martedì 27 febbraio 2018

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NEI PANNI DI UNA BIONDA ( Switch, USA 1991)
DI BLAKE EDWARDS
Con ELLEN BARKIN, Jimmy Smits, Lorraine Bracco, JoBeth Williams.
COMMEDIA/FANTASTICO
Il seduttore Steve viene invitato da tre sue ex per una serata che lui pregusta piuttosto pepata, da solo con tre donne: mal gliene incoglie, perchè in realtà cercano prima di annegarlo in una piscina indoor, poi gli sparano. Tra le sue due nature, quella femminile e quella maschile, Dio opta di dargli una seconda chance, di rimediare ai propri peccati di misogino e irrispettoso del gentil sesso, ma il Diavolo ci mette lo zampino, suggerendo di farlo ritornare come donna. Da qui, tra equivoci, imbarazzi e disagi vari, sarà Amanda, sedicente sorellastra dell'ucciso, a dover confrontarsi con la sua nuova identità. A Blake Edwards va riconosciuto di aver quasi sempre messo il sesso al centro del proprio cinema brillante, contribuendo notevolmente a scardinare moralismi triti, visioni retrograde della coppia e della donna, spesso azzeccando il passo e l'occhiata su un dato argomento: negli ultimi anni della propria carriera, la verve al regista è venuta un pò meno, salvo il gradevolissimo "Appuntamento al buio", e anche "Nei panni di una bionda" non si segnala tra le migliori cose del regista de "La pantera rosa". Ellen Barkin è sensuale e attraente, ma per tutto il film sembra più un'ubriaca che un uomo nel corpo di una donna, le situazioni che dovrebbero essere più divertenti sono annacquate, e verso la fine la pellicola si concede una sbandata vagamente "new age" piuttosto deludente. Ben altra grinta avevano precedenti lavori di Edwards: qua si sorride distrattamente un paio di volte, per il resto si tende ad annoiarsi. 
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I LUNGHI CAPELLI DELLA MORTE ( I, 1964)
DI ANTHONY M.DAWSON ( ANTONIO MARGHERITI)
Con BARBARA STEELE, George Ardisson, Halina Zalewska, Umberto Raho.
HORROR
Si parla sempre del western spaghetti e del thriller all'italiana, ma anche le versioni italiche del gotico su cui la Hammer creò il proprio successo, sono titoli spesso interessanti, vedi "Il mulino delle donne di pietra", e soprattutto "La maschera del demonio": secondo schema consueto, la storia si apre su un preambolo che spiega la dannazione futura dei personaggi principali, e difatti assistiamo, nelle prime scene, al martirio di una donna, accusata di essere una strega, arsa viva su un rogo, le cui due figlie sono una costretta ad assistere all'orrido fatto, l'altra, dopo essersi offerta a un potente per scongiurare la morte della genitrice, è caduta nel fiume. Sui discendenti dei responsabili della morte della donna, la quale aveva lanciato una maledizione prima di bruciare, pesa appunto un'incognita fatale. Immerso in corridoi tetri, stanze nascoste e ragnatele giganti, il racconto procede con qualche ingenuità, accompagnato da musiche molto tipiche di questo genere: naturalmente, a Barbara Steele tocca il ruolo della seduttrice forse pericolosa. Antonio Margheriti, prima di far sfociare il proprio cinema nello splatter della decade successiva ( "Il mostro è in tavola...Barone Frankenstein" è uno dei più truculenti horror dei '70 prodotti in Italia) punta su luci, ombre e atmosfere, realizzando tuttavia un film decoroso, anche se senza grandi tensioni, con il classico finale secco e brusco, visto in altre produzioni come questa.

venerdì 23 febbraio 2018

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LA FORMA DELL'ACQUA ( The shape of water, USA 2017)
DI GUILLERMO DEL TORO
Con SALLY HAWKINS, Michael Shannon, Richard Jenkins, Octavia Spencer.
FANTASTICO
Non c'è alcuna attinenza con l'omonimo romanzo di Andrea Camilleri, sebbene il titolo sia il medesimo, che ha dato il via alle indagini del commissario Montalbano: il nuovo film di Guillermo Del Toro è ambientato a Baltimora, nel 1962, poco dopo la crisi della Baia dei Porci tra USA e URSS, e fin dalle prime immagini abbiamo modo di comprendere che quel che sarà narrato è una fiaba, con la protagonista Elisa che sogna sott'acqua. La ragazza ha un passato da trovatella, non può parlare, e lavora come donna delle pulizie in un grande laboratorio di proprietà del governo americano, nel quale giunge qualcosa di segreto. Elisa conta sull'amicizia e solidarietà di una collega nera e di un vicino pittore omosessuale, e scopre che nelle vasche che pulisce è rinchiusa una creatura anfibia umanoide: gli sviluppi della vicenda, che si faranno molto drammatici, ma anche molto romantici, prendono velocità fino a sfociare in un finale teso e che spalanca definitivamente i cancelli del Sogno. "The shape of water" ha già vinto il Leone d'Oro all'ultimo festival di Venezia, e punta, con tredici nominations, a fare la parte da protagonista all'imminente notte degli Oscar: Del Toro, da sempre cantore di un cinema che del Fantastico ha radice e corpo, per parlare di sociale, politico e umanista, imbastisce un lungometraggio molto stilizzato, che si pone nettamente dalla parte dei tradizionalmente emarginati dalle società "perbene", dato che gli eroi sono una disabile, un'afroamericana, un russo infiltrato, un gay e un mostro, ed i cattivi sono quelli delle Regole e del Benessere, soprattutto nell'epoca americana raccontata da sempre come quella della "felicità" e del "sogno americano", dato che l'anno seguente, con l'assassinio di JFK si sarebbe, in teoria, persa l'innocenza. Cast lodevole, dalla silenziosa (tranne in una scena) Sally Hawkins al velenoso Michael Shannon, dal timido Richard Jenkins alla volitiva Octavia Spencer, e al lanciatissimo Michael Stuhlbarg, che è nel cast di tre pellicole candidate all'Oscar (oltre a questo, pure in "Chiamami col tuo nome" e "The Post"). Capace anche di giocare l'azzardo di una scena musical, di raccontare l'amore tra un essere umano e un "qualcosa d'altro", imbocca la via della meraviglia visiva e dell'omaggio al cinema classico, con una creatura che è la replica moderna de "Il mostro della laguna nera", il film sposa la disponibilità dello spettatore a credere in qualcosa che metta in immagini una favola anche cruenta alla necessità di sperare che anche chi è relegato in un angolo faccia qualcosa di decisivo, spinto più che altro dalla propria umanità. Da non perdere.
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COME SI DISTRUGGE LA REPUTAZIONE DEL
PIU' GRANDE AGENTE SEGRETO DEL MONDO
( Le Magnifique, F 1973)
DI PHILIPPE DE BROCA
Con JEAN-PAUL BELMONDO, JACQUELINE BISSET, Vittorio Caprioli, Fabrizio Moresco.
COMMEDIA/AZIONE
Belmondo è stato una grande star del cinema francese ed europeo, capace di passare da ruoli drammatici, a quelli d'azione (che spesso amava realizzare senza controfigure), a parti brillanti, spesso con molta autoironia, prendendosi in giro come in questo caso. Fin dall'inizio è abbastanza chiaro che ci troviamo di fronte ad un gioco parodistico, in cui un super agente segreto prende a pugni un manipolo di nemici stando al telefono, si infila al volo nelle cabriolet come se soffiasse via un pelo dalla spalla, salta, schiva e colpisce con naturalezza quasi annoiata. E, ovviamente, al proprio fianco, ha una donna splendida, che lo ama perdutamente. Tutto ciò è il mondo creato da uno scrittore considerato di serie C ma i cui romanzi si vendono, seppure a prezzo ridotto: questi ha dato il proprio volto alla spia Saint-Clair, le fattezze della bellissima vicina di casa alla donna dei desideri Samantha e l'aspetto del proprio tignoso editore alla nemesi del suo eroe. Il film di De Broca si presta quindi ad uno svago che diventa metacinematografico, e spesso si ride con i paradossi sullo schermo, che anticipano l'imminente arrivo della commedia demenziale americana: il modello, inarrivabile, è "L'uomo di Rio" girato una decina d'anni prima da Bebel, e forse qualche azzardo splatter, che comunque prende in giro l'aumento di violenza nel cinema d'azione coevo, è un pò troppo da digerire. Ma in un'ora e mezza si ha modo di simpatizzare con le fanfaronate consapevoli di Belmondo, rimanere ammaliati dalla grazia sensuale di Jacqueline Bisset, entrambi all'apice del proprio fascino, e non si rimpiange ogni risata o sorriso strappati.
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L'UOMO SUL TRENO (The commuter, USA 2018)
DI JAUME COLLET-SERRA
Con LIAM NEESON, Jonathan Banks, Patrick Wilson, Vera Farmiga.
THRILLER/AZIONE
Giornata-no per l'agente assicurativo Michael McCauley: arriva al lavoro, e il suo superiore gli annuncia che la sua liquidazione è sulla sua scrivania, dato che a sessant'anni costa troppo per l'azienda; uscito con la comprensibile rabbia e amarezza, l'uomo, pendolare, si ritrova su un treno in cui viene avvicinato da una sconosciuta, che gli annuncia che dovrà eseguire un omicidio, per impedire che la sua famiglia venga sterminata. Da lì il protagonista è diviso in due tra l'avversione a compiere un atto infame ed il terrore che il proprio rifiuto causi una tragedia tremenda. Il terzo film girato insieme da Jaume Collet-Serra e Liam Neeson parte con osservazioni non banali, sugli esodati d'oltreoceano , con un'attenzione a definire il personaggio principale interessante, ed il plot può accattivare. Però, a tre quarti di proiezione, un thriller con qualche scena d'azione, ambientato in uno spazio relativamente angusto, diventa un'americanata che cerca e trova forzatamente una deriva spettacolarizzante che sciupa buona parte del lavoro fatto fino ad allora. Con inverosimiglianze belle e buone (un vagone che si ribalta più volte senza vittime? Magari...), ed un'estremizzazione del complotto messo in atto, per togliere di mezzo un testimone, cervellotica e assurdamente complicata. Neeson, che ha affermato che questo sarà il suo ultimo ruolo action, appare piuttosto invecchiato e non in formissima, tanto spazio per gli altri interpreti non ne rimane nella sceneggiatura, nonostante si riformi, in cartellone, la coppia di "The Conjuring", con Patrick Wilson e Vera Farmiga.

martedì 20 febbraio 2018

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BLACK PANTHER ( Black Panther, USA 2018)
DI RYAN COOGLER
Con CHADWICK BOSEMAN, Lupita Nyong'O, Michael B. Jordan, Danai Gurira.
FANTASTICO/AZIONE
Il Wakanda, come Latveria, fa parte di una geografia che esiste solo nel mondo Marvel: il primo è un regno situato nel centro-Est del continente africano, la seconda è un principato collocato, più o meno, sopra l'ex-Jugoslavia e vicino all'Austria. Se il primo paese è quello del Vendicatore "Black Panther" ( da noi Pantera Nera), il secondo è quello del Dr. Destino: e proprio in Wakanda si svolge la maggior parte della storia narrata in questo kolossal, che tocca comunque anche USA, Inghilterra e Corea. Avevamo già conosciuto, cinematograficamente, T'Challa, il principe destinato a diventare il supereroe africano più noto dell'universo di Spidey, Thor & C., in "Captain America:Civil War", e la scelta, da parte dello studio di proprietà della Disney, di realizzare una grossa produzione che vede quasi esclusivamente attori afroamericani in scena ( tranne Andy Serkis nei panni del cattivo Klaw e Martin Freeman in quelli dell'agente CIA alleato) poteva comportare un certo rischio, giacchè è opinione comune a Hollywood che i film quasi interamente interpretati da attori di colore non portano grande incasso. Ed invece, le cifre risultate immediatamente dall'uscita ( si parla di oltre 240 milioni di dollari solo negli USA) hanno smentito le previsioni più caute. In un contesto che passa dagli accenni alle radici nella tribalità della cultura africana ( gli scontri per l'incoronazione come duelli) alla fantascienza ( gli scontri tra le navicelle), si svolge uno dei film meno ironici della Marvel al cinema, ma anche uno dei più politici, che racconta del traffico d'armi in Africa come uno dei motori dell'economia occidentale e mondiale, rivendica l'orgoglio dell'etnia che dal continente nero proviene, ma senza retorica, e probabilmente farà di più, come messaggio antirazzista, un'operazione come questa di diversi pamphlets che respingono il grosso dell'attenzione pubblica. Nel cast, se Andy Serkis, stavolta senza maschera, gigioneggia nel ruolo del malvagio Klaw, Coogler lancia diversi volti "coloured" per il futuro, e tra le statuarie presenze femminili, spicca ancora per fascino e bellezza Angela Bassett, nel ruolo della madre dell'eroe.

domenica 18 febbraio 2018

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SETTE VOLTE SETTE ( I, 1968)
DI MICHELE LUPO
Con GASTONE MOSCHIN, LIONEL STANDER, Raimondo Vianello, Gordon Mitchell.
COMMEDIA/AZIONE
Sulla scia del grande successo, anche internazionale, de "I sette uomini d'oro", e nell'ambito del "robbery movie", sottogenere che miscelava azione, commedia e thriller, in cui, di solito, una gang di elementi apparentemente scombinati mette a segno un colpo di grande difficoltà e di enormi introiti, il cui capostipite può dirsi "Topkapi" di Jules Dassin, ecco verso la fine della decade in cui maggiormente si hanno avuti film di questo genere, "Sette volte sette". Ambientato nella Londra già post-swingin', contempla una banda di carcerati per furto inventarsi un colpo, stampando sterline fasulle in gran quantità, fuggendo dalla prigione per poco oltre un'ora e mezza, mentre le guardie carcerarie sono prese dalla visione di Sheffield- Everton: complice il sedicente medico-detenuto, i sette criminali hanno a che fare con varie peripezie per riuscire prima a ordire l'impresa, poi tornare in gattabuia costruendosi, di fatto, un alibi ineccepibile. Naturalmente, il diavolo ci mette lo zampino e non tutto andrà come previsto, come da tradizione.... Mal fotografato, con una luce opaca e senza appeal, il filmetto si trascina per un'ora e mezza risultando già vecchio per l'epoca in cui uscì, con un cast in cui si spreca Adolfo Celi nella particina del direttore del penitenziario ( doppiandolo pure!!!), Gastone Moschin prova ad istrioneggiare, ma non gli fa gioco la scrittura del personaggio, e Lionel Stander dovrebbe essere il personaggio comico, ma risulta più petulante che altro, per non parlare della scialba prova di Raimondo Vianello. Compare anche Paolo Bonacelli nel ruolo di un secondino, e la regia di Michele Lupo non azzecca nè ritmo, nè direzione degli attori, nè tonalità umoristiche.
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VAI GORILLA ( I, 1975)
DI TONINO VALERII
Con FABIO TESTI, Renzo Palmer, Claudia Marsani, Al Lettieri.
AZIONE
I sequestri di persona, soprattutto riguardanti personalità e gente abbiente, erano frequenti nella cronaca nera italiana degli anni Settanta, e non sono pochi i film che raccontano di situazioni simili: qui è di scena un giovane stuntman che non riesce a ritrovare lavoro, e si inventa allora guardia del corpo. Dopo uno stratagemma, in combutta con altri "gorilla", riesce a farsi assumere da un industriale burbero e tendente alla villania: una banda di malviventi prende di mira l'uomo d'affari, e dopo un'iniziale dèbacle, il duro protagonista saprà insieme debellare la gang, salvare il datore di lavoro, e portarsi via la di lui figlia. Film d'azione senza granchè di cui ricordare, sebbene sia girato da un regista spesso decoroso, come Tonino Valerii, "Vai gorilla" infila almeno una scena ben riuscita, quella della trappola nell'ascensore: girata con perizia e buon dosaggio della suspence, fa vedere la mano di Valerii quando sa far funzionare il proprio mestiere. Ma le troppe improbabilità ( la sparatoria dai vagoni dal treno alla macchina della polizia all'inseguimento, con il "civile" Testi che spara ai malviventi con l'approvazione delle forze dell'ordine è delirante...), la gran parte di prevedibilità della storia, la poca consistenza dei dialoghi, e il grado di recitazione collettivo ( escluso Palmer) porta il film nella categoria del "poco interessante".
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HOT FUZZ ( Hot fuzz, GB 2007)
DI EDGAR WRIGHT
Con SIMON PEGG, Nick Frost, Jim Broadbent, Timothy Dalton.
COMMEDIA/AZIONE
Secondo segmento di quella poi denominata "Trilogia del Cornetto", iniziata con "L'alba dei morti dementi" e conclusa con "Facciamola finita", "Hot fuzz" vede anche qui Edgar Wright dietro alla macchina da presa e co-sceneggiatore insieme a Simon Pegg, che è sempre l'attore principale in tutta la tripletta di pellicole. Dopo aver sbeffeggiato l'horror di zombies alla Romero, è la volta del poliziesco d'azione: il poliziotto tutto d'un pezzo Nicholas Angel è considerato il miglior agente della capitale d'Inghilterra, ma le invidie dei colleghi e gli attriti con i superiori portano l'ultraprofessionale sbirro in una cittadina sonnacchiosa, ma le apparenze di luogo di periferia placido e senza pecche cela, in realtà, non poche brutture ed orrori. Wright sa il fatto suo nell'impaginare i film che dirige, cura bene montaggio e allestimento, mostra di saper come dirigere gli attori: sta diventando un regista di peso, però continua a sembrare un uomo di cinema dotato di estro e mestiere, ma che si limita a realizzare dei giocattoli in celluloide, alla lunga perdendo il filo del racconto, o divagando fin troppo, giocando su gags che tendono a divenire fini a se stesse. Ce ne sono di riuscite, certo, e si ha continuamente la sensazione di star assistendo ad un lungometraggio ben fatto, però spesso questo tipo di cinema rischia di trasformarsi da spassoso in stucchevole, da originale in ripetitivo. Ed è un peccato, perchè il talento c'è, ma viene in un certo modo sperperato, e non rende tutto il proprio potenziale. Nel cast curiosamente dedito ad un certo atletismo Pegg, mentre Jim Broadbent esprime bene il doppiogiochismo del proprio personaggio, e Dalton pare spassarsela eccome nel tratteggiare un cattivissimo.

domenica 11 febbraio 2018

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TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI
( Three billboards outside Ebbing, Missouri, USA 2017)
DI MARTIN MCDONAGH
Con FRANCES MCDORMAND, Sam Rockwell, Woody Harrelson, Caleb Landry Jones.
DRAMMATICO
Ebbing non esiste, in Missouri: è una località fittizia, ma può essere una delle tante della profonda provincia americana, a Sud, quella che nei giornali viene indicata come una delle risorse fondamentali per la vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni USA. Una donna carica di livore e sfiduciata presso le istituzioni, dopo che la figlia è stata violentata e uccisa, affitta tre grandi cartelli, su una strada, in cui chiede ragguagli allo sceriffo del posto, circa il mancato evolversi delle indagini. Da qui parte un ritratto a tinte marcate di un luogo che è un angolo d'America, ma che ne spiega alcune particolarità in maniera molto esemplare. Una cultura forgiata sulla prova di forza perenne, come in una jungla, in cui non ci si deve lasciar sopraffare da nulla, che siano fatti concreti o in prospettiva. In cui un poliziotto scaraventa una persona giù dalla finestra di un primo piano, e successivamente torna in ufficio con i piedi appoggiati alla scrivania, come se fosse stata ordinaria amministrazione quel che ha appena compiuto. Al terzo film diretto, Martin McDonagh, venuto dalla Gran Bretagna, con radici irlandesi, azzecca tonalità e cura nel lavorare i dettagli dei personaggi, senza alcun manicheismo: quasi ogni personaggio, per quanto negativo, ricco solo di rancore e tendenzialmente vuoto dentro, ha un momento di ceduta al sentimento, o alla tenerezza, che ne umanizza non poco l'essenza. E il quadro d'insieme, con diversi momenti violenti, è un'analisi senza retorica e mordace di un mondo teoricamente sviluppato, ma in realtà retrogrado, e talmente affondato nell'ignoranza, da sembrare ingenuo, nel quale le parole di un uomo morto possono imprimere una svolta nei comportamenti anche più riprovevoli. Un cast ben nutrito è tutto da lodare, ma la palma (e, si spera, finalmente, l'Oscar) al migliore in campo è per Sam Rockwell, interprete senza paura di caratteri negativi e complessi, qui impegnato nel carattere più arduo da rendere, dato che allo spettatore deve far provare prima la rabbia, poi la compassione. 
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THE POST ( The post, USA 2017)
DI STEVEN SPIELBERG
Con MERYL STREEP, TOM HANKS, Sarah Paulson, Bob Odenkirk.
DRAMMATICO
Nella filmografia di Steven Spielberg, un settore a parte lo occupa l'ormai nutrito blocco di titoli riguardanti la Storia, degli USA in particolare, ma riguardanti anche altre realtà: da "L'impero del Sole", a "The Post", passando per  i vari "Schindler's list", "Amistad", "Salvate il soldato Ryan", "Lincoln", "Munich", "Il ponte delle spie", il regista ha scandagliato brani di passato per capire e aiutare a capire questo confuso presente. Nella fattispecie, si narra come il "Washington Post", considerato ancora a fine anni Sessanta un "piccolo" giornale, si trovasse a disposizione scottanti segreti di Stato, a proposito della guerra nel Vietnam: in pratica, la dimostrazione con prove che ogni amministrazione, da quella che l'aveva intrapresa, a quella che la stava gestendo, fosse a conoscenza della impossibilità di vincere il conflitto, e ciononostante, inviare truppe al macello. Il film si dispiega cercando di enunciare con maggior chiarezza possibile la questione, il dilemma etico della proprietaria della testata, le trattative con la redazione che si prese la grossa responsabilità di portare la vicenda alla luce: e, via via che il tempo scorre sullo schermo, dal dramma storico il racconto si screzia di thriller, per la suspence circa le sorti di articoli e frizioni contro le quali, com'è prevedibile, da parte della politica, ci si batte. Spielberg, da uomo di cinema navigato, tiene vivo l'interesse e orchestra al meglio le due star in scena, Meryl Streep, bravissima a svelare la personalità di una donna potente ma insicura, conservatrice che però crede nella democrazia, e nei doveri che essa richiede, e Tom Hanks, giornalista combattivo e dedito alla causa della verità verso il lettore e l'opinione pubblica. "The Post" si traduce in un omaggio, sentito e probabilmente anche necessario sulla non scontatezza della Libertà, e dell'onestà intellettuale, contro le trame nascoste che troppo spesso si celano sotto la superficie ufficiale di governi e stati. Un cinema tenace e pugnace, degno dei grandi classici dell'impegno sullo schermo.

venerdì 9 febbraio 2018

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INDOVINA CHI VIENE A NATALE? ( I, 2013)
DI FAUSTO BRIZZI
Con DIEGO ABATANTUONO, RAOUL BOVA, CLAUDIO BISIO, CLAUDIA GERINI.
COMMEDIA
Commedia corale, pensata per richiamare più spettatori possibile, "Indovina chi viene a Natale" mette assieme interpreti spesso coinvolti in titoli di forte incasso, come Diego Abatantuono, Claudio Bisio, Claudia Gerini, Raoul Bova, Angela Finocchiaro, Carlo Buccirosso, Cristiana Capotondi, Gigi Proietti ( ma c'è anche un cameo di Massimo Ghini), a formare una famiglia allargata che si ritrova per le feste natalizie nella villa in montagna di proprietà. Dalla coppia di produttori di panettoni, alla figlia che porta a far conoscere il nuovo fidanzato, che è disabile ma sembra sapersi gestire, ad un'altra coppia in cui l'uomo viene tempestato di dispetti dai due figli della donna, che giocano il tutto per tutto per far lasciare alla mamma l'odiato intruso, al figlio non riconosciuto che viene da Napoli, e vorrebbe scrivere una fiction sulla loro epopea familiare. Girato in maniera particolarmente patinata, non riesce quasi mai a divertire, nonostante i nomi in ballo, e sprofonda, via via che la proiezione procede, in un pantano melassoso stucchevole e ipocritamente schierato per i buoni sentimenti. Mettiamoci anche un'automobile che precipita in un burrone, e i cui due personaggi a bordo se la cavano con qualche acciacco, mescoliamolo con la noia che sorge dopo poco, e lo scipito sformato è pronto. Incassò tuttavia oltre sette milioni di euro, ma quanta noia, e quanta poca convinzione tra gli attori.

domenica 4 febbraio 2018

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GEOSTORM ( Geostorm, USA 2017)
DI DEAN DEVLIN
Con GERARD BUTLER, Jim Sturgess, Abbie Cornish, Andy Garcia.
FANTASCIENZA
Dopo aver fronteggiato un potenziale disastro climatico, nel 2019, tutti i paesi della Terra si sono coalizzati per fronteggiare nuovi rischi, che causerebbero danni irreparabili al pianeta: però il satellite "Dutch Boy" che appunto rappresenta l'avamposto scientifico che salvaguarderebbe la salute del nostro mondo, potrebbe invece causare la catastrofe finale. Bisogna inviare là lo studioso che ne è il primo responsabile: spedito nel cosmo a raggiungere gli astronauti che lavorano sul satellite, Jake dovrà fronteggiare anche un complotto che punta a destabilizzare la Terra, oltre alle ingenti minacce provenienti dal clima impazzito. Già sceneggiatore di molti successi a firma Roland Emmerich quali "Stargate" e "Independence day", Dean Devlin gira un disaster-movie per cui in parte si simpatizza, perchè si schiera contro il menefreghismo trumpiano sugli accordi per il clima mondiale ( e anche perchè uno dei personaggi positivi è messicano, come egli stesso sottolinea con orgoglio), ma che viaggia ad un livello di improbabilità colossali come il numero degli effetti speciali profusi qua. Da una Smart che viaggia come una scheggia evitando di cadere nel magma sottostante della strada che si sta fondendo ( alla faccia del product placement!), a una condizione terrestre nel finale che, per quel che si è visto fino a poc'anzi, è quasi meglio di quella dopo un forte acquazzone, "Geostorm" inanella una serie di inverosimiglianze e di spacconerie da autoaffondarsi, con una sottotrama da thriller, discretamente inutile, appiccicata al plot: se Gerard Butler è ormai quasi una garanzia di film sbagliato, al livello di Steven Seagal, viene da chiedersi perchè continuino a suon di marchette la propria carriera attori di qualità come Andy Garcia e Ed Harris. Volendo, ci sarebbe un tentativo di ironia in alcune battute come quelle che il presidente USA/Garcia rivolge a Jim Sturgess dopo che la sua non ufficiale fidanzata Abbie Cornish ha improvvisato un testa-coda per liberarsi dei cattivi ("Sposala!!!"), ma non è granchè. 


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CHIAMAMI COL TUO NOME (Call me by your name, I/F/BR/USA 2017)
DI LUCA GUADAGNINO
Con TIMOTHEE CHALAMET, ARMIE HAMMER, Michael Stuhlbarg, Amira Casar.
Quattro candidature agli Oscar pesanti (film, attore protagonista a Chalamet, sceneggiatura non originale, canzone), tre ai Golden Globes, e un'altra salva poderosa di nominations a tanti premi di vario calibro, e una pioggia torrenziale di acclamazioni dalla critica: di fronte a così alti lai, viene quasi da imbarazzarsi a esporre una sostanziale perplessità di fronte a questo grande successo internazionale firmato da Luca Guadagnino. Estate 1983, nei dintorni di Crema: la famiglia di un professore universitario, benestante, ospita in ogni periodo estivo uno studente straniero per dargli mano nella tesi dopo il dottorato, e quell'anno giunge l'americano Oliver, aitante e disinvolto, che infiamma i desideri di molte ragazze in paese, ma sarà con il figlio del professore, diciassettenne, che la passione si scatena, dopo qualche attrito. Si narra di attrazione irrefrenabile e vampate di sentimento, l'erotismo, nel cinema del regista siciliano, abbonda e trasuda da inquadrature e sguardi, anche quando niente o quasi si mostra, in concreto, e comunque ci sono sequenze in cui il sesso si manifesta più libero ( sarà curioso di scoprire come lo infilerà nella "sua" versione di "Suspiria" che vedremo il prossimo anno), di una crescita e di un incontrare la propria vera identità. Guadagnino, su una sceneggiatura di James Ivory tratta dal romanzo omonimo di Andrè Aciman (il progetto iniziale contemplava un tandem con il regista inglese per dirigere questa pellicola), mostra di saperci fare con il cinema, e questo ormai è assodato: però, a parte il disperdersi della storia per due ore che potevano essere ridotte di trenta minuti almeno, perchè più volte si ha la sensazione che il film ci metta troppo a dire quel che vuole esprimere, quanto autocompiacimento, quanto elitarismo in questa famiglia "illuminata" che nel 1983 accetta con entusiasmo la situazione creatasi ( ma a inizio anni Ottanta? Senza un minimo stupore o dubbio? Mah, con tutta l'apertura mentale, non pare probabile...), che dialoga in quattro lingue, si crogiola in intellettualismi anche a tavola, in cui si parla del governo Craxi mettendo di mezzo Bunuel.... Aggiungiamo un paio di cadute tipo la sequenza della pesca ( è la versione melò di quella della torta di mele di "American pie"?) e certe bucoliche corse sull'erba, una che balla per strada sulle note provenienti da un'autoradio: la storia dell'attrazione, quando sta sul delicato e viaggia per accenni e promesse, funziona al meglio, ma quando le cose si fanno esplicite, comincia ad incepparsi. Un cast ben diretto, soprattutto al maschile ( anche perchè ad Amira Casar, che interpreta la madre del giovane protagonista, cos'hanno scritto in sceneggiatura, "bella signora che fuma"?), non basta a convincere del tutto a proposito di un film che, infine, è una storia d'amore vista con quel tanto di disincanto che serve a sottolineare il sostanziale cinismo del più adulto dei due coinvolti, e dei primi lividi del cuore del più giovane. 
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THE MIDNIGHT MAN ( The midnight man, USA 2017)
DI TRAVIS ZARIWNY
Con SUMMER H.HOWELL, Michael Sirow, Lyn Shaye, Robert Englund.
HORROR
Il prologo, nel 1953, vede due ragazzine ed un ragazzino, in una notte fredda, seduti in un cerchio, tracciato con il sale, fare uno strano gioco, che scopriamo letale, visto che due di loro fanno una bruttissima fine in pochi minuti; il prosieguo della pellicola è ambientato ai giorni nostri, e contempla la nipote della sopravvissuta che deve badare alla nonna, ormai in preda alla demenza senile. Ma la notte pare lunga, e la ragazza fa sopraggiungere l'amico del cuore: per passare il tempo, trovano la scatola che contiene le regole e gli strumenti (candele, sale, fogli) per fare il pericolosissimo gioco dell' "Uomo di Mezzanotte". Il film di Travis Zariwny non presenta niente che non si sia visto nel variegato mondo dell'orrore cinematografico, con tanto di invocazioni azzardate e inevitabilmente mortali, case abitate da cose indefinibili, giovani di una dissennatezza quasi incredibile nel cercare di sfidare l'ignoto e regole da seguire o da rifuggire. Quindi, sotto un certo punto di vista, "The Midnight Man" ha una certa dose di banalità, che non giova di certo alla riuscita di questo film, e che la creatura del Male non è il massimo, graficamente: però va anche detto che un pò di inquietudine la pellicola la trasmette, vuoi per un grado di crudeltà del mostro, piuttosto accentuato, nell'infierire contro le proprie vittime, vuoi per il disagio che più o meno consciamente insinua una persona anziana che, sia nel bene che nel male, agisce infantilmente, e che lo stile di regia di Zariwny non è dei più peregrini. Di fatto, gli appassionati dell'horror proveranno molto spesso la sensazione di dèja-vu che purtroppo spesso accompagna le visioni di film di questo genere, ma non tutto, in questo film, è da buttare, comprese le interpretazioni degli "specialisti" Lyn Shaye e Robert Englund.