THOR: RAGNAROK ( Thor:Ragnarok, USA 2017)
DI TAIKA WAITITI
Con CHRIS HEMSWORTH, Tom Hiddleston, Cate Blanchett, Mark Ruffalo.
FANTASTICO/AZIONE
Caratterizzato dall'adrenalina di "The immigrant song" dei Led Zeppelin (la quale, appunto, trattava di vichinghi...) nei due scontri cruciali della storia, ecco il terzo capitolo in assolo, o "standalone" come usa definirli oggi, di Thor da Asgard: lo troviamo a inizio film incatenato e sospeso, ed il ritorno al regno celestiale non sarà come sperato. Da un passato rimosso, infatti, giunge una sorella fino ad allora mai conosciuta, Hela, dea della Morte, che promette di conquistare la casa di Odino, e per il nerboruto Avenger di provenienza divina, tornare a combattere la battaglia decisiva, passerà per un incontro con il Dottor Strange, ritrovare Hulk in veste di antagonista, riportare un'apparentemente perduta Valchiria dalla propria parte, e dover scommettere temerariamente, una volta ancora, su un'alleanza con l'ambiguo Loki. Affidato all'hawaaiano Taika Waititi, "Thor: Ragnarok" ( il titolo è in pratica la versione norrena della nostra Apocalisse) la butta deciso sull'ironia a tutta campo, visto che è la peculiarità principale di questa fase Marvel ( nella prossima, prepararatevi alla dipartita di qualcuno degli eroi principali...): il gioco riesce, dato che l'episodio coniuga una spettacolarità hollywoodiana senza risparmio ad una gamma di colori, immagini più ricercate (Thor che plana su un'arrembante schiera di guerrieri molto simili ai tolkeniani Huruk-Hai è un colpo d'occhio notevole) e un ritmo narrativo sostenuto. Molto divertente, anche se c'è un addio importante, vede un cast che miscela l'affiatamento di interpreti ormai abituati a condividere lo schermo come Chris Hemsorth, Mark Ruffalo e Tom Hiddleston, mentre Cate Blanchett, pur sensuale come non mai, inguainata nella verde tuta della dea malvagia, soffre un pò un ruolo non scritto benissimo, che la fa apparire meno del dovuto. Arrivederci al roboante "Avengers:Infinity War", in cui saranno presenti in molti, dagli Avengers ai Guardiani della Galassia, a Spider-Man, e altri ancora...
COME TI AMMAZZO IL BODYGUARD
( The hitman's bodyguard, USA 2017)
DI PATRICK HUGHES
Con RYAN REYNOLDS, SAMUEL L. JACKSON, Salma Hayek, Gary Oldman.
AZIONE/COMMEDIA
Programmato per essere un film d'azione, a poco tempo dall'inizio delle riprese, "Come ti ammazzo il bodyguard" ha avuto la sceneggiatura rimaneggiata per farlo diventare una commedia-parodia del genere, con molte scene movimentate. Patrick Hughes, reduce dal terzo "I mercenari", si è ritrovato a girare un film già molto reimpostato e con costo non basso: e nella storia dell'ex-guardia del corpo che si ritrova a dover proteggere un killer a pagamento reo di oltre 150 omicidi, e che aveva provato a far fuori anche lui più di venti volte si avverte spesso che c'è del posticcio. E non solo: il film procede per botti, sparatorie, esplosioni di violenza paradossale, e se commedia avrebbe dovuto essere, le battute e le situazioni non suscitano poi il riso che forse sceneggiatori e produttori avrebbero voluto causare. L'azione si muove tra Stati Uniti, Inghilterra e Olanda, lasciando molti cadaveri alle spalle, in una sorta di "buddy movie" in cui i due ex-nemici si danno mano a vicenda per sfuggire all'essere fatti fuori, trovando, ad un certo punto, un passaggio impensabile in un camioncino pieno di suore con il sicario che intona canzoncine in coro con le religiose. Del film funziona più che altro la prima scena, che fa da prologo, e poi lo spunto procede in maniera abbastanza sconclusionata tra presunti colpi di scena, e clichès vari: nel cast, Reynolds sembra viaggiare con il pilota automatico, Jackson si spende più che altro in diverse parolacce e risate al cubo, mentre al povero Oldman lo relegano in un personaggio-macchietta, e Salma Hayek, se tiene botta fisicamente all'età non più verdissima, è poco più che un'apparizione iconica. Più che un ibrido tra azione spettacolare e commedia in vena di buttare in burla le spacconate dei vari eroi armati di pistola e spavalderia, è venuto fuori un pastrocchio abbastanza monotono e largamente dimenticabile.
GIFTED- Il dono del talento ( Gifted, USA 2017)
DI MARC WEBB
Con CHRIS EVANS, MCKENNA GRACE, Lindsay Duncan, Jenny Slate.
DRAMMATICO
Zio ex-promessa della scienza e nonna ricca e ossessionata dall'avere una discendenza di spicco destinata a chiara fama si scontrano per l'affidamento di una bambina che pare proprio avere una mente "speciale", capace di prodigi matematici: il fatto è che la madre si è suicidata, nonostante la genialità che portasse in dote, e il fratello è preoccupato che il peso della troppa intelligenza possa essere fatale per la piccola. Ritorno a tematiche più "a dimensione d'uomo" per Marc Webb, dopo i due "Amazing Spider-Man": senza l'appoggio di effetti speciali e di un riconoscibilissimo marchio, il regista propone una storia drammatica, ma senza grevità lacrimose, con una vena sentimentale piuttosto pronunciata. Il film è una specie di aggiornamento ad oggi di "Kramer contro Kramer", pur cambiando i fattori in gioco, è sempre il dove dover crescere un bambino il cuore della storia: senza arrivare al pathos del film con Dustin Hoffman e Meryl Streep, anche perchè in scena c'erano due tra i più grandi attori su cui il cinema abbia potuto contare, "Gifted" è un lungometraggio un pò scontato, scorrevole e che forse potrà commuovere parte del pubblico, cui temi come quello in questione fanno sempre effetto, ma tutto sommato non dice niente di nuovo. Tra gli interpreti, da apprezzare il tentativo di affrancamento da "Captain America" di Chris Evans, e simpatica la piccola McKenna Grace, ma la più in tono è la "cattiva" nonna Lindsay Duncan, che sa gestire un personaggio negativo in souplesse.
IO E LEI ( I, 2015)
DI MARIA SOLE TOGNAZZI
Con SABRINA FERILLI, MARGHERITA BUY, Alessia Barela, Domenico Diele.
COMMEDIA/SENTIMENTALE
Al quarto film diretto, dopo il buon successo di critica di "Viaggio sola", Maria Sole Tognazzi ha proseguito il proprio percorso da regista con una commedia in cui sono due donne belle e mature, interpretate da Sabrina Ferilli e Margherita Buy, a vivere una relazione stabile da anni: però, se la prima, ex-attrice divenuta piccola imprenditrice, è sempre stata omosessuale e vive la cosa con naturalezza, la seconda, con una famiglia abbandonata alle spalle, un figlio ormai adulto, ha sempre negato ufficialmente di vivere con un'altra donna. Come capita in molte relazioni, arriva un periodo di appannamento: forse sono le scelte fatte, o forse c'è qualcuno che si è insinuato in un momento di debolezza e di incertezza, però i problemi vanno affrontati, anche a costo di pagare caro la chiarezza.... Il film, in sè, si segue senza annoiarsi, con due interpreti scafate e sciolte ( ai punti, più convincente la Ferilli, mentre la Buy si incarta un pò in tic nevroci risaputi), però se commedia doveva essere, le occasioni per sorridere sono scarse, e la storia passa, come molte altre pellicole a sfondo sentimentale, per una quasi rottura dei rapporti, salvo un ritrovare l'abbraccio reciproco per recuperare e congedare il pubblico senza inquietarlo. Sostanzialmente, garbato, ma mai azzardoso o in grado di regalare qualcosa di memorabile.
IT ( IT Chapter One, USA 2017)
DI ANDRES MUSCHIETTI
Con JAEDEN LIEBERHER, SOPHIA LILLIS, Finn Wholfhard, Bill Skarsgard.
HORROR
Uscito nell'Autunno di trent'anni fa esatti (da noi, in America uscì l'anno precedente), "It" è considerato dai lettori aficionados di Stephen King come uno dei capolavori assoluti dello scrittore del Maine, ma è stato amato anche da lettori meno assidui nel seguire le paure suscitate dall'autore di "Carrie" e "Shining". Nel 1990 venne realizzato un adattamento per la tv americana, a dire il vero insipido, e in economia, di cui la cosa migliore è rimasta l'interpretazione di Tim Curry del malvagio clown Pennywise, incarnazione del mostro che divora i bambini a Derry, periferia dello Stato in cui quasi tutta l'opera kinghiana è ambientata. Le oltre 1300 pagine del romanzo trovano finalmente la via del grande schermo, anche se si sono via via avvicendati diversi nomi per la regia, compreso il Cary Fukunaga del primo "True Detective", rimasto tra i produttori: alla fine è l'argentino Andrès Muschietti, che ha girato "La madre", a firmare la versione filmica di "It". La quale è divisa in due, visto che questo film di due ore e un quarto narra la prima metà, ambientata negli anni Ottanta, e la seconda vedrà i ragazzi di questo lungometraggio divenuti adulti, al giorno d'oggi, tornare ad affrontare il mostro venuto dall'entroterra a straziare e divorare bambini. Diciamo subito che, a livello di spaventosità, forse era veramente difficile ripetere le molte "trappole" per l'emotività del lettore ordite da King, ed infatti, se si ha più di diciotto anni e si ha una certa esperienza di film horror, sarà facile pescare nelle immagini di Muschietti rimandi a "Carrie", "Stand by me" (soprattutto), "Super8", ma anche all'inizio di "Mystic river" e a "A Venezia...un Dicembre rosso shocking": però l'inizio, l'aggressione del piccolo Georgie che innesca la storia è piuttosto disturbante, e la lunga sequenza della casa abbandonata ha momenti inquietanti piuttosto riusciti. E, in una sorta di contrapposizione-citazione, se in "E.T." i ragazzi dicevano che solo loro, e non i grandi, potevano vedere il buon extraterrestre, qua gli adulti sono indifferenti, o ciechi dinanzi alla creatura infernale che gioca perversamente con i bimbi prima di portarseli via. Se appunto saranno soprattutto gli adolescenti ad aver paura nell'assistere a "It"-film, forse gli adulti saranno maggiormente colpiti, invece, dalla bravura del regista argentino, di indossare la capacità, molto tipica dello scrittore, di rendere certi chiaroscuri di quella fase della vita immensa, fuggevole, tenebrosa e luminosissima che è quella, appunto, della pubertà, di quelle giornate d'Estate che vengono percepite come infinite, e che lasceranno un'impronta più netta in chi le vive. Dei ragazzi che compongono la banda dei "Perdenti", uniti per scacciare l'entità malevola che da tempo torna a far strage, quella che probabilmente diventerà un volto ricorrente è l'unica femmina, Sophia Lillis, assai espressiva: e Pennywise/It , in versione molto più demoniaca, con trucco in disfacimento e bocca gocciolante oscena bava, è rivoltante al punto giusto.
IL GIOCO DI GERALD (Gerald's game, USA 2017)
DI MIKE FLANAGAN
Con CARLA GUGINO, Bruce Greenwood, Carel Struycken, Henry Thomas.
THRILLER/DRAMMATICO
Appartatisi nella bella casa nel bosco usata per le vacanze, i coniugi Burlingame si apprestano a mettere in atto un gioco erotico, per ravvivare un'unione che da un pò mostra segni di stanchezza: l'uomo ammanetta la moglie al robusto letto per simulare un'aggressione e buttare un pò di pepe nel rapporto sessuale, ma il fato ci mette lo zampino, e fa venire un infarto al coniuge mentre la signora è già costretta dalle manette. Oltre alla dipartita del marito, alla condizione di prigioniera e alla paura di morire di fame e sete, per la protagonista c'è anche il problema della porta di casa lasciata aperta, e di un grosso cane randagio che si aggira nei dintorni.... A dirla proprio tutta, "Il gioco di Gerald" è uno dei libri più noiosi e meno riusciti di Stephen King: come in "Cujo", cui si riallaccia per la parte del cane pericoloso che può rivelarsi tutt'altro che amico dell'Uomo ( e della Donna, nello specifico), si espande al massimo una sola situazione, di isolamento e esposizione ai pericoli esterni, di un personaggio, messo con le spalle al muro e costretto ad escogitare un sistema per non morire malissimo. Nel libro, e nel film, per non spegnere la tensione, la protagonista mescola ricordi sepolti e dialoga con una rielaborazione mentale dell'appena scomparso marito e di sè stessa: c'è da dire che l'adattamento di Mike Flanagan, regista di "Oculus" e "Ouja" è anche meglio del testo originario, perchè tuttavia tiene desto l'interesse dello spettatore e non si perde dopo poco tempo, come poteva risultare dalla non semplicità del racconto. Certo, i paralleli, oltre che con "Cujo", con "L'ultima eclisse-Dolores Claiborne" sono chiarissimi, e alla lunga qualche colpo il film lo perde: va però detto che questi lavori prodotti da Netflix, di base mostrano una certa qualità e ricercatezza nell'impaginazione, e che comunque Flanagan sa gestire le buone prove di Carla Gugino, un'attrice che avrebbe meritato un'altra carriera, e di Bruce Greenwood, una delle star mancate hollywoodiane più duttili. Attendendo la versione cinematografica di "It", finalmente, dopo trent'anni, un "aperitivo" decoroso.
LA DONNA DEL TENENTE FRANCESE
( The french lieutenant's woman, GB 1981)
DI KAREL REISZ
Con MERYL STREEP, JEREMY IRONS, David Warner, Peter Vaughan.
DRAMMATICO
Fatale può essere uno sguardo, se ad un primo incontro lascia un segno in entrambe le persone che lo scambiano: accade sulla banchina di una città inglese, tra una donna solitaria e chiacchierata per via di una relazione con un militare francese ed un giovanotto promettente, che dovrebbe impalmare una signorina di buona famiglia: siamo nell'Ottocento, ed una passione sconveniente può gettare al vento un'esistenza. Ciò accade in un film che è in lavorazione, e parallelamente, i due attori che interpretano i ruoli suddetti vivono una relazione clandestina, che ha le stesse incertezze, morde il freno e può risultare pericolosa per l'ordine delle cose e dello status delle due persone in questione. Da un romanzo di John Fowles, lo stesso che firmò "Il collezionista", Harold Pinter ha tratto uno script consegnato in mano ad uno dei registi di maggior spicco della "british renaissance", nonostante fosse di origini cecoslovacche: candidato a cinque premi Oscar in una delle edizioni più "classiciste" dell'Academy, quella del 1982, in cui a far la parte del leone furono titoli quali "Momenti di gloria", "Reds" e "Sul lago dorato", dette la prima vera parte da protagonista sul grande schermo sia a Meryl Streep che a Jeremy Irons. Delle due parti che scorrono a fianco, meglio curata appare quella "finta", del film nel film, con un'ottima ricostruzione d'ambiente, ed una tensione sentimentale ben elaborata: più sbrigativa quella ambientata al giorno d'oggi, seppure Pinter fornisca sfaccettature e arricchisca di dettagli i personaggi in scena. Quasi a sottolineare come la realtà possa essere più dura e prosaica della finzione, i finali delle due storie d'amore andranno in senso opposto: pur dirigendo con mano salda e qualche lirismo sparso qua e là, Reisz non sfugge del tutto ad una sensazione di calligrafismo di fondo. E nel confronto attoriale delle due star future, risultato pari, perchè in più occasioni la Streep e Irons paiono non sempre convinti del tutto dei ruoli sostenuti.
L'UOMO DI NEVE ( The Snowman, GB 2017)
DI TOMAS ALFREDSSON
Con MICHAEL FASSBENDER, Rebecca Ferguson, Charlotte Gainsbourg, J.K. Simmons.
THRILLER
Harry Hole è il protagonista di diversi dei romanzi scritti da Jo Nesbo e divenuti best-sellers internazionali: investigatore sagace ma avvezzo a lasciarsi troppo andare con la bottiglia, vive spesso situazioni limite e si getta come un mastino sulle tracce di assassini nel gelo candido della Norvegia. "L'uomo di neve" è tratto dal settimo libro su Hole, e vede un killer far apparire un pupazzo di neve in prossimità dei lluoghi in cui vivono le sue vittime, per poi decapitarle con un cappio elettrico; Hole indaga, affiancato da una neocollega molto bella, per scoprire che l'assassino sceglie donne che ritiene colpevoli di comportamenti scellerati. E' vero che un'opera cinematografica che viene tratta da un romanzo deve diventare una cosa a sè stante, e che non debba rimanere troppo legata al testo originario, per non correre il rischio di apparire fin troppo ricalcante la pagina scritta. Però, del romanzo, "L'uomo di neve" conserva lo spunto, e, più o meno, il telaio della storia di Nesbo, ma si prende diverse libertà ( per fare un paio di esempi, muoiono qua due personaggi che nel libro invece rimangono vivi, e pure il flashback che rivela il trauma di chi uccide, è abbondantemente diverso), stravolgendo di parecchio il romanzo. Ma non è il male principale: è che l'intero film è mal sceneggiato, dando un'impressione di pressapochismo, narrativamente parlando, piuttosto marcato. Personaggi che sembra abbiano un peso decisivo nel racconto, dimenticati per strada o destinati a rimanere ai margini, e altri che, stando a quanto ci mostra la pellicola, non si capisce perchè si debba seguirli, vedi il magnate interpretato da J.K. Simmons, che nel libro è una bandiera di narcisismo su cui la trama si concentra per vari motivi, e qui appare più volte, ma senza alcuna reale funzionalità per il racconto. Nonostante l'evidente sforzo produttivo, e l'ambientazione riuscita in un luogo inusuale per il cinema occidentale come Oslo, "The Snowman" si rivela essere una delusione, in cui gli attori rivestono in modo poco convinto i personaggi interpretati, e non si respira quasi mai la tensione che nel libro invece, a parte un finale fin troppo spaccone, spesso tiene su il lettore. Peccato, perchè di Alfredsson, il precedente "La talpa" era stato un bell'adattamento da Le Carrè, ricco di dettagli e di sfaccettature atte a raccontare i personaggi: qua, tutto ciò manca.
KINGSMAN- Il cerchio d'oro
( Kingsman: The golden circle, GB/USA 2017)
DI MATTHEW VAUGHN
Con TARON EGERTON, Colin Firth, Mark Strong, Julianne Moore.
AZIONE/COMMEDIA
Specializzando in film tratti da strisce di successo, Matthew Vaughn, dopo aver girato "Kick-Ass" e "X-Men-L'inizio", realizzò nel 2014 "Kingsman", tratto anch'esso da fumetti di Dave Gibbons, arrivando a incassare ben 414 milioni di dollari a livello mondiale: se negli altri casi il regista aveva poi lasciato i progetti senza girarne sequel, in questo caso si è fatto convincere a firmare anche il capitolo secondo. Il quale vede l'ormai laureato agente segreto "Eggsy", divenuto "Galahad" (i componenti del servizio Kingsman hanno tutti nomi che si riferiscono a Camelot e alla Tavola Rotonda) venire aggredito da un ex-candidato a far parte della società segreta, che ha un braccio di metallo come un cyborg. Dopo averlo sconfitto, il protagonista, assieme a "Merlino" scopre che il giovane fa parte di una specie di setta, chiamata "Il cerchio d'oro", visto che tutti i membri sono tatuati con oro puro, raffigurando un anello: sono guidati da una trafficante di droga che in piena jungla coordina attentati, uccisioni e smercio di oppiacei da una base concepita tipo ristorante-tavola calda da "American Graffiti", in cui si tritano gli avversari letteralmente e si servono hamburger di carne umana.... Dopo un avvio con scontro in taxi in corsa, fracassone e esagerato, il film fa alleare i sopravvissuti dei "Kingsman" con un gruppo di agenti segreti USA analogo, in cui tutti si chiamano con nomi di bevande alcoliche, "resuscita" il reclutatore Colin Firth, spiegando che cosa gli era successo nel primo episodio, e tra una spacconata e l'altra, prepara il grande scontro finale tra dobermann meccanici, missili e sparatorie attraverso gigantesche ciambelle. Non è tanto l'esagerazione delle zuffe, la ricerca dell'estetizzazione con ralenti infiniti, e il gusto non tarato benissimo nel cercare un equilibrio tra umorismo grottesco e violenza spinta, ma il fatto che Vaughn cominci a parer fare troppo il verso a sè stesso, oltre che voler imitare certi aspetti del cinema tarantiniano; e se molti degli attori illustri presenti in scena sono bellamente sprecati, vedi Jeff Bridges e Channing Tatum, due ruoli senza, in pratica, peso narrativo, la partecipazione baracconesca di Elton John, pur capendo l'intenzione autoironica, non rimarrà tra le cose migliori della sua carriera. Finale aperto ad un terzo sviluppo, anche se "Kingsman" sembrerebbe aver esaurito molti dei propri argomenti.
I SEGRETI DI WIND RIVER ( Wind river, USA/GB/CAN 2017)
DI TAYLOR SHERIDAN
Con JEREMY RENNER, ELIZABETH OLSEN, Kelsey Chow, Graham Greene.
THRILLER
Profondo Nord americano: nel Wyoming innevato quasi tutto l'anno, nella riserva indiana Wind River, vicina all'omonimo fiume, viene ritrovata cadavere una giovane di etnia pellerossa. L'FBI manda una sua agente, che collabora con la polizia locale, composta da pochi elementi, e le dà una mano un cacciatore di predatori che lavora per la "Fish and Wild life Service", compagnia che tutela mandrie e greggi dagli assalti di puma, lupi e altri animali che per sopravvivere alle gelide asperità del territorio, li decimano. Per arrivare alla scoperta della verità, si dovranno aspettare colpi a tradimento e constatare, una volta ancora, quanto il Male possa nascere nella banalità e dall'assenza di un qualsiasi ritegno morale. L'esordio di Taylor Sheridan, che ha sceneggiato titoli interessanti quali "Sicario" e "Hell or high water", è un thriller con contaminazioni western, ambientato nell'abbacinante biancore di una terra ingenerosa e freddissima: in cui miseria, alcool, assenza di valori la fanno da padroni, e sopravvivere è all'ordine del giorno. Adottando una cadenza decisa, ma quasi eastwoodiana nella tendenza a non accelerare il racconto, Sheridan costruisce una storia amara e malinconica, di padri mutilati di una parte della loro discendenza, e di un'umanità che si ostina a voler vivere in luoghi che sono molto più consigliabile l'abbandonare che il continuarvi a vivere. Jeremy Renner inietta durezza in un personaggio che ha imparato a convivere con un dolore insanabile, e Elizabeth Olsen dà il giusto senso di spaesamento alla donna dell'FBI venuta da un altro mondo, rispetto a quello in cui si svolge la vicenda. Punteggiato da una colonna sonora efficace di Nick Cave e Warren Ellis, "Wind river" conquista l'attenzione e l'apprezzamento dello spettatore, via via che il lungometraggio scorre, come un rivo, verso la sua conclusione. Presentato con successo a più manifestazioni, ha rischiato di arrivare da noi solo su video o via tv: sarebbe stato un peccato che, analogamente a "Hell or high water", anche questo titolo non fosse stato distribuito regolarmente, perchè si tratta di due dei film più interessanti dell'ultimo biennio, provenuti da oltre l'Atlantico.
COM'E' DURA L'AVVENTURA ( I, 1987)
DI FLAVIO MOGHERINI
Con PAOLO VILLAGGIO, LINO BANFI, Gastone Moschin, Brigitta Boccoli.
COMMEDIA
L'industriale varesotto Gastone Moschin è sull'orlo del crack finanziario, le banche gli negano fidi e aiuti di qualsiasi tipo, e quando il cognato Paolo Villaggio, che lo avrebbe contattato per dirgli che vuol lasciare la sorella, odiosa, depressa e deprimente, ma non ne ha il coraggio, gli suggerisce una scappatoia, non si fa scappare l'occasione. In pratica, dovrebbe affondare la propria barca e incassare due miliardi con l'assicurazione: ingaggiato il marinaio sull'orlo del suicidio Lino Banfi, scatta la manovra truffaldina, che avrà diversi contrattempi. Paolo Villaggio e Lino Banfi, alla sesta collaborazione, riescono nei loro duetti, venati di una vaga malinconia, a dare qualche sprazzo, molto aleatorio, di interesse ad un filmetto che sancì, in pratica, la fine della carriera registica di Flavio Mogherini, negli anni Settanta capace di incolonnare qualche titolo di successo, e fu distribuito quasi alla chetichella un pò di mesi dopo la sua realizzazione. Del resto, le occasioni per farsi due risate sono molto impalpabili, il racconto vorrebbe forse fare il verso a certi classici della commedia nostrana di una ventina d'anni prima, ma è percepibile che il film sia fiacco, e induca, nel finale, più a una certa tristezza che al sorriso. Del cast, nel cui c'è anche Alessandro Haber che fa l'italiano costretto a rimanere in Marocco per problemi in sospeso in patria, e Brigitta Boccoli, nipote disadattata di Banfi, che dalla visagista fiorisce come bellezza ingenua, quello che brilla di più è Moschin nel ruolo di un infamone aggressivo e voltagabbana: ma quel che rimane di "Com'è dura l'avventura", è una pochezza sostanziale.
ROSSINI! ROSSINI! ( I, 1991)
DI MARIO MONICELLI
Con PHILIPPE NOIRET, SERGIO CASTELLITTO, Jacqueline Bisset, Giorgio Gaber.
BIOGRAFICO/DRAMMATICO/COMMEDIA
Giunto in età matura, logorato dalla noia salottiera, spento dalla salute che se ne sta andando, Gioacchino Rossini rievoca la propria giovinezza, la Storia che gli è scorsa accanto, i trionfi in musica, e le tresche amorose che ha vissuto: il vecchio Rossini è impersonato da Philippe Noiret, quello giovane da Sergio Castellitto. Mario Monicelli rimase molto deluso dal corposo insuccesso di questo suo lavoro biografico su un artista italiano importante, tra i grandi compositori nazionali: c'è da dire che il lavoro di ricostruzione d'epoca, tra scenografie, costumi e accuratezza varia, è evidente. Ma l'involuzione di quello che è stato tra i più importanti e meno lodati registi italiani, era cominciata, contrastata solo dal guizzo, nella stessa stagione, della commedia cattiva "Parenti serpenti", forse il suo ultimo film di spicco davvero: certo, tutto farebbe pensare a "Rossini! Rossini!" come a un'opera di serie A, e, appunto, produttivamente, lo è. Ma, come fece notare qualche recensore per il precedente "I picari" ( personalmente ritengo che il discorso valga anche per "Il male oscuro"), è un cinema in cui c'è cultura e intelletto, ma manca cuore ed emozione: e per uno che ha girato pellicole del calibro di "Romanzo popolare", "Amici miei", "I soliti ignoti", tanto per citare a caso, è un bel freno.
L'ORDINE DELLE COSE ( I/F/TUN 2017)
DI ANDREA SEGRE
Con PAOLO PIEROBON, Giuseppe Battiston, Valentina Carnelutti, Fabrizio Ferracane.
DRAMMATICO
Data la concomitanza con la questione ius soli, e le cronache perpetue di sbarchi di immigrati dall'Africa, si potrebbe quasi definire un'instant-movie, questa pellicola che racconta la missione di un emissario governativo, ex-poliziotto, Corrado, che va in Libia per cercare un accordo con la guardia costiera locale, e con militari del paese africano, per un deciso rallentamento del flusso di profughi. Lo aiuta nella trattativa il collega Luigi, che conosce da molto, e che sa muoversi nel complicato intreccio di rapporti tra gli avidi controllori delle coste ( perchè, benchè indossino divise regolari, è con rappresentanti di clan dalla mentalità tribale che l'Europa là è costretta a trattare): mentre visita, assieme ad altri funzionari di paesi europei uno dei centri in cui sono trattenuti diverse persone che cercavano di allontanarsi dal continente africano, il protagonista viene avvicinato da una giovane donna, che lo implora di portare una chiavetta ad una persona a Roma, per essere aiutata a raggiungere la Finlandia, ove la aspetta il marito. Il cuore del film di Segre, che viene dal mondo del documentario, e la cosa si avverte nelle inquadrature, nei ritmi narrativi e nel modo di inquadrare luoghi e persone, è appunto questo: quando ci si confronta con le masse relativamente astratte di "migranti" è più semplice alzare una barriera di indifferenza, è quando si viene a contatto diretto con qualcosa che possa scatenare il celeberrimo "fattore umano", che il tutto si può complicare. "L'ordine delle cose" (titolo che fa riferimento sia alla pignoleria personale del protagonista, sia a un sistema che prescrive inesorabilmente privilegi e privazioni) si conferma un'opera seria anche approdando ad un finale amaro, che ricorda come, nonostante ogni sussulto di coscienza, che cambia prospettive e aspetto emotivo, distogliere sguardo e interesse sia la via più facile per mantenere lo status quo. Bravissimo Paolo Pierobon, che, pur attivo da diversi anni, al cinema aveva avuto poche occasioni per mettersi in mostra, e da apprezzare i vari volti importanti, da Battiston alla Carnelutti, a Citran, per come si mettono a disposizione in ruoli secondari e comunque utili nell'economia di un racconto realista e compostamente impietoso con il nostro comodo privilegio di condizione.
BABY DRIVER- Il genio della truffa
( Baby driver, USA 2017)
DI EDGAR WRIGHT
Con ANSEL ELGORT, Kevin Spacey, Jon Hamm, Jamie Foxx.
AZIONE
Purtroppo, spesso i titolisti in Italia sbagliano di grosso i sottotitoli o addirittura i titoli, affibbiando cose che non c'entrano niente con il film a cui sono assegnati, per accattivare, nelle intenzioni, l'interesse del maggior numero di spettatori: "Baby Driver", che deve il suo titolo all'omonima canzone di Simon & Garfunkel, al limite poteva avere per sottotitolo "Il genio del volante", o "L'asso del sorpasso", ma di truffe qui non se ne parla proprio, perchè al centro del racconto c'è una gang di rapinatori. Alla quale è legato, per un debito da saldare, il giovane protagonista, che porta degli auricolari fissi, e balla canticchiando le canzoni che ascolta da una vita: una ragione, doppia, c'è per questo, e lo scopriamo via via che il film scorre. La storia è molto lineare: c'è lui, che si innamora di una lei, cameriera in una tavola calda, nascondendole che fa l'autista alla banda di criminali, data la sua abilità incredibile nel guidare e sfuggire alla polizia. Quel che differenzia questa pellicola dai numerosi action-crime movie che escono a decine, è la buona definizione dei personaggi, particolareggiati e molto caratterizzati dagli interpreti: dal boss freddo ma meno peggiore di quanto possa sembrare di Kevin Spacey, al pistolero violento di Jamie Foxx, al delinquente più lucido, ma alla fine spietatissimo di Jon Hamm, è evidente la mano di chi sa scrivere cinema. Magistrale nelle scene d'azione pura, con inseguimenti e sparatorie d'alta scuola, "Baby driver" lo è meno nella gestione del racconto, e si trascina per fin troppi finali, senza saper staccare dai pedali della conduzione al punto giusto. E accumula inverosimiglianze a profusione, sciupando l'occasione di trasformarsi in un cult-movie giovanile ben congegnato e girato.
BLADE RUNNER 2049 ( Blade runner 2049, USA/CAN/GB 2017)
DI DENIS VILLENEUVE
Con RYAN GOSLING, HARRISON FORD, Ana De Armas, Jared Leto.
FANTASCIENZA/NOIR
Quando uscì, "Blade runner" fu un buon successo di pubblico, e confermò l'interesse della critica per Ridley Scott, atteso, a tre anni dalla sua prima grande affermazione al cinema con "Alien", per questo noir virato in fantascienza, ambientato in una oscura e piovosa Los Angeles: il culto del film però esplose circa cinque anni dopo la sua uscita, con citazioni a raffica ( il famoso monologo di Roy Baty/Rutger Hauer prima di spegnersi) e, benchè si vociferasse da un bel pò di un sequel, il progetto era stato rimandato per anni. Prodotto dal regista originario, e affidato al canadese Denis Villeneuve, giunge oggi questo secondo episodi della caccia ai "replicanti", androidi quasi in tutto assomiglianti agli esseri umani: conosciamo l'agente K in missione, in cui si reca in visita da un potenziale "replicante", e la colluttazione con questi porta l'investigatore a scoprire cose forse remote nella sua mente, che potrebbero avere un forte peso anche nella società ormai quasi disumanizzata del 2049, e lo conducono sulle tracce di un suo predecessore, Rick Deckard. I timori erano non pochi, da parte degli appassionati del film del 1982, che questa si rivelasse un'operazione superflua, quando non addirittura deleteria: però Villeneuve è bravo, e seppure abbia un passo narrativo scrupoloso e lontano dai ritmi alti hollywoodiani, conferisce all'intero lungometraggio una grande possanza visiva, con scenari cupamente grandiosi, che intimidiscono sia i personaggi sullo schermo, che gli spettatori. E' un'opera assai complessa, "Blade runner 2049", pur concedendo allo spettacolo anche scene d'azione molto ben congegnate, è un film realizzato con molta cura, eleganza e sapidità d'argomenti: buono il casting che ripesca interpreti del primo film , anche per brevi partecipazioni, come Edward James Olmos, e fa comparire al momento giusto Harrison Ford, lasciando molto del racconto sulle spalle di Ryan Gosling. Per quanto riguarda le musiche, pur funzionali, queste non rimarranno tra le più belle firmate dal pur bravissimo Hans Zimmer, mentre quelle del primo lungometraggio erano di un Vangelis all'apice della forma e dell'ispirazione. Nella ricerca di Deckard da parte di K, si ha modo di scrutare gli effetti di una globalizzazione impietosa, un agglomerato biologico stridente, con esseri umani di varie etnie tenuti insieme per forza, lo sfruttamento esecrabile di bambini come mano d'opera, bidonville che pulsano di masse ribollenti, un'umanità che sempre più a fatica ha coscienza di sè. Tutti dilemmi che fanno emergere diversi punti nevralgici di un Oggi molto difficile da decifrare e guidare verso ulteriori evoluzioni. Per cui, "Blade runner 2049", non sarà il film che ci aspettavamo, ma invece di suggerire un potenziale futuro, riesce a stagliare un inquieto sguardo sul presente per mandarci a casa volutamente non rassicurati.
LEATHERFACE ( Leatherface, USA 2017)
DI ALEXANDRE BUSTILLO e JULIEN MAURY
Con VANESSA GRASSE, SAM STRIKE, Lili Taylor, Stephen Dorff.
HORROR
La cosa che rimane più impressa di "The Texas chainsaw massacre", da noi ribattezzato "Non aprite quella porta", uscito nel 1973 e divenuto cult movie, lanciando la carriera del recentemente scomparso Tobe Hooper, è che è un horror relativamente truculento, ma mette tensione per l'atmosfera di sordida viziosità che permea la casa in cui vive la famiglia di campagnoli sanguinari di cui "Facciadicuoio" è il personaggio principale e icona. Ha generato sette altre pellicole, di altalenante qualità ( il remake del 2003 però era interessante), e, nonostante ci sia stato già un "Non aprite quella porta- L'inizio", questo nuovo film è un prequel che ci racconta come appunto il "mostro" che indossa i volti di alcune sue vittime e con la motosega fa scempio degli incauti che si avvicinano alla fattoria dei Sawyer. Pur non lesinando scene in cui gli spettatori più impressionabili si copriranno gli occhi, il lavoro della regia in tandem dei francesi Alexandre Bustillo e Julien Maury non è dozzinale, la storia è discretamente costruita, e per due terzi di proiezione pare di assistere ad un crime-movie piuttosto violento, con almeno un paio di sequenze memorabili (il pranzo di compleanno iniziale e la carneficina nella tavola calda), che approda a un finale orrorifico vero e proprio, in cui la malvagità della famiglia di psicopatici esplode e raffigura Leatherface come succube delle radici marce da cui proviene. Magari, forse, visto che è sempre stato rappresentato fisicamente come un colosso, Sam Strike non è la migliore scelta di casting, però il lungometraggio, che è debitore sia dell'originale di Hooper, che del dittico "La casa dei 1000 corpi"/ "La casa del diavolo" di Rob Zombie, per la rappresentazione di un Sud degli Stati Uniti assolato, selvaggio e pulsante di barbarie, sia per quanto riguarda i criminali che per coloro che dovrebbero esercitare la legge, non appare come una sequela di vittime sacrificali e di sadismo compiaciuto fine a se stesso, per dare colpi nello stomaco a ripetizione e nient'altro. Non passerà alla storia, ma è un capitolo decoroso di una saga cruenta e ricca di fans.