DOWNSIZING- Vivere alla grande
( Downsizing, USA 2017)
DI ALEXANDER PAYNE
Con MATT DAMON, Hong Chau, Christoph Waltz, Udo Kier.
COMMEDIA/FANTASCIENZA
Come risolvere il problema della sovrappopolazione mondiale, che, al momento, sembriamo non considerare abbastanza, ma in futuro darà molti problemi di sicuro? Scienziati all'avanguardia scoprono la maniera di rimpicciolire gli esseri viventi, e la scelta, appunto, di ridursi di dimensioni, con tanto di ambienti in scala, potrebbe essere un'idea. In seria difficoltà di bilancio, Paul e Audrey Safranek (Matt Damon e Kristen Wiig) decidono di farsi includere tra gli americani che optano per la scelta, non reversibile, di diventare alti non più di quindici centimetri, ma al momento cruciale, la donna cambia idea, mentre il marito prosegue. Scoprirà tutto un mondo diverso, tra i "ridotti", e cambierà anch'egli, a contatto con una comunità diversa. Il nuovo film di Alexander Payne, presentato all'ultimo festival di Venezia, ha conosciuto stroncature di livello ( l' "Herald Tribune" lo ha definito "un fiasco narrativo, di tono, visivo e sociopolitico"), anche troppo feroci, però, a dir la verità, dall'autore di "A proposito di Schmidt" e "Nebraska", che ha qualità non comuni nel dipingere la società americana, raccontando piccole storie che compongono un mosaico complesso, ci si aspetta sempre qualcosa di molto significativo. Uno dei difetti principali di "Downsizing" è la durata, ipertrofica, di due ore e venti minuti, che, soprattutto nella seconda parte, rivelano una fiducia eccessiva, fino all'autocompiacimento, della regia nel proprio talento narrativo: invece la pellicola ci mette molto più del necessario ad arrivare al prevedibile finale che vedremo. Attraversato da una dose di malinconia imprescindibile nel cinema di questo regista, comunque capace e degno di nota, il film abbozza un discorso apprezzabile, ma più volenteroso che efficace, sulla necessità della solidarietà come sbocco dell'umanità, bacchettando certe scelte infine egoistiche di chi sceglie la fuga o l'autoesilio, di certi intellettuali che alzano bandiera bianca invece di proporre e suggerire. Del cast il più in palla è Christoph Waltz, nel ruolo del disincantato vicino di casa del protagonista, mentre viene sprecata Kristen Wiig, con poco spazio e una parte rabberciata. Non merita una stroncatura sonora come quelle di cui sopra, però va detto che non sarà ricordato come uno dei passi più riusciti della filmografia di Payne.
LA RABBIA GIOVANE ( Badlands, USA 1973)
DI TERRENCE MALICK
Con MARTIN SHEEN, SISSY SPACEK, Warren Oates, Ramon Bieri.
DRAMMATICO
Esordio che colpì profondamente molta critica, per un regista divenuto di culto negli anni seguenti, anche per la rarità con cui è tornato dietro la macchina da presa per tre decadi, salvo, nell'ultimo periodo, girare pellicole con una certa frequenza, fatto che ha indispettito non poco molti suoi ex-aficionados, "La rabbia giovane" si ispira a fatti realmente accaduti. Ribelle senza causa, Kit trascina con sè la più giovane Holly, dopo aver sparato al padre di lei, che si era opposto alla loro relazione: vagano per l'America degli anni Cinquanta, nei suoi grandi spazi, con il giovanotto che è molto sbrigativo nel far fuori chi gli intralcia il cammino, fino all'inevitabile brutta fine. Cinema di ampio respiro nell'accompagnare il viaggio senza senso e senza obiettivi dei due protagonisti, tra silenzi frastornanti e dialoghi spezzettati tendenti all'insignificante, "Badlands", che da noi ha ottenuto un titolo fascinoso, cosa purtroppo non frequentissima, presenta lo stile di Terrence Malick in maniera molto chiara: l'occhio per la natura indifferente nella sua maestosità, anche quando si manifesta in piccole creature o scorci senza storia, la piccolezza, in fondo, delle vicende degli esseri umani, rispetto al Creato, il conflitto interiore e la tendenza alla natura ferina degli uomini, prove d'attori destinate a lasciare il segno nelle loro carriere. La rarefazione relativa dei dialoghi, l'atona passività della ragazza dinanzi alla violenza improvvisa del suo compagno, l'egoismo di fondo di ognuno dei due, sono esplorati da sceneggiatura e regia in maniera quasi scientifica. Sheen e Spacek, qui giovani e promettenti, sono interpreti intonati e ben diretti, per un film che ha appeal da opera prima e tenuta da regia consapevole e solida.
LA RETATA ( Dragnet, USA 1987)
DI TOM MANKIEWICZ
Con DAN AYKROYD, TOM HANKS, Christopher Plummer, Alexandra Paul.
COMMEDIA/AZIONE
Fu una delle prime occasioni in cui a Hollywood si volle trarre un lungometraggio da una serie tv fortunata, magari di diversi anni prima: nello stesso anno in cui uno dei maggiori successi internazionali fu "The Untouchables-Gli intoccabili" di Brian De Palma, uscì pure questo "La retata", tratto da "Dragnet", serial televisivo degli anni Cinquanta, come quello sulla squadra anti-Al Capone, su una coppia di poliziotti apparentemente male assortita, ma che si rivela invece efficace contro il crimine. Tom Mankiewicz, che era stato sceneggiatore di tre 007 e due "Superman", esordisce alla regia non azzeccando quasi mai nè il tono, nè il ritmo di una commedia perlopiù bolsa, recitata senza mordente, anche se, ad essere onesti, Tom Hanks qualche momento indovinato lo ha, ma che mette in scena malviventi da operetta, ha un atteggiamento pseudo-moralista che, in pieni anni Ottanta, è abbastanza sconcertante, e non sceglie se imboccare la strada della parodia totale, che poteva essere funzionale, o assumere portamento da commedia per famiglie. Rimanendo a metà strada, "La retata" zoppica alquanto, e annoia non poco, giungendo a fatica alla resa dei conti finale, prevedibilissima e poco divertente. In America incassò comunque piuttosto bene, mentre in Europa fece fiasco: si dette la colpa al fatto che la serie tv non era conosciutissima da queste parti, ma in realtà è la qualità scarsa dell'operazione, la prima imputata.
CHI M'HA VISTO ( I, 2017)
DI ALESSANDRO PONDI
Con BEPPE FIORELLO, PIERFRANCESCO FAVINO, Mariela Garriga, Sabrina Impacciatore.
COMMEDIA
Musicista che ha suonato con tanti grandi, ma che a quarantotto anni ancora aspetta qualcuno che creda in lui e gli produca un disco proprio, Martino Piccione si fa venire un'idea che, per quanto balzana, potrebbe anche funzionare: in pratica, sparisce, al paesello, in Puglia, da cui viene, comunicando solo all'amico Peppino Quaglia quel che sta facendo. E, infatti, si crea l'interesse che ha sempre anelato, facendo discutere gran parte dell'Italia che si chiede che fine abbia fatto, fino a spingere l'aggressiva conduttrice della trasmissione sulle persone che hanno fatto perdere tracce di sè (indovinate di quale si tratta?). Nel frattempo, l'atmosfera del luogo natìo, e la presenza di una ragazza che viene da un altro mondo, quello sudamericano, fanno fare dei bilanci al chitarrista, che comincia a domandarsi se davvero la fama sia l'unico traguardo importante.... Un tono quasi mai volgare e una certa spigliatezza narrativa sono i fattori più positivi di questa commedia, che, però, per quanto basata su uno spunto anche intelligente, non sfrutta tutto il potenziale della situazione creata, e alla lunga mostra la corda per il non sterminato fiato narrativo. Il regista Alessandro Pondi non imprime gran verve al racconto, e tra gli interpreti, meglio figura un cialtronesco e ruspante Pierfrancesco Favino, di Beppe Fiorello, attore capace ma non del tutto a proprio agio con la commedia brillante. Il finale è quello che ci si aspetta fin dalla prima mezz'ora, e quindi nulla di sorprendente, per una pellicola gradevole ma pochissimo incisiva.
BENEDETTA FOLLIA ( I, 2018)
DI CARLO VERDONE
Con CARLO VERDONE, ILENIA PASTORELLI, Maria Pia Calzone, Lucrezia Lante Della Rovere.
COMMEDIA
Non è facile stare al passo con il tempo che scorre, ed è azzeccato che la commedia, come genere cinematografico, sia quello che maggiormente stia aderente ai periodi in cui è ambientata, per dipingerne un ritratto, e trasmettere l'aria del tempo. Carlo Verdone, comunque sempre in buona fede, anche quando non ha centrato il punto, è uno che ha sempre sintonizzato il suo cinema a temi che sono quelli di tutti i giorni, e muovono lo spettatore, che è anche un cittadino comune. Dopo aver parlato di padri separati, di uomini e donne che devono ripartire dalla mezza età, di colpiti dalla grande crisi, in "Benedetta follia" prende in esame, a modo suo, la ricerca sentimentale ai tempi del social network : Guglielmo è un borghese compassato, tenutario di un quotato negozio d'arte religiosa, che si vede abbandonato dalla moglie, il giorno del venticinquesimo anno di matrimonio, e per una donna. Andato in crisi, com'è normale che sia, si vede piombare nel negozio una giovane borgatara dai modi invadenti ma simpatici, schietta e casinista, alla ricerca del lavoro di commessa, rimasto vacante, perchè proprio la dipendente di Guglielmo è ora impegnata con la sua ex-moglie. Caciarona ma di cuore, Luna coinvolge il datore di lavoro nella ricerca di nuove possibilità sentimentali, iscrivendolo a un'app di incontri. Affidatosi agli sceneggiatori di "Lo chiamavano Jeeg Robot", del quale riprende anche l'attrice che rivestiva il ruolo femminile principale, Ilenia Pastorelli, Verdone mette in scena una commedia che ha una prima parte divertente, ma che pare consumare gran parte della propria verve appunto fino a metà film, per poi conoscere qualche giro a vuoto, un pò di stiracchiamento, e l'approdo ad un finale rassicurante, dopo qualche situazione incastrata un pò a forza (tutta la questione del "debito" di Luna sa di posticcio). Certo, sono quarant'anni che il romano Carlo ci fa ridere e sorridere, e non si può che essergli affezionati, anche quando mette una scena che pare un videoclip anni Novanta (la sequenza dello sballo in discoteca), oppure quando cita se stesso (il Manuel Fantoni d'antan quando l'ex-moglie deve ripassare da casa), ma anche, in maniera sfumata, "Il buono, il brutto, il cattivo"( Tuco che racconta una cosa diversa dalla realtà al Biondo sui propri rapporti familiari, e altrettanto fa Luna), e il finale de "La febbre del sabato sera" (nell'ultimo dialogo con l'ex-moglie). Però la sensazione che questo materiale sarebbe tornata bene per un episodio, anche lungo, alla "Manuale d'amore" e non per un film intero, persiste. Se Verdone-attore è comunque una garanzia, campionissimo nelle gaffes e nelle situazioni imbarazzanti, Ilenia Pastorelli, che aveva stupito in "Lo chiamavano Jeeg Robot", ci mette grinta, ma in alcuni momenti calca fin troppo la mano, e dovrà far capire se può andare oltre il personaggio della coatta, meglio figurano Maria Pia Calzone, Lucrezia Lante Della Rovere e Paola Minaccioni, quest'ultima costretta in un ruolo troppo breve di nevrotica tout court. Tuttavia, il film al pubblico sta piacendo, perchè viaggia, al momento, sui sette milioni di incasso.
THE SQUARE ( SW/DK/D/F, 2017)
DI RUBEN OSTLUND
Con CLAES BANG, Elisabeth Moss, Dominic West, Terry Notary.
GROTTESCO
Benchè in realtà sia una coproduzione tra quattro paesi (Svezia, Francia, Danimarca e Germania), la pellicola vincitrice dell'ultimo festival di Cannes concorrerà ai prossimi premi Oscar battendo bandiera svedese: il "quadrato" del titolo è un'opera presentata al museo di Stoccolma che una volta era il Palazzo Reale, in cui Christian, curatore dell'istituto, crede moltissimo. Rappresenta una zona franca in cui i diritti di tutti, la fiducia in una società evoluta sono intoccabili, e si applicano veramente. Ma una serie di eventi più o meno grotteschi complicano la vita dell'uomo, e dimostrano che anche la moderna, civilissima Svezia, non si può dire al sicuro dalla bestialità umana. Opera dalla cui visione si può uscire sconcertati o perplessi, "The square" è un apologo sulla divagazione estrema cui sono soggetti i nostri tempi, su quanto fasulle siano le certezze di stabilità dell'Occidente, su come sballato sia il rapporto tra esseri umani e tecnologia, e molto altro ancora. Il film di Ostlund mette in scena un'allegoria perpetua, fin anche troppo espansa, su tanti piccoli e grandi mali del nostro vivere, in cui anche il sesso viene rappresentato in tono con la programmatica sgradevolezza scelta come chiave illustrativa. Qualche sorriso sorge spontaneo, ma è abbastanza difficile trovarsi d'accordo con una delle frasi di lancio del film, che parla di risate a scena aperta: più facile provare un sottile ma crescente sgomento, via via che il lungometraggio procede, per due ore e venti che sono un minutaggio francamente eccessivo. La sequela di premi vinti dal film impressiona, e va dato atto al regista Ruben Ostlund di aver voluto provocare in maniera forse fin troppo scoperta, ma molto intelligente, anche perchè la sequenza dell'attore entrato troppo in parte che impersona un gorilla e mette in scacco gli invitati ad un facoltoso ricevimento, è di una potenza inquietante, a rammentare la fragilità di una società che non ha fatto i conti con la furia di ciò che è all'esterno da sè. Film con pari densità di cose riuscite ed altre meno, fa discutere, ed è un bene: da qui a definirlo un lavoro che resterà, il passo pare molto lungo.
IL CAPPOTTO DI ASTRAKAN ( I, 1980)
DI MARCO VICARIO
Con JOHNNY DORELLI, Carole Bouquet, Andrèa Ferreol, Paolo Bonacelli.
COMMEDIA
Piero Chiara è stato uno scrittore di peso negli anni Settanta e Ottanta, e più di un suo lavoro ha suscitato l'interesse della gente di cinema: "Il cappotto di Astrakan", che Marco Vicario trasse nel 1980 dal romanzo omonimo, uscito appena due anni prima, è una commedia a tinte drammatiche, in cui Piero da Luino (cittadina sul Lago Maggiore che ha dato i natali a Chiara e Massimo Boldi) va in gita di piacere a Parigi, ma si ritrova ben presto incastrato in una serie di inciampi, che addirittura lo portano sventuratamente in carcere, da cui esce subito, ma senza soldi. Sull'orlo della disperazione, il lombardo si fa affittare una stanza da una vedova un pò scostante, con un gatto che prende subito in antipatia l'italiano. Da un diario presente nella casa, Piero viene a conoscenza della relazione del fratello della signora che lo ospita con una splendida donna e fa di tutto per incontrarla: il cappotto di astrakan del titolo apparteneva all'amante della sconosciuta, con la quale anche il protagonista intreccia un rapporto. Ma naturalmente, molte sono le cose che non sono come sembrano. Vicario non aveva la mano leggera, anche se la conduzione degli attori è discreta, e il film sembra non decidere mai se essere una commedia borghese o un dramma leggero a tinte sentimentali: Dorelli innesta un'ombra di malinconia in un personaggio che, se affidato ad altri attori, come Pozzetto o altri divi italici dell'epoca, forse avrebbe evidenziato maggiormente l'aspetto brillante. Il finale è pieno disincanto, la provincia e la sua staticità cronica, certe asperità maschili dure a morire e la fuggevolezza delle donne che lasciano più il segno avrebbero meritato un altro sviluppo di sceneggiatura.
LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE ( Wonder wheel, USA 2017)
DI WOODY ALLEN
Con KATE WINSLET, Juno Temple, James Belushi, Justin Timberlake.
DRAMMATICO
A Coney Island, in pieni anni Cinquanta, giunge una ragazza dall'aria spaurita e confusa: cerca il padre, che non vede da anni, il quale gestisce una giostra nel celebre luna park, e ha sposato un'altra donna, con cui condivide una piccola abitazione posta proprio sotto la "Wonder Wheel", una delle maggiori attrazioni del centro di divertimenti. La giovane è in fuga da un marito che fa parte di una cricca di gangsters, e la reazione della famiglia del congiunto al suo arrivo non è delle più calorose: in più, la moglie del genitore ha intrapreso una relazione clandestina con un giovane che fa il bagnino, ma sogna di diventare un apprezzato drammaturgo. Woody Allen ritorna con l'abituale lavoro annuale, con un dramma che racconta una questione di coscienza, o meglio, della sua mancanza. Perchè, come accaduto anche in suoi titoli come "Crimini e misfatti", o "Match point", quando ci sono in ballo dei potenziali crimini, l'atteggiamento umano è spesso meschino e induce le persone a guardare da un'altra parte, o addirittura agire in malafede, per togliere d'intralcio faccende che potrebbero complicar loro l'esistenza. "La ruota delle meraviglie", accolto con pareri piuttosto contrastanti dalla stampa americana, è anche un deliberato omaggio al cinema mèlò hollywoodiano, con colori pastosi e densi, rossi fiammeggianti e gialli abbaglianti, a cura di Vittorio Storaro, che per la seconda volta collabora con Allen, confezionando, di seguito a "Cafè Society", quadri di gran smalto visivo per l'autore di "Manhattan". I millantati sogni di gloria di alcuni dei personaggi principali sono un alibi alla loro mediocrità di fondo che li porta a galleggiare in esistenze vacue e amorali. Come suo consueto, Woody Allen concentra molto della propria regia sulla conduzione degli interpreti: se da James Belushi tira fuori un ritratto di cialtrone a un tempo generoso e lazzarone, affida a una Kate Winslet di un fascino sempre più denso una femmina folle e fragile, infame e disperata, passionale e stremata. In un film comunque da vedere, per la forza di piccolo grande racconto morale che possiede, la cosa migliore è la prova maiuscola di questa interprete, che rammenta molto da vicino quella che, proprio per Allen, in "Blue Jasmine", portò all'Oscar Cate Blanchett. E, perlomeno una nomination, sarebbe giusto reclamarla per la splendida Kate.
NOI DUE SCONOSCIUTI ( Strangers when we meet, USA 1960)
DI RICHARD QUINE
Con KIRK DOUGLAS, KIM NOVAK, Barbara Rush, Ernie Kovacs.
MELO'
Architetto di buon successo, in fase di valutazione di un'opportunità professionale che lo porterebbe a vivere alle Hawaai con la famiglia, incontra la bella madre di un compagno di scuola del figlio: nasce una forte passione tra i due, che, dopo un inizio fatto di titubanze e false partenze, li avvince in un legame che l'uomo vive intensamente, ma in maniera sempre più tormentata. D'altro canto, sua moglie cova sospetti sempre più forti su certi suoi atteggiamenti, finchè, come spesso capita in situazioni come queste, non si arriva ad una resa dei conti, che si risolve in faccia a faccia definitivi. Quine dirige con sicurezza un melodramma cinematografico ben recitato, soprattutto da Kirk Douglas, che mostra gli slanci, le incertezze e il conflitto di un uomo stretto tra l'attaccamento alla propria famiglia ed un sentimento inatteso che fa saltare tutti i suoi equilibri: tra l'altro, figurano bene pure Ernie Kovacs, bizzarro cliente del protagonista, che avrebbe conosciuto una morte prematura di lì a poco, e Walter Matthau in un ruolo da ipocrita di provincia. Come ci si può aspettare, la morale dell'epoca pretende un finale in un certo modo, ed è molto probabile che, se la sceneggiatura fosse stata scritta una decina d'anni dopo, la conclusione della storia potrebbe essere stata ben diversa. Tuttavia, non un capo d'opera, ma un cinema della Hollywood più classica piacevole e di apprezzabile resa.
THE WIZARD OF LIES ( The wizard of lies, USA 2017)
DI BARRY LEVINSON
Con ROBERT DE NIRO, MICHELLE PFEIFFER, Alessandro Nivola, Kristen Connolly.
DRAMMATICO/BIOGRAFICO
Probabilmente non lo avete sentito chiamare così, ma avrete prima o poi percepito qualcosa a proposito di uno "schema Ponzi": il famoso "aeroplanino" degli anni Ottanta, o le moltissime società piramidali che, appunto, fanno fare guadagni altissimi ai primi che ci entrano, per attirare molte vittime cui spillare diverso denaro, a loro volta costrette a tirar dentro nuovi malcapitati per truffarli e così recuperare qualcosa, di questo si tratta. La vicenda di Bernie Madoff, presidente del Nasdaq, arrestato nel 2008, ha per sfondo uno schema similare: l'uomo, arricchitosi enormemente, divenuto una figura di spicco, un nuovo potente che però sulla pelle di tanti aveva messo in piedi ricavi colossali ( si parla di cinquanta miliardi di dollari), narrata nel libro-inchiesta di Diana B. Henriques diventa un film per la tv via cavo HBO. Attenzione, però, perchè come la nuova tendenza dimostra, ci sono opere realizzate per lo sfruttamento televisivo di serie A, con nomi dietro e davanti la macchina da presa in cerca sì di rilancio, ma, forse liberati dall'ansietà del dover fare incassi record il primo weekend di programmazione, riescono a realizzare prodotti di buona qualità. E "The wizard of lies", che spiega fluidamente ciò che avvenne nell'affaire Madoff, è un lavoro interessante, da parte di Barry Levinson, che da qualche anno pareva aver messo la sordina: ricava, inoltre, interpretazioni ottime sia da Robert De Niro, che rende la determinazione fredda di Madoff molto efficacemente, con una corazza difensiva che parzialmente ammette le proprie colpe, salvo giustificarsi come fanno anche i truffatori di mezza tacca ( "erano loro, che venivano da me..."), che da Michelle Pfeiffer, che fa accollare alla moglie dell'uomo d'affari lo sconcerto sempre più ampio che la frattura dentro. Senza giustificare il personaggio, ma mostrandone sia l'alone di mistero che la pragmatica convinzione di agire per il bene della propria famiglia, "The wizard of lies", senza lasciarsi andare mai all'enfasi, delinea con un buon spessore psicologico, una moderna tragedia americana.
COLUMBUS CIRCLE ( Columbus Circle, USA 2012)
DI GEORGE GALLO
Con SELMA BLAIR, Amy Smart, Jason Lee, Beau Bridges.
THRILLER
Il "Columbus Cirle" del titolo è un'area di Manhattan, nella quale c'è lo stabile lussuoso ove è ambientata quasi per intero la storia narrata dal film: c'è una giovane donna che è chiusa fissa nel proprio appartamento, una coppia trendy che va a vivere nella casa di fronte, sembra molto appassionata, ma anche litigiosa, un portiere del palazzo che chiacchiera tanto e sembra sapere tante cose di tutti, e un'anziana donna che viene trovata morta nella propria abitazione, ma non è stato un incidente come è stato voluto far sembrare. Thriller indipendente a basso budget, per una produzione americana, essendo costato "solo" 10 milioni di dollari, questo film diretto da George Gallo, sceneggiatore di discreta qualità, poi regista di sette pellicole, di cui questa è l'ultima firmata, spreca malamente uno spunto non nuovo ma interessante. E' scontatissimo il piano di chi agisce criminosamente per scardinare dei segreti, e giungere al proprio obiettivo, per il quale non viene esitato a commettere anche il delitto: però, appunto, si fa presto ad arrivare a smascherare la faccenda. Oltre tutto, poi, i personaggi in scena sono relativamente pochi, e la suspence è in pratica assente ingiustificata. Del cast, piuttosto scialbo, si salvano per via del mestiere Beau Bridges e Giovanni Ribisi nei panni dell'ispettore che vorrebbe capirci qualcosa in più. Ma è un giallo opaco, di poco conto, e largamente dimenticabile.
GLI SDRAIATI ( I, 2017)
DI FRANCESCA ARCHIBUGI
Con CLAUDIO BISIO, Gaddo Bacchini, Ilaria Brusadelli, Antonia Truppo.
COMMEDIA/DRAMMATICO
Raccontare i ragazzi è molto più complicato di quanto possa sembrare: tanto più inquadrare un confronto generazionale, tra padri e figli, dicendo qualcosa di originale, non retorico, o comunque adeguato anche alla fase storica e al passo con i tempi. "Gli sdraiati" è stato un romanzo di successo di Michele Serra, e Francesca Archibugi ne ha tratto un film: il protagonista Giorgio Selva è un giornalista tv di fama nazionale, separato molto a malincuore da anni, che non riesce a relazionarsi come vorrebbe con il figlio diciassettenne Tito. E dire che al ragazzo concede molto, dal radunarsi con la cricca di amici in casa, includendo utilizzo delle chiavi dell'abitazione da parte di tutta la combriccola, rassetto della magione dopo il passaggio dei giovani, che non paiono curarsi granchè di ordine o minima considerazione della fatica altrui ( son appunto ragazzi, si dirà, ma se ne approfittano un pò troppo...), ma il figlio non perde occasione per mostrare la propria insofferenza alle domande, al confrontarsi del genitore. Anche se la pellicola è confezionata con cura, ben fotografata ed ambientata, inciampa in diversi clichès, elabora un quadro dei "giovanissimi d'oggi" abbastanza superficiale: con tutta la disponibilità possibile, difficile ricordare di aver visto, in un'opera cinematografica, una generazione in età verde che comunica a grugniti, vive di pretese e basta, e pure a livello sentimentale, non sembra saper esprimere molto di più ( su Whatsapp una crisi viene così risolta : (Lui) "Ehi"; "Ahi"; "Oi", (Lei) "Pace"). Bisio si limita a ripetere se stesso quando è stranito dalle situazioni, meglio Antonia Truppo in un ruolo affatto semplice ma ben reso dall'attrice campana, e comunque il più simpatico in scena è Cochi Ponzoni nei panni dell'ex-suocero del protagonista: tra i giovani, seppure espressivo, Gaddo Bacchini è di un'antipatia consistente, e Ilaria Brusadelli è una bellezza in fiorire che sembra trovarsi a proprio agio tra i chiaroscuri dei cambiamenti d'umore. Aggiungiamo personaggi buttati a caso nella storia, ma senza gran sviluppo, come la ragazza del bar della Rai che vorrebbe avere una storia con Selva, e un siparietto del tutto superfluo come l'intervista alla prima donna presidente del Consiglio, interpretata da Donatella Finocchiaro, e una seduta terapeutica in cui uno psicologo canuto, che ha il volto di Giancarlo Dettori, in una manciata di minuti spara domande decisive e pare trovare il nocciolo del problema tra i due personaggi principali. Se sull'introspezione il film non funziona quasi mai, una qualsiasi lettura in chiave sociologica è sballata, e la Archibugi gira il tutto con una vaga supponenza alla lunga irritante.
THE GREATEST SHOWMAN ( The greatest showman, USA 2017)
DI MICHAEL GRACEY
Con HUGH JACKMAN, Zac Efron, Michelle Williams, Rebecca Ferguson.
MUSICALE
Scrivi "P.T. Barnum", e leggi, per forza, "Circo": il fondatore della formula più moderna del tipo d'attrazione, prima che gli animali ne fossero estromessi, negli ultimi anni ( meno male, perchè si trattava comunque di una costrizione di fauna fuori posto, usata per fare spettacolo), diventa oggi il protagonista di un musical che ne racconta, in maniera, pare, fin troppo edificante, l'intensa storia di grande venditore di spettacolo, e inventore di divertimento. Venuto da umili origini, Barnum si porta via la ragazza che ha amato fin da ragazzino, ma non riesce a darle la vita da sogno che aveva sperato, anche perchè la fanciulla viene da una famiglia assai benestante: l'uomo si inventa allora una sorta di museo delle cere, che però non rende, e così si fa strada l'idea di mettere assieme persone che, per un motivo, o un altro, siano quelli che un tempo, cinicamente, venivano definiti "fenomeni da baraccone". Ma se è impervia la via per il successo, quella per combattere invidie, rancori ed ignoranza, è ancora più dura. Pur nelle semplificazioni circa la biografia di Barnum, sorvolando sul fatto che il pur gagliardo Hugh Jackman, nella primissima parte, quando lo impersona piuttosto giovane, appare non proprio credibilissimo, anche se recupera via via che il film scorre ( e l'età del protagonista matura...), mettendo da parte qualche perplessità circa certi fondali fin troppo artificiosi, e la traduzione delle canzoni, talvolta tirata via o non correttissima, lo spettacolo c'è. In un'ora e tre quarti, la regia di Michael Gracey imposta un racconto che fa simpatia, per la decisa presa di posizione contro pregiudizi e chi fa dell'odio a priori un motivo di vita: la cosa più riuscita sono i numeri musicali, ben condotti e su brani accattivanti, in cui Jackman, Efron, e gli altri, con grinta e levità, tengono banco divertendo e intrattenendo, ma senza superficialità.
L'ECCEZIONE ALLA REGOLA ( Rules don't apply, USA 2016)
DI WARREN BEATTY
Con LILY COLLINS, ALDEN EHRENREICH, WARREN BEATTY, Matthew Broderick.
DRAMMATICO/COMMEDIA
Di Howard Hughes si è detto molto, ma uno dei grandi misteri americani del XX secolo continua ad affascinare la gente di cinema: Warren Beatty, che sia davanti, che dietro alla macchina da presa, si è sempre preso il lusso di dettare i propri tempi per presenziare sugli schermi, è tornato a dirigere un nuovo lungometraggio, prendendosi la parte del miliardario che fu importante per la settima arte, e allo stesso tempo, dette segni di grande squilibrio mentale, alimentando leggende e chiudendosi in una sorta di fantomatico segreto fino alla fine dei suoi giorni. Ambientato tra il '59 ed il '64, tra Acapulco, la California e l'Arizona, "Rules don't apply" ( il titolo originale e quello italiano sono in un certo senso antitetici, perchè accennano entrambi sia a Hughes che all'aspirante attrice Marla Mabrey, ma da un punto di vista diverso, di approccio al racconto) narra il sempre più avvitato delirio di Hughes tra le transazioni circa le principali compagnie aeree americane, la selezione di nuove future star ( o ragazze da destinare ad un ideale harem), e la difficoltà di chi gli stava intorno. Presentato come una dramedy sulla solitudine di un uomo di sterminato Potere, il quinto titolo da regista di Beatty funziona al meglio quando inclina al melò, sulla storia d'amore a tre tra Hughes, la Mabrey e l'uomo di fiducia del primo, Frank Forbes: e se formalmente ci troviamo di fronte ad un film diretto fluidamente, ben confezionato ( soprattutto per quanto riguarda musiche e fotografia), e punteggiato da attori importanti in ruoli di contorno, come Alec Baldwin, Matthew Broderick, Oliver Platt, Annette Bening, l'impressione è che se questo lungometraggio fosse uscito più di quarant'anni fa, qualcuno avrebbe gridato al capolavoro, e oggi l'effetto è un pò demodè. Sul piano attoriale, se Beatty gioca tra penombre e rare uscite in piena luce, per mantenere l'alone di mistero su Hughes ( molto edulcorato, comunque, rispetto al ritratto che ne fece Scorsese in "The Aviator"), Lily Collins figura molto meglio di Alden Ehrenreich ( che vedremo a breve nei panni del giovane Han Solo, ma non sembra possedere nè il carisma, nè la sfrontatezza naturale dell'Harrison Ford dei tempi). La cosa che rimane di più impressa, infine, di questa pellicola, forse proprio perchè firmata da un antico maestro della seduzione quale Warren Beatty, è una specie di dichiarazione d'amore all'Amore, quello più vero e invincibile, che regge alle pause del Tempo, e agli sfregi che i momenti di debolezza possono infliggergli, agli annunciati addii, e alle vaghezze di intenti degli esseri umani in questione.
FLATLINERS- Linea mortale ( Flatliners, USA 2017)
DI NIELS ARDEN OPLEV
Con ELLEN PAGE, DIEGO LUNA, Nina Dobrev, James Norton.
FANTASCIENZA/HORROR
Cinque laureandi in medicina fanno una scoperta, e la testano: si fanno fermare il cuore per meno di quattro minuti, arrivando a qualcosa di più della "morte apparente", per cercare di capire cosa ci sia "oltre". Ma, come ci hanno insegnato tanta letteratura, e tanto cinema di fantascienza, quando si fanno delle scoperte, c'è sempre da aspettarsi qualche problema collaterale, potenzialmente pericoloso. "Linea mortale" di Joel Schumacher fu un buon successo negli USA, mentre in Europa venne accolto più tiepidamente: questo è a metà tra un remake e un sequel, visto che ripropone Kiefer Sutherland, che c'era appunto nel cast della pellicola originale, seppure interpreti un personaggio che si chiama diversamente. Con un cast che comprendeva anche Kevin Bacon, Julia Roberts e Oliver Platt, tuttavia, il "Flatliners" del '90, pur sprecando largamente uno spunto che, in mano a un Carpenter o a un De Palma prima maniera, poteva avvincere e spaventare lo spettatore con buon piglio, era comunque un film sospeso tra fantascienza e orrore blando, ma sostanzialmente decoroso. Qua, diretto dallo scipito danese Niels Arden Oplev, che aveva già mostrato una certa goffaggine, trasferendosi in America, con "Dead man down", thriller balzano con Colin Farrell e Noomi Rapace, assistiamo ad un film perlopiù noioso, con qualche pigro momento di suspence stiracchiata, in cui, a differenza della pellicola di ventisette anni fa, qualcuno degli sperimentatori fa una brutta fine; ma la fantasia di chi ha sceneggiato il lungometraggio è piuttosto scarsa, gli attori non convincono mai, e si arriva ad un finale bruscamente risolutorio che sa tanto di appiccicato per forza.
CACCIA AL TESORO ( I, 2017)
DI CARLO VANZINA
Con VINCENZO SALEMME, CHRISTIANE FILANGIERI, CARLO BUCCIROSSO, Max Tortora.
COMMEDIA
E' palese, visto che sia nelle interviste che nel film stesso, la citazione è dichiarata: "Caccia al tesoro" guarda alla commedia all'italiana più tradizionale, quella degli Steno ( per ovvi legami familiari vanziniani), dei Risi e dei Monicelli, anche perchè "Operazione San Gennaro" e "Febbre da cavallo" vengono esplicitamente nominati. Un tempo la critica aveva battezzato "vanzinate" i film della ditta ( "factory" sembra un pò pomposo, no?) stroncandoli sistematicamente, spesso a ragione, e invece, com'è costume di molta stampa italica, ritrattare i giudizi negativi e dar loro una dimensione anche apprezzabile, arrivando a dire che "hanno, in qualche modo, raccontato l'Italia degli ultimi quarant'anni". Magari questa definizione, forse, è eccessiva, però è giusto dire che i generi cinematografici raccontano anche il tempo in cui vengono realizzate le pellicole, anche e soprattutto la commedia, che parla spesso della società in cui si svolge, anche attraverso l'ottica con cui vengono presentati storie e personaggi. Qui si vuole che l'attore Vincenzo Salemme, messo male economicamente, per una nobile causa ( l'unico nipote deve operarsi al cuore e necessitano tanti soldi) si associa ad un altro disperatuccio, Carlo Buccirosso, per compiere un furto colossale: mentre cercano, maldestramente, di fare la malandrinata, scoprono che altri due "colleghi" di crimine hanno avuto la medesima idea, Christiane Filangieri e Max Tortora. Tra Napoli e Cannes, una commediola abbastanza piatta, largamente prevedibile e che gioca le sue poche carte riuscite sull'affiatamento da vecchi compari di scena tra Salemme e Buccirosso ( attore sopraffino, quest'ultimo, che ha una presenza comica rara, e spesso mal sfruttata), e che arriva allo scontatissimo lieto fine, con omaggio a Napoli, sulle note di Pino Daniele con la splendida "Napule è". C'è pure il camorrista ringhioso che scopre un inusitato buon cuore, ma è un clichè ormai stantìo, di cui si poteva fare a meno, e toglie un mezzo punto al film.
POVERI MA RICCHISSIMI ( I, 2017)
DI FAUSTO BRIZZI
Con LUCIA OCONE, CHRISTIAN DE SICA, Enrico Brignano, Lodovica Comello.
COMMEDIA
Due cose da chiarire, tanto per iniziare: è da considerarsi un grosso successo, da girare a ruota un sequel, un film che risulta al 24° posto della classifica stagionale degli incassi, uscito per le festività natalizie? E poi, diciamolo una volta per tutte, Christian De Sica è di fatto un attore bravissimo, per tempi comici, capacità di gigioneggiare e lavorare anche con le mezze espressioni, che però, anche per forte richiesta dei produttori, e per scelta personale e professionale, si è trovato spesso a girare film molto scadenti. "Poveri ma ricchi" dell'anno scorso, in un'annata assai infausta per il cinema nostrano più commerciale ( neanche un film targato Italia nei primi dieci incassi dell'anno: mai successo prima) aveva tuttavia "tenuto botta", e guadagnando anche caute parole di stima da recensori insospettabili. Ed ecco di nuovo la famiglia Tucci, ultraborgatari sottoproletari divenuti prima ricconi per un benigno gioco del destino, poi reimpoveritisi per cattiva gestione del denaro, che ritroviamo con una rinnovata fortuna economica: visto il caro-vita sempre più asfissiante, i protagonisti indicono un referendum nella loro Torresecca, per uscire dall'Italia, vincendolo, facendo sì che il capostipite Danilo Tucci si atteggi e si rifaccia il look alla Donald Trump. E poi la moglie viene insidiata dal cascamorto impersonato da Massimo Ciavarro, che rifà certi giochetti alla "Cinquanta sfumature di nero".... Se il primo episodio, remake italiano di un successo francese, strappava qualche sorriso convinto, e tutto sommato si assestava su una qualità decorosa, qui si scivola parecchio sulla forzatura, i personaggi si ripetono meccanicamente, le situazioni buffe latitano, e aleggia un qualunquismo di fondo abbastanza deprimente ( il ritorno alla lira, i populisti de "noantri", le parodie di "Maleficent" e "Cinquanta sfumature" piuttosto insulse), sprecando l'unica occasione di potenziale divertimento, la discesa in politica dei Tucci, in due scene. Se De Sica, assai inquartatosi, a fare un Trump che intona "L'italiano" di Cutugno sembra esser presente più per onorare il contratto che altro, Lucia Ocone diventa la vera protagonista, ma sembra meritare di meglio, mentre non lasciano traccia nè Enrico Brignano, nè Paolo Rossi, che comunque al cinema non ha mai funzionato, nè Anna Mazzamauro. Probabilmente farà buoni incassi, nonostante la vicenda molto poco simpatica in cui è coinvolto il regista Brizzi: al limite, per il terzo, probabile episodio metteranno un altro in cabina di regia.
NAPOLI VELATA ( I, 2017)
DI FERZAN OZPETEK
Con GIOVANNA MEZZOGIORNO, Alessandro Borghi, Anna Bonaiuto, Peppe Barra.
DRAMMATICO/THRILLER
"Ma tu pensi al grande amore, alla passione....ma pensa a campà!", dice un personaggio traducendo alla spiccia la propria filosofia di vita. A suo dire, Ferzan Ozpetek ha in mente una trilogia con il nome di una città nel titolo del film: se ciò fosse, dopo "Rosso Istanbul" dell'anno scorso, questo "Napoli velata" sarebbe il segmento centrale. L'ambientazione che il regista con due patrie ( è turco, ma da anni lavora in Italia ed è naturalizzato italiano) ha scelto, assieme ai suoi sceneggiatori Gianni Romoli e Valia Santella, la Napoli dei palazzi borghesi, con una sola scena che si svolge nella Napoli "di strada" come un pò canonicamente il cinema ci ha tante volte presentato, e peraltro tale sequenza è piuttosto cruciale. Nel film si narra di Adriana, che ad una cena a casa di amici, conosce un uomo più giovane, Andrea, piuttosto intraprendente, con il quale passa una notte infuocata e che potrebbe essere l'inizio di una relazione: ma il giorno dopo, la donna, medico legale, ha la bruttissima sorpresa di trovare sul tavolo di lavoro il cadavere martoriato del ragazzo, il quale, pare, avesse frequentazioni non raccomandabili, e trafficasse in cose losche. Da lì in poi, le cose si complicano sempre di più, minacciando la salute mentale della protagonista. La dodicesima pellicola diretta da Ozpetek, che negli ultimi anni aveva riscontrato un interesse sempre più relativo da parte di pubblico e critica, dopo il clamore del decennio precedente, è un lavoro di cui diversi aspetti affascinano lo spettatore, dal clima di sospetto che aumenta, via via che il film scorre, dal rompicapo che attanaglia il personaggio principale, le scene di sesso potenti, "vere" ( sarà un caso che le più belle e naturali scene erotiche del cinema italiano degli ultimi trent'anni riguardino Giovanna Mezzogiorno, vedi anche "Vincere" di Bellocchio?) e la bravura di diversi interpreti in campo, come una Mezzogiorno intensissima, una sarcastica Anna Bonaiuto ed un divertente Peppe Barra; ad attenuare l'entusiasmo, va detto che ad un certo punto si prova la sensazione che la pellicola stia tergiversando e non abbia idea di come proseguire, che ci sono alcuni personaggi del tutto superflui (quello di Luisa Ranieri su tutti) o appena abbozzati ( quelli della Sastri e della Ferrari), e che la sceneggiatura tenda a confondersi non poco. Su tutta l'ultima parte, che fa benissimo a non chiarire del tutto le cose, perchè l'ambiguità ed il mistero sono caratteristiche che il regista ha intenzionalmente incentivato come visione della città che ospita la storia, ma che al riaccendersi delle luci in sala coglie più di uno spettatore con l'aria fortemente perplessa, ognuno tragga la propria interpretazione. Da cinefilo, posso suggerire che la visione de "Il profumo della signora in nero" di Francesco Barilli, thriller oscuro e scabroso degli anni Settanta, del quale viene rifatta, in pratica, una scena decisiva, potrebbe dare una chiave molto esplicativa per decifrare la conclusione...