PAY THE GHOST ( Pay the ghost, USA 2015)
DI ULI EDEL
Con NICOLAS CAGE, Sarah Wayne Callies, Veronica Ferres, Lyriq Bent.
HORROR/FANTASTICO
Durante una parata, nella notte di Halloween, un professore universitario perde il figlioletto, nonostante lo stesse tenendo per mano: la ricerca comincia subito disperata, ma la spiegazione è più complicata di un "normale" rapimento, perchè c'è di mezzo il soprannaturale. Noi spettatori, infatti, abbiamo visto in apertura del film un prologo ambientato nel 1635, in cui dei bambini, nascosti in una cantina, vengono trovati e tirati fuori. Il fatto accaduto al protagonista, è legato a una faccenda successa, appunto, quasi quattrocento anni prima. Diretto dal tedesco Uli Edel, che esordì con "Cristiana F. " e probabilmente, all'epoca, nessuno avrebbe predetto che sarebbe arrivato a girare una pellicola così distante da quel suo lavoro, come questa, "Pay the ghost" è un horror molto blando, si direbbe quasi "per famiglie", visto che tutto sommato si viaggi su un binario fantastico, ma senza eccedere negli spauracchi e nelle truculenze. Si dirà che Nicolas Cage ne ha fatti ben di peggio: verissimo, e più d'uno. Ma nel girare film a catena, come ormai ci ha abituati il divo americano, per i guai con il fisco ormai celeberrimi, è sempre più difficile stupirsi: anche la sequenza del climax, in cui c'è lo scontro con l'entità tenebrosa, in cui il protagonista si gioca il tutto per tutto, è vistosamente per un pubblico di giovanissimi. In ciò non c'è niente di male, certo, se ci si fosse curati, almeno, di imbastire un racconto più avvincente, e colpi di scena meno scontati...
LUCA IL CONTRABBANDIERE ( I, 1980)
DI LUCIO FULCI
Con FABIO TESTI, Marcel Bozzuffi, Ivana Monti, Saverio Marconi.
AZIONE/DRAMMATICO
Nell'epoca della cinefilia 2.0, spesso sono state messe in atto rivalutazioni di cinema considerato di serie B o C, il "trash" è divenuto qualcosa di cui discettare, e registi più di mestiere che di concetto sono stati passati ad autori, da qualche blogger o critico più provocatorio. Su Lucio Fulci, anche da gente di cinema come Argento e Tarantino, la "riabilitazione" è già stata effettuata, e c'è da dire che sia stato uno dei Signori delle terze visioni, con film che incassavano piuttosto poco, distribuiti alla fine dell'Estate più che altro, cui già il mercato home video ha fatto gli onori. Però, per quanto Fulci fosse uno che sapeva girare eccome, notare qui l'uso del ralenti, molto efficace e fluido, e, per dire, l'inseguimento iniziale in motoscafo, "Luca il contrabbandiere" rimane un brutto film. Moralmente aberrante, ambientato in una Napoli in cui si compiono stragi e omicidi di una violenza rivoltante, senza che lo Stato o chicchessia trovi da ridire, con un ricorso all'eccesso, sia nel mostrare gli omicidi, che una scena di violenza carnale, troppo marcato per non dare una sensazione di compiaciuto, volontaria o no che sia. Fabio Testi è monoespressivo in maniera particolare, Bozzuffi fa il carognone sadico, e se la musica di Frizzi è ricalcante alcuni passaggi della colonna sonora de "Il padrino", la solfa della mala "pulita" vecchia maniera è ridicola e inaccettabile.
GLI INVISIBILI ( Time out of mind, USA 2014)
DI OREN MOVERMAN
Con RICHARD GERE, Ben Vereen, Jena Malone, Kyra Sedgwick.
DRAMMATICO
Storie di ordinaria disperazione si incrociano tra senzatetto che, per scelta, indole, o concatenazione di fatti, sono finiti elemosinando un posto in cui dormire al caldo, o qualcosa da mettere in corpo per sopravvivere un giorno ancora. Di solito il tema non fa molta gola al cinema, ed il clochard è visto in maniera poeticamente surreale, qua da noi, o, oltre oceano, viene dipinto spesso con artefazione. "Gli invisibili" è un lungometraggio realizzato un paio d'anni fa, che, nonostante il protagonista sia Richard Gere, è uscito da noi solo da poco: George è un uomo maturo, non del tutto in sè, che ricorda di aver avuto una vita, dice di aspettare ancora la sua donna, e ha una figlia che va a vedere fuori dal vetro del locale in cui la ragazza lavora come barista. C'era tutto il materiale possibile per tirarne fuori una storia lacrimosa e tendenzialmente ricattatoria, come successe, per esempio, in "Ironweed" in cui Meryl Streep e Jack Nicholson fornirono una prova tra le più forzate e sovraccariche della loro fulgida carriera: il film diretto da Oren Moverman si fa apprezzare per la sostanziale sobrietà con cui racconta sia lo sfasamento delle giornate di George, che la sua progressiva presa di coscienza della sua condizione. E, soprattutto, non si chiude su un finale per forza rassicurante: è buon tramite Richard Gere, attore che negli anni ha conosciuto un notevole progresso, e, visto che non ha mai avuto nemmeno una nomination agli Oscar, piuttosto sottovalutato da critica e Academy. Nel suo vagare confuso, nelle sue stizze e nella sua malinconia, questo ritratto di sperso è tra le sue cose migliori.
JOHN WICK ( John Wick, USA 2014)
DI CHAD STAELSKI e DAVID LEITCH (non accreditato)
Con KEANU REEVES, Michael Nyqvist, Alfie Allen, Adrianne Palicki.
AZIONE/THRILLER
Il suo ex-socio, un gangster russo dalle numerose potenzialità, lo chiama "Baba Yaga" ( L'Uomo Nero), e lo teme, al punto da mandargli contro un vero e proprio esercito di sicari: ma John Wick, un tempo assassino a pagamento, vuole portare a termine quello che si è prefisso. Nel caso, la vendetta contro il figlio del malavitoso venuto dal freddo, che gli è entrato in casa, lo ha picchiato a sangue assieme a degli sgherri, gli ha ucciso il cagnolino, ultimo regalo della moglie appena defunta, e gli ha rubato la Mustang cui il protagonista è legatissimo. E non farà prigionieri. Action-movie tutto accelerato, ha rilanciato la carriera di Keanu Reeves, da un bel pò in fase di stallo ( anche se "47 Ronin" non era poi male): diretto da due registi, di cui uno in aggiunta, e non accreditato, utilizza male due o tre volti celebri come Willem Dafoe e John Leguizamo, cui concede poche scene, denuncia sfacciatamente il proprio riferimento principale, i nuovi videogames sparatutto, al punto da montare in parallelo una partita giocata da uno dei cattivi, con il progresso dello sterminio dei nemici da parte di Wick. In una città in cui si può far fuori chiunque si voglia, purchè sufficientemente armati e tonici, dato che la polizia in pratica non esiste ( solo una volta si affaccia un poliziotto a casa del personaggio principale, vede morti sul pavimento e va via salutando dopo che John Wick gli ha spiegato che sono cose personali....), quel che salva il film con Reeves dall'essere valutato una boiata, è un gran ritmo e una dose d'ironia abbastanza utile. Dal canto suo, l'ex- Neo di "Matrix", salta, si avvita, accoltella, mena e spara a profusione, lasciando, da solo, 79 cadaveri per terra, oltre che ogni possibile cognizione di logica. Nel 2017 avremo l'atto secondo, per la gioia di quelli a cui è piaciuto.
LA TERZA MANO ( Schizo, GB 1976)
DI PETE WALKER
Con LYNNE FREDERICK, John Leyton, Stephanie Beacham, John Fraser.
THRILLER
Alla notizia, su un tabloid, che una reginetta del pattinaggio su ghiaccio si sposa, un uomo con trascorsi in un istituto psichiatrico, parte alla volta della giovane donna: li lega un bruttissimo ricordo comune, un delitto sulla cui scena erano presenti entrambi, lui come amante della madre di lei, che era ancora bambina e assistette all'efferato evento. Slasher all'inglese, nella seconda metà degli anni Settanta fu un sottogenere che girava a pieno ritmo, dato che di lì a poco, "Halloween" avrebbe costituito insieme l'apice del genere, e una specie di stampino su cui forgiare tutti i thriller a venire, con serial killer rituale. Il regista Pete Walker, director anche di "La casa dalle lunghe ombre" e "La casa del peccato mortale", ha oggi un suo circolo di ammiratori tra i cinefili, che lo hanno decretato uno dei principi del thriller di serie B. "La terza mano" ha un suo decoro, è girato decentemente, e infligge allo spettatore alcune scene forti, nelle sequenze dei delitti, ben assestate: però già il titolo originale (quello italiano è abbastanza inspiegabile...) mette l'appassionato di suspence sulla strada buona, e la soluzione del macabro caso è abbastanza prevedibile, anche perchè quando si danno troppi indizi in un senso, spesso si vuole distrarre dalla vera chiave di un mistero, in letteratura e al cinema. La scena migliore è quella della seduta spiritica, che precede uno dei delitti: la chiusa, come si vuole da tradizione, è volutamente inquietante, con vittoria del Male. Perlomeno, all'epoca, avevano questo coraggio...
MIDNIGHT SPECIAL ( Midnight special, USA/GK 2016)
DI JEFF NICHOLS
Con MICHAEL SHANNON, JAEDEN LIEBERHER, JOEL EDGERTON, Kirsten Dunst.
FANTASCIENZA
In fuga da tutto, soprattutto da enti governativi e dalla setta cui il figlio era stato affidato, Roy è affiancato dal poliziotto Lucas, per portare il bambino prima a raggiungere la madre, Sarah, e poi un luogo imprecisato, ancora, in cui il ragazzo ha forse un appuntamento con una chiamata speciale... Jeff Nichols è stato candidato all'Orso d'oro all'ultimo festival di Berlino per la regia di questo film di fantascienza, costato poco meno di 20 milioni di dollari, che per una pellicola americana non è spropositato, ma per un regista non avvezzo al mainstream lo è eccome: bravo nel raccontare dal punto di vista dei giovanissimi, Nichols lo abbiamo conosciuto con "Mud", e qui imbastisce un lavoro dai toni simili ad un thriller d'azione, con sfondo fantascientifico, che, in una fuga disperata, coinvolge e raccoglie una famiglia allargata, che si gioca il tutto per tutto per strappare il più piccolo ad un destino da sorvegliato particolare. Il film è ben girato e raccontato, ha una buona cadenza narrativa, e riesce a tenere lo spettatore sul chi va là per tutta la proiezione: però, c'è da dire che sembra la versione personale di un insieme di ispirazioni spielberghiane della prima fase della filmografia dell'autore de "Il ponte delle spie", assemblata e neanche tanto mascherata. Nel viaggio-inseguimento è evidente il collegamento a "Sugarland Express", per il "protetto" da difendere da chi vorrebbe studiarlo e imprigionarlo si guarda a "E.T.", per l'appuntamento con entità altre non si può non pensare a "Incontri ravvicinati del terzo tipo". E il bello è che Nichols l'ha pure confermato in alcune interviste. Del cast, buona la prova degli attori principali Michael Shannon, Joel Edgerton e Kirsten Dunst, e tra comprimari di lusso come Adam Driver e Sam Shepard, fa bella figura anche il giovane Jaeden Lieberher. Pur se si tratta di puro cinema-omaggio.
LA VITA AGRA ( I, 1964)
DI CARLO LIZZANI
Con UGO TOGNAZZI, Giovanna Ralli, Giampiero Albertini, Rossana Martini.
COMMEDIA
Dalla provincia alla grande città, con l'intento di dare un colpo letale alla grande industria, per via della voglia di vendicare un amico, ed in contemporanea, di dare una "lezione" al grande Capitale, per un professore dalle idee anarchiche. "La vita agra" è il titolo più celebre di Luciano Bianciardi, uscito nel 1962, e dopo soli due anni, Carlo Lizzani ne girò la versione cinematografica: probabile che, se non subito, poco dopo, molti intellettuali impegnati abbiano guardato a questo lungometraggio scuotendo la testa, e deprecando il sarcasmo con cui sia il regista, che Bianciardi dipinsero certi rivoluzionari poi facili a farsi prendere nei meccanismi del profitto e del capitalismo. Però, guardandolo oggi, questo titolo, che tra l'altro rappresenta una delle pochissime sortite di Lizzani su un registro di commedia, è molto lungimirante, soprattutto per quanto riguarda, non tutti, certo, ma diversi ex-sessantottini, che hanno saputo cavalcare sempre l'onda giusta, tanto per fare qualche esempio, la branca poi divenuta fininvestiana. Filosofeggiando con abilità, il protagonista casca, però, nei vizi dell'italiano medio, che contesta, come la borghesissima maniera di farsi l'amante, illudendola di prospettive e nascondendola di fronte alla consorte titolare, scalare i gradoni della carriera, e abbandonare gli ideali in nome del benessere. Bravissimo Ugo Tognazzi nel fornire i chiaroscuri necessari alla figura principale, e ben figura Giovanna Ralli, controcanto amarognolo, e ferito, al femminile: una Milano in fase-boom raccontata con destrezza e proprietà, che colpisce per la buona ambientazione del racconto.
THE WATER DIVINER ( The water diviner, AUS/USA 2014)
DI RUSSELL CROWE
Con RUSSELL CROWE, Olga Kurylenko, Yilmaz Erdogan, Jay Courtney.
DRAMMATICO
La guerra sullo Stretto dei Dardanelli, per gli australiani, è una ferita profonda: sullo stesso evento storico, trentacinque anni fa, anche Peter Weir disse la sua con il famoso, e bel "Gallipoli-Gli anni spezzati", che contribuì a lanciare Mel Gibson. Nella guerra contro l'Impero Ottomano, i tre figli dell'agricoltore Joshua Connor hanno trovato, in piena battaglia, un tragico destino: l'uomo, abile nello scoprire dove la terra nasconde l'acqua ( il titolo è appunto riferito a questo), ha accolto con entusiasmo la partenza patriottica della stirpe, ma, schiacciato dal senso di colpa delle conseguenze del conflitto, e perduta anche la moglie, suicida per il troppo dolore, parte alla volta della Turchia, perchè convinto che non tutto sia perduto. Da un romanzo firmato da Andrew e Megan Wilson- Anastasious, Russell Crowe ha compiuto il gran passo dell'esordio dietro la macchina da presa, interpretando anche il ruolo principale del film: un'epopea drammatica ed avventurosa, che è ambientata in due continenti diversi, in cui, un padre deve fare i conti con gli errori del proprio passato, e sperare in un'idea di futuro, seguendo l'istinto ostinato, che gli dice di non lasciare andare anche l'ultima speranza sul fato dei figli. L'intento pacifista di Crowe, dell'andare oltre la violenza dei popoli in guerra, senza manicheismi, va a favore del suo primo lavoro da regista, e "The water diviner" è un film vecchio stile, che, senza particolari guizzi di regia, si fa seguire volentieri: magari certi passaggi un pò troppo impostati, il ricorrere fin troppe volte al rallentatore per sottolineare momenti importanti della storia, sono ingenuità che si potevano evitare. Da attore, Crowe conferma che ha carisma e grinta, anche se da regista si favorisce fin troppo: ma è un peccato abbastanza comune, tra le star che si mettono a dirigere esse stesse i film che interpretano.
MR. HOLMES- Il mistero del caso irrisolto
( Mr. Holmes, GB/USA 2015)
DI BILL CONDON
Con IAN MCKELLEN, Laura Linney, Milo Parker, Hiroyuki Sanada.
GIALLO/DRAMMATICO
L'ineffabile talento investigativo di Sherlock Holmes ha lasciato, stranamente, un caso in sospeso: il celebre investigatore è, alla veneranda età di 93 anni, colpito da una forma di perdita della memoria, non continuativa, ma tuttavia terribile, perchè appanna certe cose che permetterebbero di ricordare ciò che serve. Ma l'amnesia è qualcosa che, forse, difende Holmes dal senso di colpa.... Bill Condon e Ian McKellen si ritrovano, anni dopo "Demoni e dei", in cui l'attore rivestiva una versione di James Whale, regista di "Frankenstein", personaggio reale, e qua invece impersona una celebre creatura di finzione: di "Mr. Holmes" è buona l'intuizione, non irreprensibile lo svolgimento, dato che la prima parte si innesca con fin troppa lentezza, ed apprezzabile la conclusione. Il rimpianto di aver seguito una vita intera sul filo della logica, quindi, ponendo una distanza con gli altri esseri umani, si fonde con la paura della solitudine: paradossale, ma sincero, che un uomo giunto molto vicino alla fine dei suoi giorni, comprenda l'importanza dell'empatia, e del non essere più soli. Condon confeziona una pellicola-disgressione su un eroe della letteratura, e del cinema, particolare e tanto intelligente quanto distante, sfrangiandone l'alterità, e dipingendolo vulnerabile e scettico su se stesso: peccato che non indovini sempre la tonalità giusta da dare a una pellicola più interessante che riuscita. Bravissimi, ma è per loro consueto, Ian McKellen e Laura Linney.
IL MASSACRO DI FORT APACHE ( Fort Apache, USA 1948)
DI JOHN FORD
Con HENRY FONDA, JOHN WAYNE, Shirley Temple, John Agar.
WESTERN
A conti fatti, benchè John Ford sia considerato, da sempre, un grande uomo di cinema, ma politicamente un conservatore, sostanzialmente, i primi film western che hanno "parlato bene" dei pellerossa, sono alcuni dei suoi grandi classici, come "I cavalieri del Nord-Ovest", "Il grande sentiero", e, considerando che è una pellicola edita nel 1948, pure "Il massacro di Fort Apache", sebbene dipinga un attacco degli indiani che stermina un battaglione nordista. Come evinto da diversi storici del cinema, questo lungometraggio è una sorta di rivisitazione della reale disfatta di George Armstrong Custer a Little Big Horn: il generale vanaglorioso e arrogante che trascina al martirio se stesso e i propri uomini, provocando oltre misura i "selvaggi", è il colonnello algido e altezzoso interpretato da Henry Fonda, che in uno straordinario esempio di madornale sottovalutazione del nemico, manda in rovina un reggimento. Ford parla di onore e guerra, di razze e coscienza, di confronti e razzismo: il colonnello classista e sleale, anche con i pellerossa, che vorrebbe ingannare, ma finisce vittima della propria sfrenata ambizione, è il contrappeso del capitano cui dà volto John Wayne, militare leale e non scorretto, neanche con i nemici. Un racconto tra gli spazi desertici e il forte, che conosce un crescendo fino alla battaglia voluta dal personaggio di Fonda, con Wayne che, curiosamente, nella prima parte, cede spazio alla co-star, in un personaggio dai riflessi fortemente negativi, insoliti per il protagonista di "Furore". Il finale anticipa quello di "L'uomo che uccise Liberty Valance", con la leggenda del West che altera i fatti veramente accaduti, e insieme la fascinazione del Mito, di pari passo alla menzogna che rende grandi personaggi in realtà vili, per far sognare e credere in un Sogno, non necessariamente quello americano, le popolazioni. Un grande classico, per amanti del western e del cinema in generale.
IL TRADITORE TIPO ( Our kind of traitor, GB 2016)
DI SUSANNA WHITE
Con Ewan McGregor, Stellan Skarsgard, Naomie Harris, Damian Lewis.
THRILLER
Come gli appassionati di letteratura di spionaggio sapranno, tra John Le Carrè e Frederic Forsyth, è come parlare di Guelfi e Ghibellini: se il secondo è uno scrittore che ama il racconto dettagliato, specifica bene come funzionano certi meccanismi ed elenca con freddezza come un complotto possa esser ordito e sventato, con una visione del mondo disincantata, da conservatore moderato di destra, il primo è un autore che, sullo sfondo delle crudeltà degli scontri tra potenze, imbastisce storie di sentimenti e passioni, da uomo, nonostante tutto, ancora convinto che essere di sinistra serva a qualcosa. "Il traditore tipo" vede un professore universitario che, in vacanza in Marocco per recuperare il rapporto con la moglie, conosce un russo del giro della pericolosissima mafia moscovita, il quale lo tratta da amico, e gli chiede un favore che potrebbe salvare l'uomo e la propria famiglia. Coinvolto a livello di coscienza, l'inglese, con l'aiuto della moglie, in un giro sempre più rischioso, che da Marrakech porta a Londra, con puntata a Parigi, e finale sulle Alpi Francesi, contatta un pezzo grosso dell'MI6 per venire a capo di un inghippo miliardario, che vede implicati anche nomi di punta della crema economica della City. Sceneggiato dall'iraniano Hossein Amini, il film tratto dal romanzo pubblicato da Le Carrè nel 2010, è un buon thriller d'azione, con un crescendo ben costruito, che ha forse qualche relativo giro a vuoto, come il pezzo nella banlieue parigina, ma sottolinea la connessione del "pulito" mondo occidentale, e le ricchezze che circolano, con il sangue e la violenza perpetrata dal malaffare che alimenta parte dell'economia mondiale. Diretto con piglio deciso da Susanna White, perlopiù conosciuta per lavori televisivi, trova i migliori in scena nel russo non onesto, ma con un proprio codice interpretato da Stellan Skarsgard, e nel volutamente ambiguo, ma meno peggiore ci quanto possa sembrare, contatto dei Servizi Segreti interpretato dal Damian Lewis di "Homeland": e l'idealismo indomito di Le Carrè, affiora soprattutto in una conclusione che non ci sta, ad accettare il boccone amaro dell'inevitabilità del trionfo dei poteri forti.
ZOOTROPOLIS ( Zootopia, USA 2016)
DI BYRON HOWARD e RICH MOORE
ANIMAZIONE
GIALLO/AZIONE/COMMEDIA
Il "classico" Disney 2016 ( 55 ° in generale) è "Zootropolis", in originale "Zootopia": c'è una città in cui gli mammiferi, di tutti i tipi e dimensione, vivono più o meno in pace. La coniglietta Judy, che conosciamo da cucciola, è divenuta poliziotta per dare il suo apporto nel combattere prepotenze e azioni cattive, e incrocia la volpe Nick, che intrallazza per tirare a campare, e, benchè la salterina protagonista sia messa dall'ostico comandante a fare l'ausiliaria per il traffico, il fatto che alcuni predatori riscoprano pericolosi istinti, la mette su una pista che, aiutata dal volpone, potrebbe portarla a scoperte importanti... Inusuale, per un film della major ormai padrona di gran parte del mercato americano, e non, la scelta di realizzare una specie di giallo, sia pure con diversi spunti umoristici: dopo il ripristino dell'animazione classica con "La principessa e il ranocchio", la Disney utilizza, successivamente a "Ralph Spaccatutto" e "Big Hero 6", ancora la computer graphic, per imprimere tridimensionalità ad ambienti e personaggi. Divertente nella caratterizzazione dei personaggi, "Zootropolis" scorre via piacevolmente, ma rispetto ai due esempi sopra citati, è tutto di superficie, e con personaggi simpatici, ma cui non ci si affeziona: molto gradevole, e nulla più.
ANIMALI NOTTURNI ( Nocturnal animals, USA 2016)
DI TOM FORD
Con AMY ADAMS, JAKE GYLLENHAAL, Michael Shannon, Aaron Taylor-Johnson.
THRILLER
A sette anni da un film d'esordio che conquistò l'apprezzamento di molte penne autorevoli, e oggi si può definire tranquillamente un lungometraggio d'autore e di culto, come "A single man", Tom Ford gira il suo secondo lavoro da regista, traendolo da un romanzo uscito nei primi anni Novanta. Comincia con una visione volutamente disturbante: donne obese e nude che danzano con una musica in sottofondo, similare alle composizioni di Hermann per Hitchcock, che preannuncia scenari foschi. La gallerista Susan, sposata con un uomo più giovane che le nasconde varie cose, riceve un romanzo dall'ex-marito, che non rivede da diciannove anni: tra i due i rapporti si sono conclusi male, e la donna ammette un senso di colpa tenuto in corpo con sofferenza tardiva. Via via che Susan legge il romanzo, violento, su un fatto di sangue ed una conseguente vendetta, le sue certezze vengono meno. Dividendo il mondo di Susan, elegante quanto asettico e fin troppo "composto" e quello del racconto nel racconto, fatto di polvere e sangue, sporco e crudo, Ford ambienta il primo perlopiù in spazi chiusi e scostanti quanto fascinosi, il secondo in territori aperti, pericolosi e "old America": lungo un percorso da thriller vero e proprio, si dipana una vendetta sentimentale impietosa e abile quanto tempestiva, che coglie al momento giusto e nel modo più sottile. Spesso volutamente sgradevole, come nella lunga sequenza notturna che avvia, nel "romanzo" il dramma, "Animali notturni" è un'opera affascinante, densissima, diretta con maestria, e recitata con aderenza ai ruoli, anche da nomi di peso ma che hanno solo una scena a disposizione, come la madre Laura Linney e l'amico della protagonista Carlos, che ha il volto di Michael Sheen. Forse non un film che si ami rivedere, per la forte tensione che innesca, ma un thriller da incamerare tra le pellicole da vedere.
SING STREET ( Sing Street, IRE 2016)
DI JOHN CARNEY
Con FERDIA WALSH-PEELO, Lucy Boynton, Jack Reynor, Mark McKenna.
COMMEDIA/MUSICALE
I tanto rimpianti , di quest'epoca, anni Ottanta, sono stati un'ondata in cui pareva che l'immagine fosse andata al Potere, mentre erano in corso: ripudiati troppo presto dall'intellighenzia, come rimpianti fin troppo dall'opinione pubblica di oggi, sono stati una decade molto pop. "Sing Street" è ambientato nella Dublino del 1985, vista da un quindicenne, che per far colpo su una bellissima nata un anno prima, mette su una band, e proietta su quello l'inquietudine e la frenesia della sua adolescenza viva: è il momento in cui emergono fenomeni musicali come i Duran Duran, i Cure, e di conseguenza, tutto ciò influisce sia sul look, parola all'ordine del giorno in quegli anni, e sul genere musicale del gruppo, che muta a ogni ventata presa dai ragazzi. Se in casa non c'è più pace, il fratello più grande, a ventun anni è già in vena di filosofie, spesso azzeccate, e di rimpianti, a scuola vige un impianto repressivo, l'unica è buttarla in musica, e forse un'incerta fuga è svoltare davvero. Diretto da un regista già apprezzato nella commedia sentimental-musicale "Tutto può cambiare", con qualche difetto ma a cui non mancava la grazia evidente anche in questo lungometraggio, "Sing Street" è una sferzata rinfrescante, pur se parla di passato, di trent'anni fa, e di una giovinezza forse illusoria ma carica di tanto ottimismo, nonostante il grigio dei giorni in cui pare che non accada nulla, e del consolidato che impera e circonda. C'è lo spirito di un'adolescenza in procinto di esplodere, di passioni epiche che durano un giorno, si rinnegano la sera, e riprendono più forti la mattina dopo, e da coetaneo del protagonista, rivivere l'atmosfera di quel periodo, nella sua concezione più pura e vivace, è un ulteriore elemento di interesse e di gradimento . Però il film è valido per chiunque, dalle generazioni più mature a quelle più verdi, per la scarica di ottimismo e di ironia consapevole di cui è capace, e per come sa raccontare la goffaggine tenera di un'età della vita irripetibile e scioccamente meravigliosa. Da John Carney è lecito aspettarsi nuove belle cose, e occhio al trio Ferdia Walsh-Peelo, che interpreta il protagonista, Lucy Boynton, che è l'inquieta Raphina, e Jack Reynor, fratello maggiore e sognatore suo malgrado: espressivi e densi, potrebbero farsi strada.
I PREPOTENTI ( I, 1958)
DI MARIO AMENDOLA
Con ALDO FABRIZI, NINO TARANTO, Ave Ninchi, Wandisa Guida.
COMMEDIA
In gita a Napoli, la famiglia Pinelli è turbata da una scazzottata tra il figlio, ed un giovane napoletano, all'uscita dallo stadio dopo Napoli-Roma:tuttavia, tra il giovanotto meridionale, e la sorella del "rivale" nasce una simpatia, destinata a diventare qualcosa di più. In aggiunta, tra i due capi di famiglia, il romano Cesare ed il napoletano Mimì, sono scintille da subito, per i caratteri forti e scontrosi dei due uomini: ancora non sanno che forse le loro strade saranno molto unite, per il futuro.... Ebbe un buon successo, questa commedia diretta da Mario Amendola, al punto da generare un seguito, "Prepotenti più di prima", poco dopo. Seppure in scena ci siano due figure di spicco della cinematografia italiana dell'epoca, come Aldo Fabrizi e Nino Taranto, la commediola ha poco sugo davvero, e alterna melense scene sentimentali, che venivano messe per attirare gli spettatori giovani, a battibecchi a volte divertenti, altre meno. La scena migliore è quella della devastazione del presunto appartamento del napoletano, da parte di Fabrizi: per il resto, una sceneggiatura sempliciotta, una sfida finale a suon di canzoni e campanilismo bonario, e non molto di più.
CHE VUOI CHE SIA ( I, 2016)
DI EDOARDO LEO
Con EDOARDO LEO, ANNA FOGLIETTA, Rocco Papaleo, Marina Massironi.
COMMEDIA
Coppia ultratrentenne con i conti sempre a rischio, per via del carovita e dei lavori non proprio redditizi che lui e lei sono riusciti a rimediare, Anna e Claudio si ritrovano in una situazione non semplice: infatti, sull'account per promuovere un'iniziativa del giovane, e ricevere un crowdfunding, i due pubblicano un video in cui, in una notte ubriaca, annunciano di pubblicare un video in Rete in cui si mostrerebbero facendo sesso. Da quel momento in poi, fioccano le offerte, fino a raggiungere una certa cifra, ma se la popolarità improvvisa della coppia è stordente, le conseguenze di quello che potrebbe significare sulla loro vita sono imprevedibili. Al quarto film diretto, Edoardo Leo non ha ancora del tutto raggiunto la maturità registica, ma dimostra caratteristiche interessanti: parlare con leggerezza, spesso, come nella prima parte della pellicola sopratutto, divertendo lo spettatore, ponendogli allo stesso tempo temi come la difficoltà dei quasi ex-giovani di avere garanzie per mettere su famiglia, la poca semplicità di far quadrare i bilanci familiari, la morbosità dei media classici e più recenti sul privato di ognuno, la bruttezza di una società in cui "fare i soldi" è il leit-motiv unico e solo. "Che vuoi che sia" è una commedia con una spruzzata amarognola ben girata, che perde un pò di mordente nell'ultima parte, ma che conferma un incoraggiante stato, rispetto, mettiamo, ad una quindicina di anni fa, del cinema italiano di genere. Leo davanti alla macchina da presa ricorda certi impacci e certe espressioni accorate di Nino Manfredi, Anna Foglietta, con inedito accento lombardo, è tra le attrici giovani più in palla e abili a mescolare registri umoristici e più drammatici: ma la cosa migliore del film sono le figure di contorno, punto di forza di tanto cinema italiano del passato, che in Rocco Papaleo, Massimo Wertmuller (alla fine, nella sua gagliarda irresponsabilità, il personaggio più onesto di tutti), Bebo Storti trovano un'espressione piuttosto felice.
FENOMENI PARANORMALI INCONTROLLABILI
( Firestarter, USA 1984)
DI MARK L. LESTER
Con DREW BARRYMORE, David Keith, George C. Scott, Martin Sheen.
FANTASCIENZA
La piccola "Charlie" è figlia di un uomo e una donna sottoposti a esperimenti, che ne hanno sviluppato una capacità telepatica tale da arrivare a far perdere la conoscenza, e anche la vita alle persone, e la bambina ha il potere di appiccare il fuoco con la mente. Membri governativi hanno effettuato l'esperimento, e vogliono mettere le mani sulla ragazzina, che vive in fuga, assieme al padre, dopo che la mamma è stata ritrovata uccisa, per mano degli uomini di "The Shop", il laboratorio in cui si conducono questi rischiosi test. Prodotto da Dino De Laurentiis, non nella sua miglior fase, "Firestarter" non è tra i peggiori, nella cinematografia desunta dai romanzi di Stephen King: ha nel cast tre attori da Oscar, come George C. Scott, Art Carney e Louise Fletcher ( questi ultimi due usati poco e non benissimo), un cattivo dalle tonalità ambigue e mefistofeliche come Scott, e una discreta narrazione, con effetti speciali, per l'epoca, abbastanza buoni. Però il film è una lettura piuttosto superficiale di uno dei romanzi più politici dell'autore di "Cujo", di cui mette in risalto solo la caccia alla piccola "fenomena" da parte dei creatori, e gioca soprattutto sul piano della tensione fino al teso conflitto conclusivo. Nel romanzo, il raffronto tra gli idealismi del '68 e l'affermarsi del reaganismo erano un elemento decisivo e, a conti fatti, il vero tema della storia: cosa che nel film viene a mancare del tutto, in pratica. Certo, Mark L. Lester, che diresse questo titolo tra i suoi due maggiori successi, "Classe 1984", e "Commando", non è stato certo un fine regista, e non era quello più adatto per un racconto del genere: ma all'epoca King era considerato da Hollywood una potenziale macchina da soldi, e non molto di più.
MASTERMINDS- I geni della truffa ( Masterminds, USA 2016)
DI JARED HESS
Con ZACH GALIFIANAKIS, KRISTEN WIIG, Owen Wilson, Jason Sudeikis.
COMICO
Pare siano vicende realmente accadute, quelle raccontate in "Masterminds", visto che sui titoli di coda, accanto agli interpreti, posano in foto i "veri" corrispettivi dei personaggi: chiaramente il tutto è messo in burla, e non poco. Versione ridanciana di uno schema "noir" che vede un ingenuo in un ruolo chiave venire raggirato tramite una seduzione, da gente più furba e losca, il film è pubblicizzato da molti mesi, ed esce solo ora per via di problemi economici della compagnia di produzione. Uno Zach Galifianakis con caschetto improbabile, Kristen Wiig esageratamente bionda, Jason Sudeikis nei panni di un sicario dalla bizzarra logica, Owen Wilson più "normale" ma il vero cattivo della storia, in un soggetto che flirta apertamente col demenziale, viste le gags spesso non lievi, che però, va ammesso, nella prima mezz'ora di proiezione, sembrerebbero funzionare. E invece, dopo un inizio vivace, vedi la scena del "colpo", francamente spesso divertente, via via che la storia si dipana, ed il film scorre, vede affievolire la verve, andando alla deriva, verso una conclusione addolcita che convince molto poco. E la carica satirica del quadro di una provincia meschina, avida, senza valori diversi dal facile guadagno di soldi da sputtanare, va in malora, con perdita di interesse progressiva da parte dello spettatore. Sicuramente è un problema di sceneggiatura, ma anche la regia non fa granchè per risollevare le sorti del filmetto, e lo rende perfettamente dimenticabile.
SETTE MINUTI ( I/F/CH, 2016)
DI MICHELE PLACIDO
Con OTTAVIA PICCOLO, AMBRA ANGIOLINI, FIORELLA MANNOIA, CRISTIANA CAPOTONDI.
DRAMMATICO
Sette minuti sono un lasso di tempo esiguo, però in certi casi, possono rappresentare un vero e proprio momento cruciale. Nel caso raccontato da questo film, che rappresenta la tredicesima regia cinematografica di Michele Placido, sono una clausola, una richiesta, e allo stesso tempo un espediente: perchè la fabbrica al collasso in cui lavorano le operaie a consiglio al centro del racconto, è vicinissima ad un accordo con una grande azienda francese, che salverebbe la baracca, ma chiede alle dipendenti di diminuire la pausa pranzo da quindici a otto minuti. Quasi tutte le lavoratrici, d'impeto, sarebbero per firmare l'accordo, ma la più anziana si impunta per non avallarlo, e cominciano gli scontri tra le undici donne. Placido, traendo il suo nuovo titolo da un'opera teatrale di Stefano Massini, a sua volta ispirato al vero caso di una vicenda accaduta proprio in Francia, nel 2011, fa una scelta coraggiosa, e questo gli va già a favore: in un cinema italiano perlopiù abitato da creativi, architetti, manager, punta su un ambiente operaio, per troppo tempo dimenticato da sceneggiatori e registi. I vari Monicelli, Scola, Petri, tanto per fare qualche nome, non si peritavano di mettere in scena certe problematiche, ad esempio. "Sette minuti", probabilmente, ad oggi, il miglior lavoro di Placido insieme a "Romanzo criminale", è un film che, in una struttura che richiama un modello eccellente quale "La parola ai giurati", giocando di tensione e di dialettica, tocca vari nervi scoperti: dall'integrazione, mancata o meno, degli stranieri, alle condizioni di lavoro, sempre peggiori per tutti, e non solo per i ceti proletari, la crisi che parrebbe giostrata a proprio favore dai colossi aziendali, il qualunquismo ottuso che è stato tra le grandi risorse di come questa società si è evoluta in peggio, l'accettare, sempre e comunque, che ha riportato le cose, per quanto riguarda i diritti, di mezzo secolo indietro. C'era, vero, il rischio di troppa carne al fuoco, ma lo spettacolo avvince e regge, facendo luce sui problemi e la condizione di ognuna delle donne protagoniste, senza esplicare troppo della sfera di ognuna, ma dando un'idea sufficiente. Bravissime tutte le attrici in scena, conosciute o meno, compresa una sorprendente, e finora purtroppo quasi inedita, in questa veste, Fiorella Mannoia. E la rabbia amara che la pellicola fa sentire a uno spettatore con un minimo di senso civico in corpo e in mente, quando esce dalla sala, è un sentimento che evidenzia l'importanza di un cinema così. Speriamo non resti un caso isolato.
IL CONSIGLIORI ( I/USA, 1973)
DI ALBERTO DE MARTINO
Con MARTIN BALSAM, TOMAS MILIAN, Francisco Rabal, Dagmar Lassander.
DRAMMATICO/AZIONE
Il debordante successo de "Il padrino" creò un'ondata di film di vario livello sulla mafia, solitamente narranti regolamenti di conti tra clan di malavitosi, evidenziando, più o meno, distinzioni di etica tra le varie cosche, e rapporti di sangue e tradizione, a contrasto con i gangsters che pensano solo ai traffici redditizi: Tullio Kezich bollò questo sottogenere come una forma di pubblicità alla mafia, e forse non aveva tutti i torti. In questo film diretto da uno specialista del B-Movie all'italiana Alberto De Martino, Tomas Milian, figlioccio del boss Martin Balsam, esce di prigione, e si ricongiunge con il maturo capoclan: ma il carcere lo ha cambiato, faceva l'avvocato della Famiglia, ma vuole venir fuori dal giro. Gli alleati del capomafia, però, temono che possa parlare troppo, e così comincia uno scontro all'ultimo sangue, che farà diversi morti. Ambientato per tre quarti in America e nel finale in un paese siciliano, in cui si consumerà la maggior parte della carneficina, "Il consigliori" è infarcito di dialoghi-clichè, le situazioni delle riunioni tra nemici/amici risapute, c'è anche un pranzo con un mafioso che intona "E lucean le stelle" di pucciniana memoria, con accento di Broccolino, abbastanza imbarazzante, ma più che altro, quello che stona, sono i momenti che vorrebbero essere "commoventi", delle conversazioni tra i due protagonisti, con tanto di musica adatta più ai coevi film lacrimoso-ricattatori quali "L'albero di Natale" o "L'ultima neve di primavera". E dire che per molti è uno dei migliori titoli del genere: Tomas Milian, curiosamente, per un attore che poi è diventato iconico recitando sopra le righe col "Monnezza", fa un personaggio dai toni contenuti, mentre Martin Balsam, che in Italia trovò una seconda giovinezza, mette mestiere e poco altro. Finale al piombo, come si conviene in queste situazioni.
VELOCE COME IL VENTO ( I, 2016)
DI MATTEO ROVERE
Con MATILDA DE ANGELIS, STEFANO ACCORSI, Paolo Graziosi, Roberta Mattei.
DRAMMATICO
Il film a sfondo sportivo è stato prerogativa del cinema americano, in cui, forse, la competizione, il sacrificio e il combattere per arrivare ad un obiettivo, viene più naturale: produrre un film che ha per base le corse rallystiche, ispirato alla vera storia di un corridore, Carlo Capone, in Italia, con un solo nome celebre nel cast, Stefano Accorsi, ha richiesto senz'altro del coraggio. I due fratelli Giulia e Loris, divisi da diversi anni di differenza, ma anche dai guai che il maggiore, il maschio, si porta dietro per natura, ex-promessa del volante bruciatosi con la tossicodipendenza, devono giocarsi tanto per partecipare al campionato italiano GT, e c'è un altro fratello più piccolo da tutelare: tra diversi contrasti, i consanguinei arrivano a fare squadra, e al momento giusto Loris sarà una presenza decisiva. Girato con grinta, piglio deciso ed un senso della ripresa, e del montaggio, che niente hanno da invidiare ai costosi film americani d'azione, "Veloce come il vento" è un lungometraggio che tiene sulla corda sia la parte emotiva, del racconto dei rapporti di sangue, e quella sportiva, con la tensione delle gare, i rischi corsi e l'adrenalina del traguardo. Ben venduto a livello internazionale, meritatamente, mette in luce un regista nuovo, e fa ben sperare per il cinema italiano, il quale, in relativa sordina, sta dando segnali di nuova vitalità, se si vogliono vedere. Nel cast giusto dir bene della giovane Matilda De Angelis, e fa piacere ritrovare Accorsi, che qui, appunto "all'americana", si presta ad una trasformazione fisica per rendere bene lo "sciupato" Loris, segnato dai problemi personali. Da apprezzare la schivata della conclusione perbenista su questo personaggio: in un film americano, tanto per dire, l'avrebbero presa in pieno.
MAGIC IN THE MOONLIGHT ( Magic in the moonlight, USA 2014)
DI WOODY ALLEN
Con COLIN FIRTH, EMMA STONE, Simon McBurney, Eileen Atkins.
COMMEDIA
Star dei giochi di prestigio sotto le spoglie dell'orientale Wei Ling Soo, il compassato Stanley viene contattato da un vecchio amico e collega per cercare di smascherare una giovane donna, sedicente sensitiva, che, secondo l'uomo, sta cercando di buggerare un'abbiente famiglia amica. Duro e intransigente, dotato di un sarcasmo al vetriolo, Stanley prova a giocare vari tranelli alla ragazza, che però, via via, tira fuori cose che mettono in crisi le sue certezze. Non ebbe gran stima da parte dei critici neanche in Europa, "Magic in the Moonlight", venendo bollato, più o meno, come un'ennesima, stanca, riproposizione dell'Allen in chiave leggera, sulle beffe dei sentimenti e sull'ambientazione negli anni Venti. Condotto con un piglio registico forse più accurato che in altre pellicole dirette dall'autore di "Crimini e misfatti", questo suo film n.44 ha, certo, reminiscenze di "Scoop", tanto per fare un esempio, e, se si vuole, uno spunto collegabile a "La migliore offerta" del nostrano Giuseppe Tornatore. Però, rispetto, ad esempio, al successivo "Irrational man", questo è un lavoro gestito con garbo e con più o meno dichiarato intento al cinema leggero-sentimentale degli anni in cui è ambientata la storia, con tanto di love-story che procede per susseguirsi di situazioni, dubbi e slanci, quasi mai resa esplicita. Vero, i personaggi secondari sono forse unidimensionali, ma, se letto nella chiave di quel cinema retrò, ci si accorge che questi erano i canoni: Colin Firth sta a metà tra un disincanto strafottente ed una riluttante inclinazione all'innamoramento, Emma Stone fornisce una prova di personalità, pur facendo il verso alle eroine indipendenti delle commedie dell'età d'oro hollywoodiana. E un film leggero leggero, elegante e sfacciatamente "old style" enuncia la propria morale, con l'amore che sovverte ogni razionale timore, non nuova ma mai vecchia.
DOCTOR STRANGE ( Doctor Strange, USA 2016)
DI SCOTT DERRICKSON
Con BENEDICT CUMBERBATCH, Chiwetel Eijofor, Rachel McAdams, Tilda Swinton.
FANTASTICO/AZIONE
Portare sul grande schermo un personaggio noto perlopiù ai fans dei fumetti duri e puri, longevo e affascinante come il dottor Strange, è stata una mossa relativamente coraggiosa da parte della Marvel, sezione cinema: però è vero che una delle produzioni più arrischiate della casa produttrice, fu, due anni fa, "Guardiani della Galassia", che ebbe un grande riscontro ( da noi non moltissimo) e di cui in tanti attendono con impazienza il sequel, che verrà l'anno prossimo. Chirurgo di consolidato successo e di grandi prospettive, Stephen Strange finisce coinvolto in un incidente d'auto che ne rovina l'abilità con le mani, e, sconvolto, parte per l'Oriente, in cui forse ritroverà la possibilità di diventare di nuovo un mago degli interventi: entra in contatto con una comunità di mistici, presieduta dall'Antico, figura che lo inizia ad altre dimensioni. E, ovviamente, cominciano anche i pericoli, anche per la realtà che conosciamo. Diretto dallo Scott Derrickson di "Sinister", il cinecomic muta alcune cose dalla carta stampata allo schermo, con buona pace dei sostenitori più accaniti della tradizione, come il sesso dell'Antico, e Mordo, che nei fumetti è un acerrimo nemico di Strange, ma qui è un alleato che ha un diverso approccio alla magia e al paranormale. Nonostante i temi sfiorati, siamo alle prese con un film che viaggia sull'intrattenimento a tutti i costi, e il taglio che civetta con la psichedelia e le invenzioni grafiche a getto continuo ( forti derivazioni da "Inception" di Nolan, tuttavia) accattiva lo spettatore e diverte: Benedict Cumberbatch apporta incredulità, spaesamento e ironia ad un personaggio di solito algido sulla carta, mentre, forse, anche se Mads Mikkelsen rimane un attore di qualità alta, il suo villain non ha lo spessore giusto. Rivedremo il fantasmagorico Doctor Strange presto, nel terzo "Thor", tanto per dire....
THE NEON DEMON ( The Neon demon, F/USA/DK 2016)
DI NICOLAS WINDING REFN
Con ELLE FANNING, Abbey Lee, Jena Malone, Christina Hendricks.
HORROR
La sedicenne Jesse giunge a Los Angeles con l'obiettivo di farsi strada nel mondo delle modelle, vive in un motel di terza categoria, ed entra in contatto con la truccatrice Roberta, che la introduce nell'ambiente: l'innocenza, l'energia e il candore della ragazza rappresentano un elemento di disturbo, per le giovani donne con cui fa conoscenza, o manifestano solo un interessato stupore? Il gioco può farsi pericoloso, e qualcosa di vampiresco lentamente si insinua nei rapporti, alimentando le tensioni e giungendo a diventare nefandezza vera e propria. Nicolas Winding Refn, che ora si firma vezzosamente "NWR" sui titoli, è un cineasta da cui ci si attende sempre qualcosa di incisivo, e, come tutti i registi di personalità forte, si è creato oramai un proprio stile personale, riconoscibile già da poche inquadrature. A Cannes "The Neon demon" è stato proiettato suscitando applausi ma anche fischi e urla di disprezzo e raccapriccio: anche se la forte violenza di diversi momenti del suo cinema qui è forse meno presente in scena, non mancano sequenze da sconsigliare agli animi delicati, come una delle più disturbanti scene di necrofilia viste in un film, e il finale, che infligge allo spettatore un sadico "outrage". Ad una prima parte affascinante, che monta di tensione in maniera lenta ma sostanziosa, ne succede una seconda in cui si avverte più che altro la voglia di shockare del cineasta danese, abbozzando una sorta di velato remake di "Suspiria", senza trovare la via della casuale salvezza tipica dei finali di Argento, ma puntando verso un ambiguo affermarsi del Male. Elle Fanning, è assodato, è uno dei volti del cinema di oggi e degli anni a venire, ed è uno degli aspetti positivi di una pellicola che alterna grazia visiva a inciampi narrativi, senza convincere mai veramente.
ANNI DI PIOMBO ( Die bleierne zeit, D 1981)
DI MARGARETHE VON TROTTA
Con JUTTA LAMPE, BARBARA SUKOWA, Rudiger Vogler, Franz Rudnick.
DRAMMATICO
Leone d'oro alla Mostra di Venezia nel 1981, e vincitore del David di Donatello per la regia di Margarethe Von Trotta, "Anni di piombo" è un cult della generazione nata attorno alla metà degli anni Cinquanta, ed un film che ebbe un forte impatto, all'epoca della sua uscita, al punto da far divenire il proprio titolo una definizione per quella lettura degli anni Settanta che vide il proliferare del terrorismo di matrice politica in Europa e in Occidente. Storia di due sorelle ispirate alle vere Eisslin, di cui una fece parte della banda Baider-Menhof, e morì in carcere apparentemente suicida come gli altri del gruppo terroristico, ma di cui venne sospettato l'assassinio "politico", e del loro rapporto mai semplice, la più grande adolescente ribelle e poi giornalista femminista, la più piccola sensibile e fragile da giovanissima, aggregatasi ad un gruppo di "rivoluzione armata" da adulta, il film, visto oggi, soffre probabilmente la marcata collocazione in un preciso momento storico e politico. Quello che colpiva a fondo nel 1981, in un periodo ancora fresco dei fatti riportati, visto oggi, con il disincanto tendenziale dei nostri anni, può apparire lontano, e saltano all'occhio dello spettatore le imperfezioni come un racconto in cui i meccanismi tra l'attuale ed il flashback non sempre sono fluidi, il bambino che dopo le prime scene sparisce, per poi ritornare nella parte finale, la mai troppo chiara definizione delle colpe della terrorista incarcerata: ma nell'intento del voler analizzare i perchè intorno alla celebre questione dei "compagni che sbagliano", che, per sommi capi, fu anche alla base de "Il nome della rosa", con il confronto-metafora tra i francescani ed i dulciniani da leggere come differenziazione tra militanti comunisti e sostenitori della lotta armata, "Anni di piombo" resta un documento di sofferta, sentita importanza. Anche nel voler sottolineare lo shock della Germania democratica e civile, di fronte alle colpe del passato ( le scene vere, visionate dalle sorelle da ragazze, di quel che venne trovato nei campi di sterminio).