COLD WAR ( Zimna wojna, PL/F/GB 2018)
DI PAWEL PAWLIKOWSKI
Con TOMASZ KOT, JOANNA KULIG, Borys Szic, Agata Kuleszka.
DRAMMATICO
Un amour fou lungo quindici anni, che nasce nel dopoguerra in Polonia, e prosegue a Parigi, tra due anime complementari e distanti, lui un pianista e ricercatore musicale, lei una cantante e ballerina, entrambi talentuosi e dissipatori di tale dote, che si incontrano, si sfuggono, si dannano e si amano con passione, puntualmente trovandosi, puntualmente perdendosi. "Cold war", candidato a tre premi Oscar nell'ultima edizione ( miglior film straniero, migliore regia e miglior fotografia) è stato uno dei titoli di maggiore spicco nella passata stagione, per il cinema europeo, acclamato un pò ovunque dalla critica. Una storia d'amore che narra anche i cambiamenti storici che stanno sullo sfondo, un sentimento insopprimibile ma anche potenzialmente pericoloso, le ingiustizie subite dal Potere e dal Tempo, le vite di due esseri umani nelle correnti di politica, avvenimenti storici e chiaroscuri personali. In una scarsa ora e venticinque di proiezione, Pawlikowski mette in scena un'opera racchiusa in un elegantissimo bianco e nero ( fotografia davvero notevole a cura di Lukasz Zal, nome da segnare e probabilmente già sui taccuini di molti produttori internazionali), che nel suo iter inevitabilmente tragico, però non esterna del tutto la passione che divora vivi i suoi protagonisti, facendone sentire più gli spigoli e la parte dolorosa, che quel trasporto per il quale vale la pena vivere anche gli amori più ostici e apparentemente complicati. Potenzialmente, poteva essere ancora più coinvolgente, ma sembra prevalere il disegno di regia sul carico emotivo della sceneggiatura.
GEPPO IL FOLLE (I, 1978)
DI ADRIANO CELENTANO
Con ADRIANO CELENTANO, Claudia Mori, Marco Columbro, Jennifer.
COMMEDIA/MUSICALE
Tra folle deliranti (con un Marco Columbro nelle esagitate vesti di un presentatore), uno staff che mette al centro di tutto "Lui", donne che svengono o impazziscono al solo suo apparire, l'aggettivo "Forte", che all'epoca era come e più di "cool", i fans che letteralmente lo spogliano per strada, il cantante di ultrasuccesso Geppo vuole andare a conquistare le classifiche americane, e duettare con il suo idolo Barbra Streisand: ma bisogna appunto imparare l'inglese, e affidarsi a un'insegnante fa comodo, specialmente se piuttosto bella. "Geppo il folle" è un automonumento o un tentativo di non prendersi sul serio da parte di un Adriano Celentano più che mai all'apice della propria lunghissima parabola d'artista e personaggio pubblico? Venuto dopo "Yuppi Du", e le tante critiche piovutegli addosso dopo tale film, e con incassi ancor maggiori di quel lungometraggio ( 11° nel '74/75 il titolo sul disgraziato Felice Della Pietà, 8° questo), questo è un oggetto ancora più autoreferenziale, quanto cinematograficamente scombinato, con momenti di assoluto nulla ( gli sciatori e quel goffo tentativo di estetizzazione?), celebrazione del modo di essere un cantante seguitissimo, che, ancor anni dopo, con ogni dichiarazione suscitava reazioni, e comunque lasciava il segno, e nonsense nell'umorismo a più non posso. Il problema maggiore è che, se nella prima parte, pur con tutte le pecche conosciute ai film con il Molleggiato al centro, qualche senso la pellicola lo trova, nella sua estenuante lunghezza ciò va a perdersi, e quando, a un certo punto, abbozza anche la predica, si crogiola in un'uggiosa seriosità. Così com'è, "Geppo il folle" è un'operazione che può lasciare sconcertati, spesso annoiati, con un grado di recitazione collettiva abbastanza agghiacciante, che però lascia percepire il fascino sempiterno di una star tra le più longeve del panorama italiano, volenti o nolenti. Splendida Claudia Mori, magnetico Adriano, nonostante tutto e nonostante se stesso.
MIO FRATELLO RINCORRE I DINOSAURI
( I, 2019)
DI STEFANO CIPANI
Con FRANCESCO GHEGHI, Lorenzo Sisto, Alessandro Gassman, Isabella Ragonese.
COMMEDIA/DRAMMATICO
Il romanzo "Mio fratello rincorre i dinosauri", firmato da Giacomo Mazzariol, che ha riportato la propria esperienza, crescendo accanto al fratello, affetto dalla sindrome di Down: ricostruendo come una famiglia accoglie e vive la presenza di un elemento "diverso", portando avanti le cose di tutti i giorni, nonostante attenzioni e "comprensioni" non richieste degli estranei. Guardando questo film diretto da Stefano Cipani, volutamente svolto con un'ottica adolescenziale, giacché gli adulti sono presenze importanti, certo, ma stanno ai margini delle cose importanti che accadono, viene subito in mente "Wonder", successo di due stagioni fa con al centro un'altra situazione con bambino da far vivere non solo nell'alveo rassicurante di casa, ma anche e soprattutto all'esterno, scontrandosi con l'ottusità del mondo, con chi esterna finta compassione o forzata solidarietà, e comunque c'è anche chi ha un approccio giusto. Intendiamoci, non siamo dinanzi ad un capolavoro, risulta difficile credere ad una comunità in cui, in pratica, solo un personaggio ha un atteggiamento odioso, e gli altri, chi più, chi meno, mostrano una fondamentale bontà d'animo, alcuni passaggi sono volenterosi ma lievemente forzati: però ben venga un cinema che cerca di creare un sottogenere che fonde commedia e dramma, un pò alla maniera di diverse piccole commedie americane, e il messaggio civile è apprezzabilissimo, considerando come certi politicanti di bassa lega puntino invece ad un incarognimento della società. Spicca la bravura del protagonista Francesco Gheghi nel dar vita ai vari aspetti, alcuni dei quali poco edificanti, del suo personaggio, così come l'esordiente Lorenzo Sisto nei panni dello "speciale" Giò porta vivace contributo, e fanno simpatia le prove dei genitori Alessandro Gassman e Isabella Ragonese. Una di quelle pellicole in cui la gente è più gentile, rassicurante e bella di come nella realtà risulti, ma non ne va fatta un'imputazione: è comunque delicato, e calzante, il tono che racconta con leggerezza ma non scioccamente certi temi sempiterni dell'adolescenza, dalle scoperte quotidiane alle tragedie che esplodono e si risolvono in una giornata, quell'età difficoltosamente splendida in cui si ha un potenziale infinito, che più non tornerà, e che si ha modo di analizzare e definire solo troppo tempo dopo. E questo non è poco.
GHOST TOWN ( Ghost Town, USA 2008)
DI DAVID KOEPP
Con RICKY GERVAIS, Tea Leoni, Greg Kinnear, Aasif Mandvi.
COMMEDIA/FANTASTICO
Bertram Pincus, il cui nome pittoresco si addice al carattere tendente all'eccentrico, è un dentista misantropo, inglese trapiantato a New York, con piccole ossessioni, che rifugge le persone ed è ipocondriaco: dopo un intervento di relativa poca importanza, scopre di essere tecnicamente morto per alcuni minuti, e dopo questa poco piacevole esperienza, si accorge di essere un punto di riferimento per fantasmi. Infatti, a lui si rivolge dapprima un uomo che in piena scappatella extraconiugale è rimasto sotto un camion, e dopo di questi, molti contattano il dentista, che imparerà a accettare maggiormente le persone, innamorandosi della vedova del primo "cliente". Scritto e diretto da David Koepp, per anni uno degli sceneggiatori di maggior successo del cinema americano ("Jurassic Park", "Carlito's way" e "Mission:impossible" tra i tanti titoli cui ha fornito servizio), "Ghost Town" è la sua quarta regia, e, probabilmente, la sua migliore realizzazione dietro la macchina da presa. Con toni a tratti alleniani, Koepp orchestra una commedia dallo sfondo fantastico, e con tonalità agrodolci, compreso un finale non del tutto positivo, non del tutto dichiarato, in cui, solo forse le cose potranno prendere un verso buono: ingannando il pubblico con Greg Kinnear che, nel prologo, pare essere il protagonista, lasciando di seguito spazio come tale al britannico Ricky Gervais che fa sfumare da scostante a intenerito il proprio personaggio con bravura, adattandosi pienamente allo script ( impagabile la scena in cui vuole rendersi presentabile per la donna di cui si sta invaghendo). Leggero ma con piccoli scampoli di sentimento, garbato nel valzer degli approcci, dolcemente stralunato nella presentazione delle storie degli spettri ( con spiegazione del motivo della loro condizione di stallo), riesce ad intrattenere giocando il proprio appeal sul sorriso, arrivando a suscitare per qualche momento un piccolo velo di commozione.
IL RE LEONE ( The lion king, USA 2019)
DI JON FAVREAU
GRAPHIC ANIMATION
AVVENTURA
Avviato a diventare, probabilmente, il campionissimo d'incassi della stagione cinematografica, nonostante questa sia agli albori, con oltre 32 milioni di euro incassati da fine Agosto qui in Italia, il film live-action tratto dall'altrettanto redditizio "Re leone" del 1994, è il secondo titolo dei riadattamenti disneyani che viene affidato a Jon Favreau. Ritroviamo re Mufasa, Simba, Nala, Pumbaa e Timon, il malvagio Scar, anche perchè, forse più che in altri casi, le libertà prese sono poche, rispetto all'originale: magari, se Scar nel cartoon era ispirato al Riccardo III shakespeariano, e nell'autoproclamazione cantata ( "Sarò re!") assumeva tonalità naziste, qua, puntando il dito sulla scriteriata gestione della savana, il villain e i suoi sgherri, le jene, vengono accusati di non pensare agli equilibri, cacciando troppo e mandando in malora l'ecosistema circostante, e vengono in mente sia Donald Trump che altri potenti che, infischiandosene dell'ambiente e favorendo chi lucra sullo sfruttamento folle dei territori, devastando il pianeta. La resa degli animali graficamente è prodigiosa, i dettagli sono impressionanti, e lo spettacolo è intrattenimento di qualità: se c'è da trovare qualcosa che non va, pare che il grado di ironia che garantivano Pumbaa e Timon, gli amici scansafatiche di Simba, sia minore rispetto al film animato del '94 ( e Marco Mengoni è molto fuori luogo come doppiatore, prestando in maniera monocorde la voce al felino protagonista). La migliore scena, per come è costruita la tensione è quella dell'erronea escursione nel territorio delle jene, mentre sul finale Favreau sembra quasi voler citare se stesso rimandando al climax del suo "Il libro della jungla".
MARTIN EDEN ( I/F, 2019)
DI PIETRO MARCELLO
Con LUCA MARINELLI, Jessica Cressy, Carlo Cecchi, Carmen Pommella.
DRAMMATICO
Un classico della letteratura, poco visitato dal cinema, "Martin Eden" ha ispirato anche uno sceneggiato di una certa importanza, realizzato in Italia alla fine degli anni Settanta: tra i grandi romanzi di Jack London, forse anche per la componente politica piuttosto accesa, nel suo fustigare l'inevitabile classismo di una società moderna, rivive oggi, ambientato in una Napoli fuori dal tempo. Perchè se in alcuni momenti la storia può sembrare collocata negli anni Settanta, in alcuni inserti è plausibile scorgerci i primi Ottanta, anche se nel finale si parla di una guerra appena scoppiata, e sulla spiaggia ci sono dei tizi vestiti da fascisti. La regia di Pietro Marcello inserisce canzoni come "Voglia 'e' turnà" di Teresa De Sio, filmati in super8, stralci di colore locale partenopeo, ma tiene salda l'attenzione sul racconto del giovane Martin Eden, marinaio che per casualità salva da un pestaggio un rampollo dell'alta società, viene introdotto in casa di questi, e nasce un innamoramento reciproco tra il protagonista e la graziosa sorella del ragazzo. Venuto su senza cultura alcuna, Eden si mette a recuperare per avere la possibilità di non perdere la ragazza, anche se, ovviamente, viene osteggiato dalla famiglia abbiente: racconto amaro sullo sgorgare degli ideali e su come, se infranti, diventino un veleno devastante, il film ha forse qualche eccesso registico, nell'appunto voler insistere nel corteggiare uno stile che tiene conto di sperimentalismi un pò forzati, ma l'analisi lucida, tagliente e senza riguardi, miscelata alla narrazione corposa, tipica dei classici veri, dei rapporti tra società e individui, tra anarchici veri e presunti, fanno di "Martin Eden" uno dei purtroppo non molti, dichiarati, casi di cinema politico italiano di questi anni. Premiato con una meritoria Coppa Volpi all'appena concluso festival veneziano, Luca Marinelli si conferma interprete intenso e maiuscolo, credibile sia nei toni sommessi che in quelli furibondi, attore da mezzi toni o istrione a pieno schermo, e fa piacere ritrovare un ottimo Carlo Cecchi nel ruolo del mentore di Eden, che involontariamente diviene un padre spirituale nel bene e nel male per il protagonista.
GRAN BOLLITO ( I, 1977)
DI MAURO BOLOGNINI
Con SHELLEY WINTERS, Max Von Sydow, Laura Antonelli, Alberto Lionello.
GROTTESCO
Anche se la protagonista si chiama Lea, è chiaro che il film di Mauro Bolognini, uscito nel 1977, è ispirato all'orrida vicenda della "Saponificatrice di Correggio" Leonarda Cianciulli, caso di cronaca nera che occupò le pagine del dopoguerra. Come la sua reale ispiratrice, la protagonista della pellicola giunge in una cittadina del Nord dalla Campania: la donna appare come morbosamente legata al figlio ( unico sopravvissuto delle tante gravidanze sostenute), pratica fino alla scontrosità, superstiziosa oltremodo. Tendenzialmente rancorosa, e con un sordo furore verso il mondo intero, Lea scanna tre nuove amiche, le seziona e ne fa sapone e biscotti da offrire a chi la conosce: quando intuisce che il figlio vorrebbe lasciare casa per mettersi con la donna che ama, le crolla il mondo addosso, e si prepara ad eliminare anche colei che ora considera sua principale nemica.... A Mauro Bolognini è stato riconosciuto, con questo lavoro, di aver girato uno dei più evidenti casi di "bizarro movie" in Italia: in effetti, scegliere un tema come quello di una delle più famose assassine seriali italiche e farne un film a sfondo drammatico era prevedibile, ma il regista di "Metello" sceglie invece di impostare la narrazione su una chiave grottesca, volutamente filoteatrale ( infatti, la cucina dove Lea compie le sue efferatezze appare come un vero e proprio palcoscenico), a mò di omaggio al "Grand Guignol". Però, per aver deciso di porre un'ottica in tal senso è curioso che il regista non abbia immesso alcuna forma di umorismo vero e proprio, al di fuori dello scherzo allo spettatore di aver dato da interpretare le vittime della follia omicida del personaggio principale a uomini vestiti da donna ( Max Von Sydow, Alberto Lionello, Renato Pozzetto); in più, come rilevò salacemente Tullio Kezich recensendo il film, una forte traccia di misoginia è avvertibile, nell'aver dipinto un panorama femminile di disturbate mentali, o di deboli nel fisico e nella mente. Shelley Winters impersona con sinistra padronanza un mostro che dà spiegazione motivata delle sue macabre gesta, gli altri personaggi hanno perlopiù una bidimensionalità che non aiuta un cast eppure costruito con cura ( valga per tutti Adriana Asti sprecata nel ruolo di poco conto di una frequentatrice un pò sciroccata della casa della madre-killer).
RED SEA DIVING ( Red Sea Diving resort, USA 2019)
DI GIDEON RAFF
Con CHRIS EVANS, Haley Bennett, Michael K. Williams, Alessandro Nivola.
DRAMMATICO
A cavallo tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, dall'Etiopia, per molti abitanti di fede ebraica, era rischioso rimanere nel Paese, e diventava necessario provare a fuggire in Israele, coadiuvati da gente ruotante attorno al Mossad, il servizio segreto della nazione con la Stella di David. Per portare via più persone possibili, a un agente di valore ma dai metodi particolari viene in mente di sfruttare un resort abbandonato, fingendo di svolgere attività di intrattenimento e relax, in realtà ospitando dei transfughi, salvandoli dalle bande armate dei mercanti d'armi. Realizzato palesemente tutto in chiave pro-israeliana, "Red Sea Diving" ha una discreta ambientazione, è girato discretamente, e molto ambizioso nell'intento: al regista Gideon Raff, però, non riesce bene di montare il pathos che in un contesto del genere è motore assoluto, e raramente si entra in empatia con la drammatica vicenda narrata. Via via che il film scorre, appare sempre di più una sorta di remake, non ammesso, di "Argo", ma la regia di Affleck conferiva ben altra tensione a quel che raccontava: in questo lungometraggio, ceduto a Netflix per lo sfruttamento, ci si può interessare a fatti poco noti, ma non incide a livello di coscienza come, probabilmente, sarebbe stato desiderato da chi ha scritto e diretto.