DELITTI E PROFUMI ( I, 1988)
DI VITTORIO DE SISTI
Con JERRY CALA', Umberto Smaila, Nina Soldano, Simonetta Gianfelici.
GIALLO/COMMEDIA
Eddy( Jerry Calà), addetto alla sicurezza di un grande magazzino, corteggia con ogni mezzo la bella commessa Barbara (Lucrezia Lante Della Rovere), ma, non appena conquistata, la ragazza va a fuoco per una sorta di "autocombustione": deciso a scoprire come sia andata, il protagonista si improvvisa detective, nonostante l'ostilità del vicecommissario Turroni (Umberto Smaila), e altre vittime del bizzarro fenomeno. Il tentativo di aggiungere un altro capitolo al sottogenere del "giallo rosa" all'italiana abortisce quasi subito: la trama "thriller" è appena un canovaccio, nonostante nel film ci siano appunto delitti indotti (la chiave è un profumo che, con l'effetto delle luci artificiali, appunto diventa incendiario), ci ritroviamo di fronte ad una commediola insipida, tirata via nell'allestimento, diretta malamente dal Vittorio De Sisti di "Rock and Roll", che vide protagonista il Rodolfo Banchelli del sanremese "Madame", recitata a livello di dopolavoro ferroviario da tutti, ed il peggiore in campo è Smaila che risulta solamente odioso. Se si voleva fare il verso a certi thriller/commedia all'americana, qualche volta anche efficaci, come "Sorveglianza...speciale", il risultato è del tutto all'opposto: ci si annoia, le gags di Calà sono ormai risapute, le belle in scena recitano male, i dialoghi non si possono sentire (responsabilità anche di Franco Ferrini, uno dei più incomprensibilmente attivi sceneggiatori degli anni Ottanta/Novanta). Scult totale.
MOLLO TUTTO (I, 1995)
DI JOSE' MARIA SANCHEZ
Con RENATO POZZETTO, Barbara D'Urso, Tamara Donà, Michele Gammino.
COMMEDIA
L'alimentarista Franco non ne può più di non essere considerato dalla moglie che non lo guarda nemmeno, dalla figlia che puntualmente fa tutto il contrario di quel che babbo vorrebbe, dell'amante che lo sfrutta, di venire taglieggiato da malviventi che vogliono il pizzo: e così, mette trecento milioni di lire in una banca marocchina, e fugge nella nazione africana dopo aver imparato un pò della lingua. Ma viene truffato, e così si ritrova senza mezzi di sostentamento, in un altro Paese, e deve imparare a cavarsela in ogni modo. Per la seconda volta le strade cinematografiche dello spagnolo Josè Maria Sanchez e di Renato Pozzetto si incrociano, dopo "Burro" del 1989: se lo spunto, a metà anni Novanta, poteva anche essere interessante, la trasandatezza della messa in scena gioca pesantemente a sfavore dell'operazione. Al di là della cattiva imitazione di uno stile paratelevisivo che certo cinema italiano tendeva a esibire, è il puntuale spreco di ogni soluzione narrativa, con una storia del genere, che fiacca l'interesse dello spettatore: anche il rapporto con il ragazzino marocchino, che accompagna il protagonista nel viaggio indietro, è banale, superficiale, anche se lo sforzo di voler fare un passetto in avanti antirazzista c'è. Pozzetto, ormai non più una garanzia al botteghino, parte bene nelle scene iniziali, ma ci mette poca verve: e se una commedia gira quasi esclusivamente sulle "giocate" di un attore, questo la azzoppa definitivamente. Di poco conto, infatti transitò velocemente nelle sale, all'epoca.
AVENGERS-INFINITY WAR ( Avengers: Infinity War, USA 2018)
DI ANTHONY E JOE RUSSO
Con ROBERT DOWNEY Jr., CHRIS HEMSWORTH, BENEDICT CUMBERBATCH, JOSH BROLIN.
FANTASTICO/AZIONE/AVVENTURA
L'avvio che contempla due degli Avengers più potenti in assoluto non riuscire a spuntarla con il finalmente entrato in scena Thanos, titano malvagio dalle aspirazioni spropositate, non lascia presagire granchè di buono per "gli Eroi più potenti della Terra": e si prosegue con molti scontri, con i buoni tornati a coalizzarsi, nonostante disfide fratricide, dissensi, ed allontanamenti, contro un nemico dalla forza colossale e forse inscalfibile. Annunciatissimo per i fans sia dei fumetti che della loro versione filmica, "Infinity War" celebra il decimo anniversario della Marvel cinema, avviatasi con l'ormai miliare "Iron Man", e lo fa con i crismi ed i canoni della produzione magna: tutti i più famosi personaggi, cui il pubblico si è negli anni affezionato ( manca Hawkeye, ma viene motivato il perchè) si ritrovano insieme per tentare di sconfiggere un Male che viene da lontanissimo, e comunque era già, per interposta persona, presente anche nel primo film sui "Vendicatori" (era lui il mandante dell'invasione aliena). La sceneggiatura approntata da Christopher Markus e Stephen McFeely bilancia azione scatenata, umorismo distillato e piazzato con equilibrismo ( e chi si lamenta delle "troppe battutine", forse non conosce lo "style Marvel"), e costruzione dei rapporti tra i personaggi in una dimensione robusta anche nel minutaggio ( si sfiorano le due ore e mezza, ma non pesano. La regia dei fratelli Russo, ormai fiduciari plenipotenziari della Marvel, dopo i risultati dei loro due episodi di "Captain America", accompagna lo spettatore in una via impervia, dato l'aspetto fortemente dark di questo racconto, che si sposa al contesto epico, rivelando, nella spettacolarità che vede partecipi anche personaggi che vengono da altre saghe, quali Dr. Strange e i Guardiani della Galassia ( lo spirito anarchico di questi in risposta agli ordini del "leader" Starlord è impagabile...), una questione di fondo. E cioè: fatto salvo che Thanos è, come tutti i dittatori, anche quelli interstellari come lui si autoinveste, con una propria visione, per quanto allucinata, e delle prospettive da imporre per un presupposto "bene superiore", il dilemma la cui risposta qualifica i personaggi è tra Amore e Potere. E può essere, il primo, di qualsiasi natura: per i consanguinei, per chi si sceglie come compagno di vita, per l'Umanità e per la Terra stessa; quindi, in tanta tenebra, la scelta, in nome di un Futuro che sia tale, differenzia i buoni dai cattivi, e lancia le basi, nonostante un finale non proprio ottimista, per una nuova via di Speranza, per quanto poco probabile. Due almeno le scene in cui un fan dei fumetti, e di questi eroi sugli schermi, è difficile che non provi un brivido di esaltazione: l'ingresso in scena di Steve Rogers ed il ritorno in battaglia di Thor. E una domanda: come mai Tony Stark, genio dell'hi-tech, sfoggia un telefono cellulare così antiquato?
PACIFIC RIM 2- LA RIVOLTA
( Pacific Rim: Uprising, USA 2018)
DI STEVEN S. DEKNIGHT
Con JOHN BOYEGA, Cailee Spaeny, Scott Eastwood, Charlie Day.
FANTASCIENZA/AZIONE
Sebbene la minaccia dei mostri denominati Kaiju sembrava fosse annientata, alla fine di "Pacific Rim", i robot colossali tornano in azione: comincia l'offensiva un "collega" proveniendo dai fondali d'oceano (ma si capirà in seguito perchè attacca terrestri ed altri automi enormi), e lo scontro sarà ancora più gigantesco. "Pacific Rim" era apparso un discreto film di fantascienza, un divertissement del neo-oscarizzato Guillermo Del Toro, che si era risolto in una versione "intelligente" delle guerre con megarobot alla "Transformers", mettendo in scena uno scontro con mostruosità antiche, condotto dall'ultima speranza del genere umano, appunto i "Jaegers", macchine che vanno pilotate in due per simulare le mosse per contrastare il nemico. Certo, il passaggio di mano in regia è percepibile eccome: al nuovo arrivato Steven S. DeKnight interessa partire da subito a tutto gas, con battaglie spettacolari ed il pedale dell'azione schiacciato il più del tempo. Però, se lo spettacolo, per quanto tendente al rutilante, in effetti c'è, la sceneggiatura è un "copia/incolla" di situazioni viste tante altre volte, una distruzione sistematica degli scenari che fanno da teatro alle tenzoni, con personaggi schematici ( dal figlio di un eroe riluttante ad accettare il proprio ruolo, dalla prima della classe che non tollera intrusioni, al duro dapprima ostile, che poi diventa un prezioso alleato...) come se piovessero, ed una certa ripetitività nel racconto, che si poteva anche evitare con qualche idea nuova in più. Ovviamente, nel finale, c'è un accenno ad una terza parte in cui i terrestri, questa volta, daranno la caccia alle creature aliene: ma anche questo è un cliché non da poco.
ALBA DI GLORIA (Young mr. Lincoln, USA 1939)
DI JOHN FORD
Con HENRY FONDA, Alice Brady, Arleen Whelan, Eddie Collins.
BIOGRAFICO/DRAMMATICO
Abraham Lincoln, primo presidente repubblicano della Storia degli Stati Uniti d'America, è probabilmente il più raccontato dal cinema, tra i governanti degli States: gli fece tributo anche John Ford con quest'opera in cui veniva narrata una parte della gioventù del futuro n.1 americano. Giovane avvocato con un senso per il Giusto innato, abile a lavorarsi con la dialettica e la Ragione chi si ritrovava davanti, Lincoln viene qui mostrato intento nel difendere due giovani poveri in canna, accusati dell'omicidio di un uomo: evidenziatane la maturità precoce, e la capacità di interloquire con cognizione di causa, Ford e la sua sceneggiatura allestiscono un apologo che riluce di stima per il grande politico, ma che evita l'agiografia e la compiacenza assoluta. Tra i lavori fordiani non è probabilmente uno dei più citati, ma si nota la mano sicura del director, soprattutto in quel finale che riesce a inquadrare l'Uomo-Lincoln che si incammina verso un avvenire importante, sotto la pioggia, con un'inquadratura tipica della regia di Ford, che ne marchia la solennità senza pomposità. Henry Fonda, truccato alla bisogna per adottare il profilo aquilino del presidente che spinse per far finire lo schiavismo, lavorando di fino in parlamento per far collaborare rivali di fazione, dà una buona interpretazione, sentita ma mai enfatica, che in scioltezza fa appropriare l'attore del ruolo non facile assegnatogli. Piccoli difetti, una musica fin troppo invasiva, la quale, specialmente nelle scene malinconiche, si fa mielosa e stucchevole, ed il doppiaggio non felicissimo di molti personaggi, tra cui il protagonista: ma sono pecche minime.
THE DISASTER ARTIST ( The disaster artist, USA 2017)
DI JAMES FRANCO
Con JAMES FRANCO, DAVE FRANCO, Seth Rogen, Alison Brie.
COMMEDIA
"Solo in America" è uno slogan, ma esprime bene un concetto: una storia come quella raccontata in "The disaster artist" sarebbe difficile da far passare come verosimile in Europa. Di scena c'è una coppia di aspiranti artisti, Tommy Wiseau e Greg Sestero, che si mettono in testa di realizzare un film, confidando in una sceneggiatura firmata dal primo, con cinque milioni di dollari di budget: accadeva a fine anni Novanta a Hollywood, e, come il lungometraggio mostra, Wiseau sfoderava un accento dell'Est europeo, si mostrava preso dal sacro fuoco della creatività e tormentava chiunque sul set con bizze, capricci e giocando a far saltare i nervi di troupe e cast. "The Room", il film che ne venne fuori, è stato classificato come uno dei più brutti mai girati, tanto da meritarsi di diventare un vero e proprio oggetto di culto per gli americani, e da noi mai arrivato. In questo contesto, fioccano le partecipazioni, a volte brevissime, vedi quella di Sharon Stone, di volti celebri del cinema, ed i fratelli Franco coprotagonisti a dar volto agli amici Wiseau & Sestero, con qualche reazione del primo che dice, e non dice, su un'altra natura del loro rapporto: la proiezione della prima che chiude la pellicola rimanda nettamente alla conclusione, analoga, di "Per favore, non toccate le vecchiette", con un inaspettato risultato circa l'audience. Franco regista ricostruisce bene sia l'ambiente cinematografico lontano dai colossi degli Studios, e, come mostra sui titoli di coda, ripete alla perfezione le scene originali del "film disastroso". Però da attore, pur alle prese con un personaggio istrionico, va un pò troppo sopra le righe per non stancare, nonostante il Golden Globe assegnatogli: meglio il più misurato Dave, se proprio si deve fare un confronto. Come per molti altri titoli sul "fare il cinema", difficile che gli arrida un successo di pubblico maggiore di quello riscontrato presso la critica: anche perchè, per essere una commedia, non diverte mai a fondo. Meglio, semmai, come lavoro sulla cinematografia come mondo di lavoro, e sull'artigianalità dei meccanismi della produzione e sull'ambiente in cui si creano le immagini da inviare agli schermi.
MAZINGA Z INFINITY ( INFINITY Gekijoban Majingà Zetto, JAP 2017)
DI JUNJI SHIMIZU
ANIMAZIONE
FANTASCIENZA
I veri cultori degli anime che nella seconda metà degli anni Settanta invasero le televisioni pubbliche e private, sezione bambini e ragazzi, da Goldrake a Jeeg Robot, da Daitarn 3 a Daltanious, sanno che il mercato italiano, all'epoca fece molta confusione, forse anche perchè le proporzioni del successo dei robot giganti in lotta contro mostri alieni andò al di là di ogni aspettativa. Infatti, a livello cronologico, abbiamo visto serie che confondevano le idee, in quanto, cronologicamente, ad esempio, la storia del Grande Mazinger veniva dopo quella di Mazinga Z, modello meno colossale dell'automa che emergeva dal Fujiyama. A quarant'anni dal boom televisivo, giunge da noi questa versione extralarge, con design dell'eroico robottone riconsiderato ( l'idea che sia fatto di pezzi assemblati, come una vera macchina, è più calzante della versione "tutta d'un pezzo" o quasi), in cui Koji Kabuto, ex pilota di Mazinga, è divenuto un ricercatore per l'energia fotonica, che in questo contesto alimenta il pianeta in maniera finalmente pulita. Ma il quadro utopistico in cui il racconto è ambientato, viene mutato in peggio dal ritorno in forze dei mostri meccanici già sconfitti in passato dai due Mazinga, e quando quello grande, già ripristinato per combattere tale minaccia, viene neutralizzato, tocca al "piccolo" Mazinga Z riprendere la battaglia per salvare la Terra... Realizzato con evidente piglio nostalgico, e con uno smalto visivo comunque di primo livello, "Mazinga Z Infinity" farà contenti i vecchi fans delle avventure fantascientifiche della Toei Animation, però è incerta la presa sul pubblico oggi adolescenziale o ancora più giovane. Se le sequenze d'azione e di battaglia sono ben fatte, la storia mette in mezzo troppe parole prima di scatenare gli scontri tra giganti, ed infatti, Mazinga entra in scena, in pratica, dopo quasi un'ora di proiezione: l'umorismo è impalpabile, o grossolano, e quando la sceneggiatura la butta sul filosofico, alludendo che "Infinity" rappresenti la tecnologia, dato che può essere una salvezza per l'umanità, o la peggiore delle scelte, se male usata, sono arrivati in tanti prima a dircelo, vedi "Terminator", o "Il mondo dei robot".
madre! ( mother!, USA 2017)
DI DARREN ARONOFSKY
Con JENNIFER LAWRENCE, JAVIER BARDEM, Ed Harris, Michelle Pfeiffer.
GROTTESCO/HORROR
La bella casa in cui vive isolata la coppia formata dalla restauratrice Jennifer Lawrence e dal poeta Javier Bardem viene raggiunta da visitatori, apparentemente capitati lì per caso: un'altra coppia, più in avanti con gli anni, interpretata da Michelle Pfeiffer e Ed Harris, che sembrano fraternizzare con l'uomo, mentre la giovane moglie si fa sempre più attonita per l'eccesso di confidenza, le maniere villane e la tendenza a ficcare il naso più del necessario di quelli che ad ogni passo appaiono come dei veri e propri intrusi. Infatti, di lì a poco, anche i figli dei due si fanno vivi, in preda ad una lite violenta perenne, ed il disturbo continua a crescere: assumerà proporzioni incredibili, e nefaste. Annunciato come un film personalissimo del regista Darren Aronofsky, che ha messo insieme un cast di tutto rispetto ( ci sono anche i fratelli Gleeson a dar volto e agitazione ai figli degli inopportuni), "madre!", con il titolo rigorosamente in minuscolo, è stato bocciato sonoramente sia dalla critica, che ha espresso stroncature nette, che dal pubblico, che gli ha riservato un'indifferenza piuttosto consistente. E, in effetti, questo lungometraggio non convince mai. Viaggia di allegorie pesanti fin dall'inizio, e la palese metafora della protagonista / Madre Terra che viene offesa, invasa, percossa, abusata e subirà di ogni nefandezza, con il marito che rappresenta l'Uomo, che non è capace di difenderla, con molta superficialità vive con lei ma quando monterà il disastro ne sarà pienamente responsabile, per inerzia e indolenza, è sparata tutta in maiuscolo, ma non colpisce mai a fondo chi guarda il film. Un degenerare della trama, soprattutto nella seconda parte, in cui il caos si impossessa della scena ( ma anche della sceneggiatura), una lunghezza sfiancante, che supera di un soffio le due ore, ma che fa apparire poco sostenibile la visione, provoca irritazione e noia, nel gettare al vento un messaggio che poteva, per quanto risaputo, anche avere rispettabilità. Però quante volte si guarda l'orologio prima di arrivare alla catarsi finale, e quanta simbologia greve in quest'operazione, che gioca anche un'altra carta scontata: sottolineare che il genere umano non impara mai dai propri errori. Sai che novità...
SMETTO QUANDO VOGLIO ( Ad honorem)
DI SIDNEY SIBILIA
Con EDOARDO LEO, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè, Stefano Fresi.
COMMEDIA/AZIONE
Atto finale dell'annunciata trilogia sui ricercatori di talento e ottima formazione che, visto il mancato successo delle proprie aspirazioni "normali", per via dell'annosa mancanza di sostegno italiana ai giovani che dovrebbero costruire il nostro Domani, si danno allo spaccio di una sostanza a un passo dal definirsi droga, "Smetto quando voglio (Ad honorem)" ha deluso i produttori. I quali, visto il bell'esito del primo capitolo, che nel 2014 si rivelò uno dei non molti successi nostrani al botteghino, ed ebbe discreti elogi anche dai critici, tentarono un'operazione inedita da noi: progettare, a ruota, il secondo e terzo episodio, da realizzare a giro abbastanza stretto. Inoltre, la commedia d'azione, sottogenere storico in USA, ma anche in Francia, da noi rappresenta qualcosa di mai azzardato: e così, l'avventura di Edoardo Leo, Libero Di Rienzo, Stefano Fresi & c. era stata salutata con molta simpatia, anche se, va detto, già il secondo segmento aveva ottenuto incassi minori. Se tuttavia questo ultimo film della serie presenta una buona impostazione, sottolinea che Sibilia è un regista cui il talento non manca, e che c'è un lavoro di scrittura di valido livello, ciò che viene a mancare sono l'ironia e il divertimento vero e proprio. Perchè qua, infine, siamo alle prese con un thriller soft, con qualche sprazzo d'umorismo, ma sono veramente rare le occasioni per ridere o sorridere, nonostante l'impegno degli interpreti: troppi personaggi cui non viene dato adeguato spazio, come quelli di Aprea e Sermonti, Morelli che sembra presente più per far numero che altro, ed un cattivo vero e proprio come Luigi Lo Cascio, che comunque presenta un passato che spiega la sua protervia nel voler causare un disastro. Probabilmente dividere la vicenda in due atti avrebbe pagato di più: da apprezzare il tentativo di aver voluto fare qualcosa di diverso nel panorama italiano, ma il risultato non è del tutto all'altezza.
NELLA TANA DEI LUPI ( Den of thieves, USA 2018)
DI CHRISTIAN GUDEGAST
Con GERARD BUTLER, Pablo Schreiber, O' Shea Jackson, jr., 50 Cent.
THRILLER/AZIONE/NOIR
Si parte con un'azione criminale, con rapinatori mascherati che per rubare un furgone (vuoto), fanno una carneficina, lasciando, appena prima dell'alba, stesi a terra un pugno di poliziotti, si finisce con uno scontro senza quartiere in mezzo al traffico, ed in mezzo una sfida tra un piedipiatti ruvido, abile ma bravo a incasinarsi la vita, che conduce una vita non certo modello ed un malvivente pianificatore, carismatico e disciplinato: l'avete visto già in "Heat-La sfida", giusto, ed infatti, "Nella tana dei lupi" si risolve, in pratica, in un remake non dichiarato del classico anni Novanta di Michael Mann, con una spruzzata decisa de "I soliti sospetti". Certo, non ci sono Al Pacino e Robert De Niro a contrapporsi, ma lo scozzese Gerard Butler ed il canadese Pablo Schreiber, a darsi battaglia ( ma anche, segretamente, a riconoscersi rivali diretti, ed in qualche modo, a rispettarsi): però "Den of thieves" è un noir d'azione da vedere. Congegnato con paziente meticolosità nell'allestimento del piano dei rapinatori, e nella collocazione dei colpi di scena, non avrà magari la ricchezza della definizione dei personaggi secondari del titolo cui fa riferimento, ma elabora tensione in maniera riuscita, e arriva, come ogni buon film che riguardi truffe o rapine che sia da ricordare, a sorprendere lo spettatore con un ribaltamento del punto di vista dell'intera situazione, azzeccato e furbo. Per la prima volta da anni, Gerard Butler risulta convincente, in un ruolo da sbirro figlio di puttana, duro e fuori dagli schemi, mostrandosi appesantito fisicamente: interessante lo sfidante Pablo Schreiber, rapinatore freddo e severo ( si noti la compostezza che ha il personaggio quando mangia): considerando che il quarantottenne Christian Gudegast, che esordisce con questo lavoro alla regia, aveva sulla coscienza l'improponibile "Attacco al potere 2", il suo debutto da director autorizza a provare interesse e curiosità per l'opera seconda che verrà.
COME UNA ROSA AL NASO ( I, 1976)
DI FRANCO ROSSI
Con VITTORIO GASSMAN, ORNELLA MUTI, Madeleine Hinde, Adolfo Celi.
COMMEDIA
Il ristoratore Anthony M. Wilson è un siciliano trapiantato a Londra, che ha sviluppato ottimi affari, conduce vita agiata, e nasconde il vero cognome, Mantuso, per mostrarsi più inquadrato nella società inglese: dalla terra avita riceve una telefonata, da un parente, che gli ha inviato una nipote, che il protagonista dovrà tenere "come una rosa al naso", e cioè con la massima delicatezza, affinchè non le succeda niente di sconveniente. Solo che è bellissima, sfrontata, e provoca il parente con ogni mezzo: quando, tramite un politico siculo incontrato per caso, Mantuso/Wilson viene a sapere chi sia veramente suo cugino, e abbia un vero e proprio clan mafioso, suderà le proverbiali sette camicie per cercare di non invischiarsi in una situazione anche pericolosa... Ci si sono messi in sei per sceneggiare questa commedia che faceva il verso alle trasferte sordiane in lungo e in largo per il mondo ( nello stesso anno il regista Franco Rossi girò in Australia "L'altra metà del cielo", con Celentano e la Vitti), ma il film è una commedia scialba, che più va avanti e più fa emergere la propria insulsaggine, con una vaga voglia di prurigine, appena accennata nelle scene tra Gassman e la Muti. Gli unici mezzi sorrisi suscitati sono quelli che riscuote un Adolfo Celi piuttosto sopra le righe, ma ben più efficace di uno svogliato Vittorio Gassman, che, nonostante arrivi anche a sdoppiarsi , rivestendo anche la parte del cugino mafioso, non mette alcuna verve nel disegnare il proprio personaggio: alla splendida Ornella hanno messo un marcato accento siciliano che si avverte forzato ogni volta che apre bocca, e in fondo alla proiezione la noia si è fatta ampiamente strada.
ORE 15:17 ATTACCO AL TRENO ( The 15:17 to Paris, USA 2018)
DI CLINT EASTWOOD
Con ANTHONY SADLER, ALEX SKARLATOS, SPENCER STONE, Jenna Fischer.
DRAMMATICO/BIOGRAFICO
C'è una foto degli anni Ottanta, in cui sono ritratti mentre parlano, magari di cinema, Steven Spielberg e Clint Eastwood: all'epoca veniva da pensare quanto fossero distanti i due, uomini e artisti con un approccio diversissimo ai film, e alle storie portate sullo schermo. Oggi, in realtà, entrambi, pur con idee molto diverse, hanno realizzato, negli ultimi anni, dei film importanti che raccontano momenti storici, recenti o meno, illustrando, con dovizia di dettagli e scavando i personaggi inquadrati a fondo, andando in contrasto con l'era di Wikipedia, in cui appunto un colpo d'occhio allungato dà la superficiale illusione di conoscere un dato argomento, scandendo il racconto con il tempo percepito come necessario. Il 21 Agosto 2015, sul treno Amsterdam-Parigi, tre giovani americani in giro per l'Europa in vacanza, si ritrovarono coinvolti nell'atto di violenza perpetrato da un invasato che si scoprì affiliato all'Isis, e riuscirono a limitare le proporzioni dello scellerato assalto, riducendo il folle all'impotenza. "Ore 15:17 attacco al treno" è stato accolto con diverse perplessità da molti spettatori, e anche numerosi recensori sono stati piuttosto freddi, con l'ultima fatica eastwoodiana. E' vero, probabilmente se non portasse la firma del regista due volte premio Oscar, che ha, negli ultimi trent'anni, girato più volte film reputati di primissimo ordine ( almeno tre sono considerati tra i più belli giunti dagli USA in tale periodo), questo lungometraggio, che narra un'amicizia tra tre giovani uomini fin dagli albori, a scuola, fino al momento-chiave delle loro vite, poteva anche essere apprezzato maggiormente. E' anche un nuovo capitolo di un'America raccontata da un lucido anarcoide con base conservatrice, che sottolinea il fatto che anche persone di assoluta medietà possano diventare eroi, se spinti dallo spirito di comunità necessario a fare quel gesto in più, rischioso, che fa la differenza. Visto in quest'ottica, pur essendo stilisticamente distante dal suo modo di far cinema, e apparendo forse come un titolo minore, è un lavoro interessante: ed il fatto di aver scelto di dirigere i veri "eroi normali" invece di farli impersonare da professionisti, è un'idea non bislacca, bensì la testimonianza di un'ostinata resistenza all'invecchiamento di un ottantasettenne che,speriamo, ancora non ha voglia di mollare la presa.
READY PLAYER ONE ( Ready Player One, USA 2018)
DI STEVEN SPIELBERG
Con TYE SHERIDAN, Olivia Cooke, Ben Mendelsohn, Mark Rylance.
FANTASCIENZA
A testimoniare la duttilità del tempo, l'accezione di "Nerd" dagli anni Ottanta ad oggi è mutata diametralmente: basti citare una commediola dell'84, "La rivincita dei Nerds", per dare l'idea che i più sfigati, appassionati di "cose strane" come film fantastici di serie B e C, fruitori di musica e cinema "avanti" ma non compresi all'epoca, visti come strampalati o un pò sciroccati, oggi sono di gran moda, vedasi uno come J. J. Abrams, che ha tutte le caratteristiche del "Nerd", ma che ha mani in pasta in tutta la fantascienza che conta. Tornando a "Ready Player One", tratto da un libro di Ernest Cline, fino a un paio d'anni fa conosciuto più che altro da fans del videoludico sparato forte, rappresenta un ritorno di Steven Spielberg al cinema fantastico, tributario di quell'immaginario a intensa componente "anni 80": siamo in un futuro in cui il popolo comune vive in agglomerati urbani messi insieme quasi a livello di bidonville, e l'unica possibilità per i giovani di trovare una via d'uscita è, collegandosi alla realtà virtuale "Oasis", una vera e propria dimensione a sé stante, riuscire a cogliere le tre chiavi nascoste dal creatore di quel mondo, per ereditarne la ricchezza. Il protagonista Wade, come molti ragazzi di oggi, gioca connettendosi ad altri, e tutti hanno un "avatar" che li rappresenta, combatte al posto loro, mentre la multinazionale che punta a far proprio tutto, con mezzi potentissimi, cerca di sbaragliare gli avversari. Se si volesse, il discorso sul controllo, da parte di forze economiche colossali assemblate, che decidono del futuro di ognuno, assegnandolo fin dai nastri di partenza, in un mondo globalizzato, è la metafora che salta per prima all'occhio di uno spettatore adulto: se invece lo si guarda dal punto di vista di un giovanissimo, c'è il messaggio, un pò scontato ma rispettabile, che bisogna staccarsi da un mondo che non è solido ed è comunque una proiezione di tutto ciò che si vorrebbe, e riferirsi maggiormente a quel che si ha attorno. "Ready Player One", è anche altro, un divertissement per cinefili, e non solo, che ha una miriade di citazioni, esplicite, e non, di un universo pop che ha influito comunque sull'immaginario di tutte le generazioni nate dopo il 1950: impossibile annotarle tutte ad una prima visione, però è da citare almeno la rivisitazione di "Shining" vissuto come fosse quel videogame a disegni animati, "Dragon's Lair" ( penso che quelli della generazione mia sappiano di cosa sto parlando.....era basato sulle mosse giuste da fare, o era prevista l'eliminazione del cavaliere in modi fantasiosi), in cui non aver visto il film porta alla direzione sbagliata da prendere, e nella stessa scena, oltre al grande lungometraggio horror di Kubrick si cita bellamente "Psyco" (la cura nell'inquadrare la donna nuda senza mostrare nulla di "proibito"). Poi verso il finale si va più sul risaputo, con un grande scontro nello stile de "Il signore degli anelli" fantasioso, ma che ha un pò di dejà vu: però almeno la sequenza sopra citata, e la corsa iniziale, resteranno come due momenti da antologia del cinema spielberghiano.
IO C'E' ( I, 2018)
DI ALESSANDRO ARONADIO
Con EDOARDO LEO, Margherita Buy, Giuseppe Battiston, Giulia Michelini.
COMMEDIA
In Italia c'è libertà di culto, giusto? E perchè non fondare una nuova religione, basata sull'elevazione dell'Ego a divinità cui fare riferimento, rivolgere domande e cercare risposte? L'idea viene a Massimo, quarantenne proprietario di un b&b che non se la passa benissimo, dopo aver dilapidato buona parte delle fortune ereditate dal padre, stanco di osservare l'ostello gestito dalle suore di fronte al suo, quando realizza che reimpostando la propria attività e chiamando a sè potenziali neo-fedeli, può intanto azzerare le tasse, e poi lucrarci sopra: supportato da uno scrittore fallito che gli scrive i discorsi e gli elabora i punti su cui fondare la nuova iniziativa, creerà qualcosa che poi si scoprirà non capace di gestire.... Edoardo Leo è un bravo interprete, dotato di un umorismo anche ricercato, spesso efficace, che ricorda nella figura, e nel modo di recitare, Nino Manfredi, spesso: "Io c'è" è una commedia che ha uno spunto non banale, dice più di una cosa pungente sulla religione e su come vi si rapportano gli italiani, nonchè su chi la professa. E fin qui sono le note positive: però, il film di Alessandro Aronadio, alla terza regia, sebbene susciti più volte il sorriso,e riesca a piazzare pure qualche occasione per risate convinte, si dimentica per strada, via via che la storia scorre, alcuni personaggi cruciali come il filosofeggiante Giuseppe Battiston, e la sorella del protagonista Margherita Buy, e, come capita a diverse commedie italiane degli ultimi anni, non riesce a mordere come forse avrebbe voluto. Anche se, va detto, il finale più sarcastico che consolatorio è almeno coerente con le premesse. Con un pò di coraggio in più, sarebbe stato un film più realizzato: peccato.