la solitudine concreta dell' uomo-Berlusconi, pur circondato da sfarfallanti fanciulle tutte gongolanti nel gorgheggiare assieme a lui canzoni napoletane ( a dire il vero, c'è un eccesso di parti cantate che rappresentano una delle cose meno interessanti dell'intera operazione), però tradito da figure che lo hanno precedentemente sostenuto, e, ancor peggio, ripudiato dalla donna che aveva scelto come compagna di vita. I dialoghi desolati, di una donna ferita, immalinconita, amareggiata, con un eterno rampante, egocentrico al cubo, smanioso di piacere a tutti per non dispiacere a se stesso, invece, sono tra le cose più belle di questo film. Il quale ha uno dei finali più aspri, dolorosi, che si ricordi tra quelli degli ultimi anni: il pasto silente, dei vigili del fuoco accorsi dopo il terremoto, e che si apprestano allo sforzo titanico e necessario di cercare di risistemare le cose mentre intorno sono solo macerie. Una metafora sull'Italia post-berlusconiana, dopo lazzi, intrallazzi, gaia superficialità e giravolte di favori e spinte, che lascia attoniti, come quando si riceve uno schiaffo inatteso. Nel dipingere un Silvio Berlusconi che si disinteressa di tutto che non sia il proprio sollazzo, e che non sia manovrato da se stesso, Toni Servillo mette, forse, un pò troppa vis caricaturale, più che altro nelle espressioni: mentre Elena Sofia Ricci dà un'eleganza indignata alla sua Veronica Lario, che non si dimentica ( e si concede anche un nudo integrale, a cinquantasei anni, di tutto rispetto). Resoconto critico, anche quando non dà l'impressione di esserlo appieno, di anni persi di un Paese dietro al fatuo ed al ludico assurti a condizione mentale e sociale, "Loro" farà ancora più male tra un pò di tempo, quando avremo più modo di capire fino a dove quel mondo garrulo e corrotto ha corroso questa società.
COME UN GATTO IN TANGENZIALE ( I, 2017)
DI RICCARDO MILANI
Con PAOLA CORTELLESI, ANTONIO ALBANESE, Sonia Bergamasco, Claudio Amendola.
COMMEDIA
Ad oggi, il maggiore incasso italiano della stagione 2017/18, "Come un gatto in tangenziale" segue di un anno la prima occasione che vedeva collaborare alla stessa pellicola Paola Cortellesi, Antonio Albanese e Riccardo Milani, "Mamma o papà?". Il quale aveva colto un buon risultato commerciale, da remake all'italiana di un hit francese, però era parso anche scontato, preconfezionato e non dotato di gran sapore, seppure al pubblico fosse piaciuto. Visto che i tre si erano trovati bene assieme, e quel progetto aveva funzionato, ecco bissata quell'esperienza: qua l'attrice romana interpreta una mamma quarantenne che vive nelle periferie di Roma ( Bastogi, per la precisione), che richiamano le banlieues delle grandi città transalpine, il cui figlio preadolescente si mette insieme alla figlia di un intellettuale, coordinatore di un think tank che lavora proprio allo studio di ambienti sociali come quello in cui la famiglia della donna vive. Naturalmente, saranno scintille, sia perchè si tratta di due mondi vicini ma assai distanti, e anche perchè, pur con tutta l'apertura mentale di un intellettuale di sinistra, certa realtà ha un impatto stordente.... Diciamolo subito, questa volta il trio Cortellesi/Albanese/Milani ha fatto centro: scritto in quattro, il che non garantisce spesso una buona riuscita, il film ha la buona ventura di divertire toccando anche temi non banali, con uno sguardo al sociale, ironizzando senza essere gratuitamente offensivo su due forme di micro-società presenti eccome in quella macro-moderna. Inoltre, altro merito da ascrivere al lungometraggio, si nota una mano convincente nel tratteggio di alcuni personaggi secondari, efficaci nell'arricchire di umorismo la storia, che ricordano alcuni tipi del cinema del primo Scola. In palla entrambi gli interpreti principali, anche se Paola Cortellesi dà forse qualche sfumatura in più al proprio personaggio. Il buon gusto di un finale aperto ricorda che, pure in una commedia, la necessità di stare con i piedi per terra, sommata al naturale slancio di una visione più rosea delle cose, può essere una mistura abile nel mandare ancora sorridente lo spettatore via dalla proiezione.
JUMANJI- Benvenuti nella jungla
( Jumanji: Welcome to the jungle, USA 2017)
DI JAKE KASDAN
Con DWAYNE JOHNSON, Jack Black, Kevin Hart, Karen Gillan.
FANTASTICO/AVVENTURA/COMMEDIA
In Italia ottenne un discreto successo, ma in giro per il mondo fece incassi di alto livello, e per la generazione nata intorno al 1980, "Jumanji", di Joe Johnston, con Robin Williams, divenne quasi immediatamente un titolo di culto: l'operazione-remake è partita pensando probabilmente a quelli che furono ragazzi a metà anni Novanta, e hanno inserito il film tra i classici dell'adolescenza. Commedia di stampo fantastico, con un gioco da tavolo che proiettava all'interno di se stesso i giocatori, con un'esplosione di adrenalina a compensare il rischio di rimanere intrappolati dentro alla dimensione ludica, la pellicola è stata rifatta cambiando non poco lo sviluppo della trama. Ad esempio, non si tratta più di un gioco di società, ma di un videogame, e, data la presenza della star una volta del quadrato del wrestling ed oggi del cinema Dwayne Johnson, c'è più azione: va detto che Johnson, per quanto nasca come interprete di cinema d'azione muscolare, sa fare autoironia, e spesso questo è evidente nei copioni dei lungometraggi che interpreta. Tocca ad un figlio d'arte, Jake Kasdan, dirigere questo remake, e alla fine, per quanto non accada, sostanzialmente, nulla che non ci si possa immaginare, se la missione era intrattenere con buoni effetti speciali, un pò di humour, un pubblico giovanissimo, si può dire che non sia fallita. Il film, leggerino quanto si vuole, si fa seguire senza annoiare, gli "alter ego", o "avatar" che sono appunto Johnson, Jack Black, Kevin Hart e Karen Gillan, sono in scena per la maggior parte del tempo della proiezione, l'antagonista Bobby Cannavale funziona. Certo, se si cerca adrenalina vera, è bene rivolgersi altrove, ma questo "Jumanji" è come quei giri sulle attrazioni del luna park che nulla di più, ma anche nulla di meno, danno di quel che promettono.
IL MORALISTA ( I, 1959)
DI GIORGIO BIANCHI
Con ALBERTO SORDI, Vittorio De Sica, Franca Valeri, Franco Fabrizi.
COMMEDIA
L'iperattività di Alberto Sordi, già esploso dalla metà degli anni Cinquanta, come nome "pesante" al botteghino, che girava un film dopo l'altro, spesso accompagnato da veterani dello schermo come Vittorio De Sica, presente anche qui, era impressionante. Nell'impersonare il censore Agostino, terrore di "cinematografari" e di gente dello spettacolo per la rigidità del proprio metro di giudizio, Sordi mette tanto istrionismo, ma di fatto si cuce il film addosso: perchè, pur rimanendo uno spettacolo sostanzialmente gradevole, grazie, appunto, anche al mestiere di attori molto professionali, come appunto De Sica, Franca Valeri, Franco Fabrizi, questo lungometraggio stempera via via che scorre la propria carica sarcastica. Anche perchè Giorgio Bianchi fu un regista onesto, ma di personalità non fortissima: quindi nella nostra memoria di spettatori rimangono, più che altro, i tic del protagonista, i suoi strilletti di soddisfazione a malapena trattenuti, lo sgranare gli occhi dietro gli occhiali dalla montatura anonima, quello sparare le battute alternando la quasi solennità ad un bambinesco, vezzoso intercalare. Nella seconda parte, ad un certo punto, il film pare accantonare lo scenicamente pantagruelico Sordi, che sparisce per un pò, salvo ritornare nel finale, rivelando la vera natura infame del perbenista per finta Agostino. Se si ride, è grazie soprattutto alla verve maligna di un Albertone incontenibile ma ispirato.
A QUIET PLACE- Un posto tranquillo
( A quiet place, USA 2018)
DI JOHN KRASINSKI
Con EMILY BLUNT, JOHN KRASINSKI, Millicent Simmonds, Noah Jupe.
FANTASCIENZA
"E' il suono!" titola un giornale residuo, uno degli ultimi usciti, dopo che qualcosa ha decimato l'umanità: quando "A quiet place" inizia, tutto è già successo, e la famiglia protagonista, gli Abbott, dopo oltre un anno di dura sopravvivenza nella loro fattoria, sta cercando mezzi di sostentamento e provviste nei locali abbandonati della cittadina vicina. Naturalmente, con il comandamento, per non rischiare la vita, di non emettere parola nè suono alcuno. Ma la più piccola dei tre figli avvia un aereo-giocattolo, attirando l'attenzione di una delle creature mostruose che hanno sterminato la maggior parte della popolazione. I quali mostri hanno una testa che si scompone di continuo come un cubo di Rubik, padiglioni auricolari mastodontici, e due zampe anteriori da aracnidi con le quali si spostano veloci e tritano ciò che trovano. La terza regia di John Krasinski si apre con una tragedia personale, che si aggiunge ad una collettiva: siamo, per filone narrativo, dalle parti di "E venne il giorno", con una componente fantascientifica/horror più marcata, e con la particolarità che il film è per quasi tutta la sua durata sprovvisto di dialoghi, perlopiù sostituito da gestualità adottate dal linguaggio mimico per non udenti. Caso dei primi mesi cinematografici dell'anno in America, ove ha raggiunto cifre robuste, "A quiet place" è una parabola sulla capacità di sopravvivenza, sulla necessità di credere che una fase pur disperata è superabile, sulla base dell'intelligenza che l'umanità è capace di tirare fuori di fronte alle avversioni ed alle probabilità che l'ambiente gli gioca contro, e sul sentimento, di qualsiasi natura esso sia, come collante di una comunità, per piccola che sia. Costruito in sostanziale economia, il film verte più che altro sulla prova degli attori e sulle idee di regia, che non mancano di accattivare lo spettatore: Krasinski regista elabora in modo convincente scene la cui suspence picchia con sapienza sui nervi dello spettatore, allineando creature e personaggi umani ai margini della medesima inquadratura, mostrando il meno possibile gli abominii che accorrono inferociti ove il suono proviene. Si potrà dire che si sono già viste storie simili, ma è un titolo di fantascienza efficace, ben gestito, che fino all'ultimo minuto tiene il pubblico in allerta.
RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI
( I/PL/CH, 2018)
DI ANTONIO MORABITO
Con CLAUDIO SANTAMARIA, MARCO GIALLINI, Flonja Khodeli, Jerzy Stuhr.
DRAMMATICO
Se il lavoro classico latita, o rimane precario, ci sono nuove professioni che, via via, vengono fuori: se ne accorge Guido, che perde l'ultimo impiego ottenuto come magazziniere, e, senza neanche i soldi per pagare la corrente, viene aggredito e malmenato da un tizio che riscuote i crediti, dato che ha diverse migliaia di euro da rendere, da un pò di tempo, ad una banca. Recatosi da un boss dell'agenza di riscossione, si offre come nuovo "addetto" a recuperare, con le buone o con le cattive, e soprattutto le seconde, il denaro dai morosi: gli viene affiancato un "partner" di esperienza, Franco, che insegna al più giovane come tenere a bada il coinvolgimento emotivo, e a tirare fuori l'aggressività che serve per compiere le varie operazioni. "Rimetti a noi i nostri debiti" è un dramma corrente, che fotografa un'Italia ai margini, fatta di buchi e soprusi, di vite in difficoltà, e di cinismo venduto come metodo di lavoro: Antonio Morabito, che aveva girato un altro titolo, "Il venditore di medicine", in cui si esploravano le magagne dietro al piazzamento dei prodotti farmaceutici, intende raccontare uno spaccato sociale lontanissimo dall'essere edificante, eppure, purtroppo, molto realistico, che indugia nelle periferie più abbandonate, e nelle vite di persone allo sbando, ficcate in un angolo dai rovesci della vita e dai metodi di misura di una società sempre più avvezza a dividere per categorie. Claudio Santamaria mette nel suo incerto Guido i rancori, le esitazioni, le rabbie e la vergogna di troppi passi sbagliati, mentre Marco Giallini dà qualche punto al collega, accollandosi le sgradevolezze di un compito infame, lasciando trasparire, solo in un'occasione, quando le cose si saranno fatte più grosse e irreparabili, un minimo segno di disperazione, o di relativo pentimento circa le azioni fatte per contratto quotidianamente. Cinema medio, d'accordo: ma con il coraggio della propria amarezza, senza ricorrere alla ricerca di un troppo comodo riscatto finale, o di un finale consolatorio.
LORO- 1 ( I/F, 2018)
DI PAOLO SORRENTINO
Con TONI SERVILLO, RICCARDO SCAMARCIO, KASIA SMUTNIAK, Fabrizio Bentivoglio.
COMMEDIA/DRAMMATICO/GROTTESCO
Se "Youth- La giovinezza" era, nonostante la presenza, nel cast, di nomi di peso internazionale quali Michael Caine e Harvey Keitel, un film "in piccolo" per un regista fresco di premio Oscar, dopo un affresco di impatto come "La grande bellezza", Sorrentino alza il tiro e con "Loro" gira, più che un film su Berlusconi, un film sugli italiani colpiti dagli effetti del "berlusconismo". Infatti, "Silvio", come amavano e amano chiamarlo i più affascinati dal "miliardario ridens", entra in scena dopo circa un'ora di proiezione di questa prima metà dell'opera. Ma di "LUI", come i più vicini all'uomo di potere lo designano sulla rubrica del telefono cellulare, si sente la presenza nei discorsi, nel riferirsi, in un Paese che si dibatte in un Nulla fatto di emulazione, di desiderio, di vivere il Presente e basta, senza alcuna prospettiva, nè considerazione di futuro. Perchè conta "esserci" e basta, e il corpo, la dignità, il lavoro, sono merci da barattare con le conoscenze, con l'avere un ruolo, con il poter mettersi in mostra. La sceneggiatura di Sorrentino e Umberto Contarello inquadra personaggi che, diversamente da "Il divo", in cui si trattava di cose già remote, sono appena dietro le spalle, come l'intrallazzone Tarantini, cui fa esplicitamente il verso il ruffiano Riccardo Scamarcio, o l'ex-ministro che compone queruli versi d'adorazione per il leader del centro-destra, e nell'ombra vorrebbe prenderne il posto, interpretato da Fabrizio Bentivoglio ( un impasto di Bondi e Fini?). In questo quadro d'Italia vana e vanitosa, di un benessere esibito grottescamente che rivela il proprio squallore strutturale appena gli altri non vedono, il sesso è moneta e destinazione finale: nel film trapela di continuo, tra sveltine in terrazza o scambi di favori al prezzo di una scopata, che sia anelato, negato, imposto, suggerito o consumato. E tra feste orgiastiche, di corpi che si sfiorano, che si esibiscono e si ammirano, che ricordano certe pagine del pieno declino dell' Impero Romano, o di qualsiasi altra forma di Potere autodefinitosi assoluto, la regia infila surreali apparizioni di animali, vistosamente realizzati con la computer graphic, che creano scompiglio per gli esseri umani, mossi ormai più dagli istinti che dalla Ragione. La perplessità di cui si legge su giornali o su altre forme di media, circa questo primo atto di "Loro", ricorda molto da vicino quella con cui fu accolto anche "La grande bellezza", benchè poi, tra youtubesche citazioni e visualizzazioni, con l'assegnazione dell'Oscar sia un film che abbia assunto una forte importanza, che lo si ami o meno: ma, in un lungometraggio che ha probabilmente necessità di ricongiungersi alla sua seconda metà, è tra le righe che sfuma una relativa forma "acritica" su un Berlusconi che viene dipinto distratto o annoiato, ignorato dalla moglie che lo contempla mai senza delusione, eppure adorato a distanza dalle frotte dei tanti "Loro" che vorrebbero essere, almeno per un periodo, quasi come lui. Perchè, che sconcerti il nipote con un ragionamento che nega un'evidenza, o passi, in pochi secondi, da una svagata rassicurazione al liquidare un ex-adepto divenuto un potenziale rivale, promettendogli un affondamento nel limbo, esibendo foga da grande predatore, quasi a compensare lo slancio da gran seduttore della sequenza conclusiva, sulla giostra, con tanto di canzone del cuore tirata fuori dal cilindro, per riagguantare la consorte che gli sfugge, è la scrematura dal personaggio, il segreto disegno dell'operazione. Per provare, forse, a cercare di capirne l'ascendente sull'italiano d'oggi, o di appena ieri.
LE CINQUE CHIAVI DEL TERRORE
( Dr. Terror's house of horrors, GB 1965)
DI FREDDIE FRANCIS
Con PETER CUSHING, CHRISTOPHER LEE, Michael Gough, Donald Sutherland.
HORROR
Cinque sconosciuti nello scompartimento di un treno, in Inghilterra, si mettono comodi e si preparano al viaggio che li separa dalle loro destinazioni: giunge un sesto personaggio, con un mazzo di carte, che dice di chiamarsi "Dottor Shock" (in originale "Dr. Terror"), e annuncia ad ognuno degli altri viaggiatori quello che accadrà loro in un futuro molto vicino, inquietando fortemente i presenti. E per ognuno c'è una carta finale che è l'alternativa a questa prospettiva. Visto che sono presenti Peter Cushing (abbondantemente truccato con barba, cappello e sopracciglia folte) e Christopher Lee, sebbene non sia una produzione Hammer, ci si aspetta da subito lo sviluppo di racconti nello stile "anglo-gotico" ricreato dalla casa di produzione che dalla fine degli anni Cinquanta ripropose gli orrori classici di Frankenstein, Dracula, mummie e licantropi con colori accesi e più sangue finto nelle inquadrature. Ma l'approccio del film di Freddie Francis, due volte premio Oscar come miglior direttore della fotografia, rimanda di più alla serie, all'epoca molto in voga, "Ai confini della realtà", con episodi che potevano risultare dei piccoli racconti morali ( in questo, il piccolo episodio horror con finale "bacchettatore" era tipico anche dei fumetti, vedi quelli che riguardavano lo "Zio Tibia"). A modo suo, "Le cinque chiavi del terrore", pur con effetti speciali abbastanza modesti, soprattutto nel segmento in cui c'è un vampiro, è divenuto un piccolo classico, che, a sorpresa, in diversi cinefili e appassionati del cinema d'orrore conoscono bene. Interessante soprattutto per il discreto gioco d'attori, dato che, oltre ai citati "dioscuri dell'horror", c'è anche un giovane Donald Sutherland, ed il caratterista Michael Gough, visto, ad esempio, ne "La mia africa" e come maggiordomo di Bruce Wayne nel "Batman" di Tim Burton. Quanto a brividi, meglio cercare altrove...
IL SEGRETO DEL MIO SUCCESSO
( The secret of my success, USA 1987)
DI HERBERT ROSS
Con MICHAEL J. FOX, Helen Slater, Margaret Whitton, Richard Jordan.
COMMEDIA
Laureato e proveniente dalla campagna, il giovane Brantley giunge nella Grande Mela a caccia di occasioni per costruirsi un futuro ben piazzato ai piani alti della società americana: riesce ad entrare in una grande azienda gestita da uno zio, ma il parente non ha neanche idea di chi sia, e le mansioni che gli toccheranno, nonostante la facoltosa parentela, saranno quelle del fattorino. Però il ragazzo è vispo, e riesce a spacciarsi per un nuovo, rampantissimo manager con idee molto chiare sul come impostare i programmi dell'azienda, e, tra l'altro, la giovane amante dello zietto è molto bella, e dopo una certa freddezza iniziale, pare non disdegnare la corte del nuovo arrivato. E poi, la moglie insoddisfatta dello zio, bella quarantenne con il fuoco dentro, seduce il nipote acquisito: come andrà a finire? Herbert Ross, veterano della commedia, capace di firmare spesso titoli brillanti e non sguaiati, piazza un libro di Colette in mano alla dormiente zia/amante, ed infatti il soggetto strizza l'occhio a certi classici intrisi di giochi di potere e trattative che si incrociano con le performances amatorie. Ma "Il segreto del mio successo", benchè, appunto, sia composto nel canovaccio da un susseguirsi di giravolte, identità fittizie, e rapporti clandestini, di erotico non ha niente, semplicemente gioca con la pochade: fu un grande successo in America, nel 1987, per un Michael J. Fox che stava cogliendo i frutti del grande risultato di "Ritorno al futuro", però, la sceneggiatura è almeno ambigua. Dato che, in piena "reaganomy" e di yuppismo imperante, c'era un capitalismo che rialzava la cresta e, a discapito delle masse di lavoratori, non disdegnava i tagli corposi al personale, privilegiando le fasce alte tra i dipendenti delle aziende ( insomma, come sarebbe accaduto senza colpo ferire al giorno d'oggi), i protagonisti si schierano contro un sistema del genere, ma nel finale si sostituiscono ai boss con tanto di posto assicurato in limousine. Non si capisce se è una nota sarcastica, quasi a sottolineare che, dopo ogni rivoluzione, è pronto un restauro, o semplicemente un happy end di quelli che uno vale l'altro.
TOMB RAIDER ( Tomb Raider, USA 2018)
DI ROAR UTHAUG
Con ALICIA VIKANDER, Dominic West, Walton Goggins, Daniel Wu.
AVVENTURA/FANTASTICO
Si parlava da un bel pò di un reboot delle avventure cinematografiche di Lara Croft, e alla fine, il progetto si è concretizzato: tenendo conto dell'evoluzione grafica del personaggio nel mondo videoludico, si è puntato meno sulle curve sensuali di quando venne scelta Angelina Jolie e i produttori hanno ingaggiato la più atletica Alicia Vikander, in una storia che narra le origini del controcanto al femminile di Indiana Jones. Abbiamo modo qui di vederla in versione infante, nei flashbacks, a confronto con l'amato e sperduto padre, di cui ha sentito ovviamente una gran mancanza crescendo: il destino vuole che la ragazza ritrovi tracce del genitore in una ricerca, risolvendo enigmi, che la porta a Hong Kong e poi all'isola di Yamatai, in cui sembra che sia sepolto un segreto nella tomba di un'antica regina, che è la ragione per la quale il padre dell'eroina è partito senza fare ritorno. Diretto dal norvegese Roar Uthaug, il cui nome pare un rumore onomatopeico, questo re-inizio delle avventure della ragazza a caccia di manufatti e sfidante nemici e mostri di ogni tipo poco aggiunge ad una saga che già non aveva inciso granchè: la Vikander pare sprecata in una parte con la quale ha un approccio più che altro ginnico, e se il plot è risaputo, anche le scene d'azione appaiono molto macchinose. Con il risultato, non incoraggiante, di far percepire una sensazione di asfittico, che è l'opposto di quello che un cinema di avventura dovrebbe far provare allo spettatore. Dato che al box-office, la regola primaria è che per essere definito un successo vero e proprio, un film deve incassare tre volte quel che è costato, i 270 milioni di dollari entrati nelle casse della produzione, confrontati con i 94 del budget compensano perfettamente lo sforzo economico, e lasciano pensare che vedremo altri episodi. Ma non è che questa ripartenza sia incoraggiante...
TUTTI I SOLDI DEL MONDO ( All the money in the world, USA/GB 2017)
DI RIDLEY SCOTT
Con MICHELLE WILLIAMS, CHRISTOPHER PLUMMER, MARK WAHLBERG, CHARLIE PLUMMER.
DRAMMATICO
Il cinema di Ridley Scott non lascia mai indifferenti: a fronte di opere che hanno, lo si riconosca o meno, segnato l'immaginario collettivo, quali "Alien", "Blade Runner", "Thelma & Louise", ci sono sbandate clamorose come "Soldato Jane", "Un'ottima annata", o cose riuscite alla meno peggio come "Prometheus" . "Tutti i soldi del mondo" è già passato alla Storia del cinema per la rimozione in corsa di Kevin Spacey a tempo record, per il noto scandalo che l'ha coinvolto, rimpiazzandolo con Christopher Plummer per il ruolo del magnate dispotico J. Paul Getty, tra l'altro conquistando una nomination come miglior attore non protagonista per la prova. In questa venticinquesima regia, il regista di "Black rain" narra il rapimento del nipote del ricchissimo tycoon del petrolio, John Paul Getty III, in Italia, da parte di membri della 'ndrangheta, ed i tentativi di salvare il giovane, nonostante la crudeltà dei sequestratori, che tagliarono un orecchio al ragazzo per convincere l'arido nonno a inviare il denaro. Purtroppo questo lavoro rientra nel peggio offerto dal director inglese, che salva appena il livello visivo del lungometraggio: perchè, in quanto a scrittura, definizione di ruoli e psicologie, descrizione del contesto anni Settanta in cui la vicenda si svolge, viene da domandarsi che inciampo, senza rendersene conto, abbia preso Scott. Il questore di Roma che prende ordini da un factotum di Getty davanti all'esercito ed ai Carabinieri? Caserme che accolgono il rapito in fuga e lo riconsegnano ai malviventi? Un'Italia, tra la Capitale e la Calabria, meno vivibile di un qualsiasi Stato del Terzo Mondo, ma è un vizio che, nel descrivere il nostro Paese, Ridley Scott ha avuto spesso, perchè anche la Firenze di "Hannibal" era un posto irreale ( la nebbia in piazza della Repubblica? Ma quando mai???); inoltre, il racconto, nonostante le potenzialità, non decolla mai, l'inumanità di Getty Sr., sebbene ben resa da Christopher Plummer, riguardo ai grandi taccagni del cinema, non dice niente di nuovo, tutto l'aspetto da thriller della storia, nelle trattative e nei rapporti tra sequestrato e aguzzini, sa di dejà vu e di bolso. Un film sbagliato, in maniera piuttosto palese, che per tutta la sua durata mostra artificio e cattiva impostazione.