CAPITALISM: A LOVE STORY ( Capitalism: a love story, USA 2009)
DI MICHAEL MOORE
DOCUMENTARIO
Una carriera spesa a trovare gli elementi negativi dell'America, ma attenzione: Michael Moore non è un antiamericano, bensì un critico furente su molte cose, che non vorrebbe vedere nella "patria delle opportunità", uno dei più celebri slogan autocelebrativi degli USA. Dopo aver puntato i riflettori sulle industrie e le loro furberie, la troppa facilità con cui si comprano armi ( e si usano) negli Stati Uniti, le guerre preventive della gang di Bush II, le falle del sistema sanitario americano, Moore si concentra sulle colpe della grande crisi che dal 2006 al 2008 ha impoverito milioni di persone, mandando all'aria vite e popolazioni. Come sempre, il regista e produttore di documentari che bilanciano la tragedia di ciò che mostrano con un'ironia azzannante, si documenta a fondo, e mostra che le cose hanno radici lontane, fin dai tempi "dorati" di Ronald Reagan al comando, il quale, anzi, aveva fior di banchieri a gestirne passi decisivi. In ogni lavoro di Moore c'è una sequenza, almeno, in cui il grosso fustigatore cerca di mettersi in contatto con i vertici delle istituzioni che attacca, ma gli viene impedito dalla manovalanza: come sottolinea questo suo documentario, la grande finanza ha creato un sistema inintelligibile, che confonde i "non addetti", e permette così a chi tira le fila di poter fare affari non leciti, con giro di miliardi di dollari, senza tener conto degli strumenti della democrazia che in una qualsiasi comunità civica ( e parliamo della maggior potenza mondiale, non di una comune su un'isola alle Baleari, tanto per dire) dovrebbero garantire una minima equità diffusa. Moore dimostra come i poteri forti scavalchino i paletti, senza tener conto di voti, limiti o regole. Si esce dalla proiezione di "Capitalism: A love story" frastornati, indignati e urtati per come il cittadino comune può essere stritolato mentre personaggi che funzionano da tramite si sono arricchiti, rubando anche anni di vita alle persone ( vedi l'esempio dei giudici che, dietro lautissimo compenso, hanno appioppato pene sproporzionate a ragazzi in istituti correttivi per gonfiare conti) e facendola regolarmente franca, salvo qualche caso. Negli anni che hanno portato al potere figure come Trump, sarà un caso che gli ultimi due titoli realizzati dal regista, "Where to invade next" del 2015, e "Michael Moore in Trumpland" non abbiano trovato distribuzione qui in Europa, in pratica?
Nessun commento:
Posta un commento