LA PAZZA GIOIA ( I, 2016)
DI PAOLO VIRZI'
Con VALERIA BRUNI TEDESCHI, MICAELA RAMAZZOTTI, Valentina Carnelutti, Anna Galiena.
DRAMMATICO
Beatrice e Donatella si incontrano per la prima volta in un ufficio della casa-famiglia in cui la prima è utente da tempo, e la seconda appena arrivata: la prima viene presa per una psicologa dall'altra, che è arrivata in cattive condizioni fisiche, finchè dopo pochi minuti viene scoperto l'equivoco/inganno. Sono due donne belle e devastate dalla follia, e i loro trascorsi non le hanno comunque aiutate: fuggono rocambolescamente dalla struttura, e intraprendono un folle giro sia in avanti che indietro, nel loro passato, per provare a cogliere qualcosa che dia loro equilibrio. Paolo Virzì, dopo l'anomala atmosfera thriller de "Il capitale umano", gira un dramma con frequenti tonalità brillanti, costruendo, grazie anche alla collaborazione di Francesca Archibugi alla sceneggiatura, due personaggi femminili memorabili: feline e impaurite, sensibili e aggressive, fragili e incontenibili, con due personalità per molti versi distantissime, eppure via via sempre più unite. Vero, come molte volte scritto dalla stampa di settore, che il regista livornese è il più diretto erede dei grandi della commedia italiana come Monicelli, Risi, Scola, ma quell'alone di crepuscolo che è sempre in agguato accanto alle situazioni divertenti è spiccatamente toscano, quindi il raccordo più diretto è quello con chi diresse "L'armata Brancaleone" e "Amici miei". Come "Baci e abbracci", "La pazza gioia" è uno di quei film che amalgama sorrisi e occhi lucidi senza vergogna di farlo, ma con il sapore del reale, e dialoghi che non paiono cuciti con artificio. Le due protagoniste di questo film sono irrimediabilmente pazze, e in un panorama di menefreghismo e cinismo, spesso sono state accettate o frequentate per approfittare delle loro grazie e della loro debolezza, ma, ed è il passo più bello della pellicola, c'è anche chi si riserva un minimo di umanità per averne pietà, o lasciarle essere senza escluderle. Valeria Bruni Tedeschi, mai così affascinante, è quella cui vengono riservate le battute più divertenti, Micaela Ramazzotti, quella con il personaggio che ha maggiormente subito: insieme sono bravissime, e riescono nel difficile compito di rendere verità a due disgraziate creature alla ricerca ostinata di un insperato affetto.
JOY ( Joy, USA 2015)
DI DAVID O.RUSSELL
Con JENNIFER LAWRENCE, Edgar Ramirez, Robert De Niro, Bradley Cooper.
DRAMMATICO
Anche dietro a un "Mocio", il diffusissimo attrezzo per la casa che ha sostituito in molte abitazioni il tradizionale spazzolone con straccio, c'è una storia da narrare. "Joy" è il racconto dell'inventrice dell'oggetto come lo conosciamo oggi: casalinga con il pallino delle invenzioni fin da piccola, in una famiglia turbolenta, in cui nessuno si perde mai davvero (il padre viene accolto di nuovo dopo esser scaricato per l'ennesima volta da un'amante, l'ex-marito vive nella cantinetta), la giovane donna gioca tutta se stessa nel voler imporre una sua idea, e nonostante tutti gli intralci, di familiari e persone esterne, riesce ad essere a modo suo la prova vivente del "sogno americano". David O. Russell dimostra una volta ancora di essere sia un regista che ha fiuto per l'assemblare un cast ( tornano volti già usati, anche insieme, come la Lawrence, De Niro, Cooper) che per dirigerlo traendone interpretazioni convincenti, e di saper navigare nel tormentoso mare delle relazioni interpersonali, sottolineandone l'aggrovigliamento, così come la difficoltà di uscirne, ma anche di gestirle. Certo, venire da una pellicola come "American Hustle" e proseguire, non è impresa facile, e comunque questo è uno dei suoi titoli meno riusciti. Un discreto lavoro, ben diretto, sulla distinzione tra chi ha talento e le persone più mediocri che cercano di scoraggiare chi esce dal coro, o può eccellere. Però troppo simile a tante altre pellicole sugli "american dreamers" per incidere più a fondo.
CHINA BLUE ( Crimes of passion, USA 1984)
DI KEN RUSSELL
Con KATHLEEN TURNER, John Laughlin, Anthony Perkins, Annie Potts.
DRAMMATICO/THRILLER/EROTICO
"China Blue" è il "nome d'arte" che si è scelta una donna impiegata in un'azienda di moda per esercitare la professione più antica del mondo, con concessioni frequenti a clienti che amano cose particolari: ciò viene scoperto da un addetto alla sorveglianza che viene incaricato di tenerla d'occhio perchè sospettata di fare il doppio gioco. Scoprendo invece la doppia vita della giovane donna, il sorvegliante, che è alle prese con un matrimonio divenuto asettico, come nei più classici noir, sviluppa una passione per la bella prostituta: il guaio è che anche un sedicente reverendo dallo sguardo allucinato, è interessato a lei, e vuole a tutti i costi redimerla, o peggio per lei... Ken Russell, si sa, non è stato certo un cineasta affermatosi per la delicatezza degli argomenti scelti: "China Blue" fu un thriller che, all'uscita, suscitò polemiche e recensioni velenose o estasiate. Certo, immaginare oggi un lungometraggio con un'attrice sì rampante, ma già abbastanza celebre, che gira scene come quella del poliziotto che viene deflorato dal manganello, è impensabile: al gioco pesante di Russell, gli interpreti stanno eccome, soprattutto una Kathleen Turner che alterna le incertezze della sua esistenza "normale" e la spavalderia perversa di quando indossa la parrucca platinata di "China Blue", così come Anthony Perkins dà una versione, una volta ancora, più allucinata, del Norman Bates che lo ha reso celebre, armato anche di un pugnale fatto a vibratore. Rivista oggi, è un'opera che si concede anche troppe estetizzazioni, con una colonna sonora che fa fin troppo il verso alle musiche, molto in voga all'epoca, di Giorgio Moroder, e un happy ending a mò di sberleffo, dopo che la trama ha navigato nel sordido in più di un'occasione. Discontinuo, con momenti interessanti e un gusto per la provocazione qua e là fine a se stesso.
LE STAGIONI DEL CUORE ( Places in the heart, USA 1984)
DI ROBERT BENTON
Con SALLY FIELD, Danny Glover, John Malkovich, Lindsay Crouse.
DRAMMATICO
All'edizione degli Oscar del 1985, fu un concorrente piuttosto serio di "Amadeus", che infine trionfò con otto statuette vinte, ma per molti recensori americani "Le stagioni del cuore" fu uno dei film dell'anno. Di sette nominations, due divennero premi: quello per la miglior attrice a Sally Field ( il secondo, dopo quello vinto per "Norma Rae"), e per il miglior script originale. Siamo nell'America della piena Grande Depressione, con gli agricoltori in rovina e le famiglie messe male per i disastri finanziari, in mezzo a contrasti violenti sulle questioni razziali, e la poca speranza rimasta alle persone. La protagonista, moglie dello sceriffo del paese, rimane vedova dopo che un ragazzo nero ubriaco ha sparato al marito: il giovane viene subito linciato dai membri del Ku Klux Klan della località, e la donna, per tirare avanti e non perdere la casa, conterà sull'aiuto di un pensionante non vedente, e di un afroamericano in cerca di lavoro, che le insegna a coltivare il cotone. Il film di Robert Benton mostra bene la condizione di una comunità colpita duramente dalla crisi economica, e oggi, purtroppo, possiamo maggiormente apprezzare la visione del regista di "Kramer contro Kramer", e la proporzione delle situazioni che si vengono a creare in tal contesto: recitato bene da un cast che include nomi come Danny Glover, John Malkovich, Lindsay Crouse, Ed Harris, il film perde mordente nell'ultima parte, con una conclusione che lascia un pò perplessi. Di fronte ad una realtà difficile da accettare, in cui i soprusi sono all'ordine del giorno, l'unica soluzione è rifugiarsi in un consolante sogno?
IL LIBRO DELLA GIUNGLA ( Book of the Jungle, USA 2016)
DI JON FAVREAU
Con NEEL SETHI.
AVVENTURA
La versione "live action" di un classico dell'animazione Disney del 2016 è "Il libro della Giungla", che dal 1967 è rimasto impresso a tanti bambini per l'avventura del piccolo Mowgli, spalleggiato dalla pantera Bagheera e dall'orso Baloo, con la minaccia dell'imperiosa e spietata tigre Shere Kahn, che vuole uccidere il "cucciolo d'uomo". Chiaro, la base è sempre il classico della letteratura di Rudyard Kipling, e se si vuole, si può bacchettare sceneggiatori e regista di questa nuova versione per certe leggerezze come gli elefanti africani in India e il fatto di aver fatto di Re Louis, invece che di un orango, un "Giganthopitecus", scimmia colossale estinta da un milione di anni. Va detto che Jon Favreau può essere considerato come uno dei registi hollywoodiani di oggi più abili a coniugare ritmo e spettacolo, vedi i primi due "Iron Man", e la difficoltà, qui, era far recitare con la massima naturalezza il giovanissimo Neel Sethi, praticamente solo in scena, con animali generati interamente in computer graphic. Il gioco riesce, perchè questo "Libro della Giungla" si apre con un aggressivo e accattivante incipit in cui l'avventura si presenta subito viva, e prosegue sulla stessa linea: ci sono gli intermezzi umoristici con protagonista l'indolente orso Baloo, e sottolinea maggiormente l'aspetto sinistro di personaggi come il serpente Kaa ( in versione femminile, e comunque nel romanzo non è nemico di Mowgli), il crudele Shere Kahn, presentando con una citazione consapevole Re Louis come fosse il Kurtz/Marlon Brando di "Apocalypse Now", immerso nella penombra e solo progressivamente mostrato. Tra queste rivisitazioni dei classici disneyani, è tra le migliori, sia, appunto, per un ritorno a un cinema avventuroso che comporta anche scoperta, prova e lotta per la sopravvivenza, e sia per il messaggio dell'abbattimento di barriere tra specie, da leggere "tra razze" per far reggere l'equilibrio della comunità.
SING SING ( I, 1983)
DI SERGIO CORBUCCI
Con ENRICO MONTESANO, ADRIANO CELENTANO, Marina Suma, Vanessa Redgrave.
COMMEDIA
A quattro anni dal grosso risultato commerciale di "Qua la mano" viene giocata di nuovo la formula che vede Enrico Montesano e Adriano Celentano abbinati nel manifesto, ma con ciascuno un proprio episodio, lungo, in pratica un minifilm, per portare al cinema più spettatori possibile, anche perchè, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, il comico romano e il cantante-interprete-regista erano davvero tra le carte sicure da giocare al box-office. Nel primo episodio si vuole che il meccanico Edoardo capisca di essere in realtà stato adottato, e per un giro di parole intese male, pensa che la madre sia la regina d'Inghilterra, e, giunto a Londra per parlarle di persona, fortuitamente la salva da un attentato: le cose non andranno come pensato dall'italiano in visita, ma a volte gli errori possono avere conseguenze non spiacevoli... Nel secondo, un tenente della polizia scorbutico soprannominato "Boghi", perchè gli piace fare il verso al divo di "Casablanca", cerca di proteggere una bella attrice specializzata in thriller di serie D, minacciata da un maniaco al telefono. Quel che sconcerta è la pochezza con cui è scritto ed allestito un lungometraggio che avrebbe puntato a cifre alte al botteghino, e la trasandatezza generale con cui si offriva al pubblico ( che non disdegnò, comunque, dato che fu tra i maggiori incassi della stagione 83/84...) un film più noioso che divertente, senza occasioni per suscitare sorrisi o risa. Se il primo episodio è insulso, il secondo, che avrebbe la pretesa di sfottere sia "Psyco" che gli horror di Fulci, Deodato & co., in quegli anni molto prolifici, è di una bruttezza e di un'approsimazione, anche nella recitazione, agghiacciante. Se il film del 1979 era comunque vedibile, e sia l'episodio con Montesano, che quello con Celentano, avevano qualche motivo di vago divertimento, qui siamo al Nulla totale. E il titolo? Senza senso, ovviamente, salvo la stupidella sequenza iniziale.
IL BANDITO DELLE 11 ( Pierrot le Fou, F 1965)
DI JEAN-LUC GODARD
Con JEAN-PAUL BELMONDO, ANNA KARINA, Graziella Galvani, Samuel Fuller.
DRAMMATICO/GROTTESCO
Ferdinand e Marianne si amano senza risparmio: lui ha lasciato una moglie italiana, la professione di insegnante e una collaborazione con la tv, una vita borghese per fuggire con lei, non prima di aver commesso un delitto, e poi essersi rifugiati insieme in riva al mare a far passare i giorni e vivere d'amore. Ma i sentimenti non bastano: le loro prospettive e i loro ideali sono diversi, lui ha un approccio materiale e lei vive a tutto cuore. Alla deriva esistenziale, quando la donna imprime una svolta decisa al corso della loro relazione, l'uomo si imbizzarrisce e fa precipitare la situazione. Un Jean-Luc Godard in pieno furore creativo, nel periodo di maggior successo della propria carriera, per un titolo amato da molti cinefili, ma che deluse alcuni che si invaghirono di "Fino all'ultimo respiro": dramma con riflessi criminosi, con pedale schiacciato sul grottesco, anche nel tragico finale, "Pierrot le Fou" ( è il soprannome dato da Marianne al suo uomo, con lui che puntigliosamente replica ogni volta che non si chiama così) è un lavoro figlio della propria epoca, vero, e in alcuni passaggi si potrebbe trovarlo datato, come nella sequenza sarcastica in cui Ferdinand e Marianne improvvisano un recital interpretando per alcuni marinai americani un gangster ed una cinese. Però Godard, cinquant'anni fa, aveva già visto che una certa società si sarebbe fatta mangiare la mente parlando come quelli della tivù, che per quanto slancio ci possa mettere in una passione, un borghese di natura si trova a disagio in un contesto non suo, e che l'Uomo, perso in un groviglio di indecisione, insoddisfazione e apatia, tenda a fare cose talmente stupide che lo possono portare solo ad una voluta rovina. Jean-Paul Belmondo, in uno dei suoi ruoli più celebri, mette tutta la sua fisicità al servizio di Godard, una volta ancora, e Anna Karina investe di grazia fluida un personaggio all'unisono accattivante e disdicevole.
L'ULTIMO DEI TEMPLARI ( Season of the witch, USA 2011)
DI DOMINIC SENA
Con NICOLAS CAGE, Claire Foy, Ron Perlman, Stephen Campbell Moore.
FANTASTICO/AVVENTURA
Come spesso accade, il titolo italiano è un pò approssimativo: nel film di Dominic Sena, alla seconda collaborazione con Nicolas Cage undici anni dopo il remake del suo "Fuori in 60 secondi", il personaggio dell'inflazionata star è Behmen, un cavaliere templare che ha abbandonato le battaglie dell'ordine, dopo essersi sentito in colpa per il troppo sangue versato spronato dai religiosi, che deve scortare, assieme al fidato Felson, compagno di mille scontri, una ragazza che sembra essere pericolosissima, in quanto strega maligna. I dubbi del protagonista, che accompagnano il viaggio, incrociati ai rischi naturali e soprannaturali che il gruppo incontrerà, verranno dissipati in uno scontro finale in cui un vero e proprio demone mostrerà il suo vero volto e la sua potenza. Diciamolo, ne ha fatti di molto peggio, Nicolas Cage, nel suo sovraccarico di presenze, ruoli in gran parte dovuti alla necessità di racimolare diverso denaro per togliersi dai guai fiscali in cui si era messo: tra qualche anno, colui che si è scelto il cognome di un personaggio dei fumetti Marvel per nome d'arte, è arrivato a provarsi il costume di Superman senza che andasse in porto il film del rilancio dell'eroe prima di Zack Snyder, forse sarà argomento di analisi dei casi del cinema. Nel frattempo, lavora in tanti film, alternando pellicole d'autore (lo chiamano, sì) a titoli evidentemente remunerativi, ma di poco conto, come questo, che è guardabile, ma viaggia sul risaputo abbondantemente, scontro conclusivo compreso, con mostro ( fatto piuttosto male, tra l'altro) da sconfiggere.
BROOKLYN ( Brooklyn, GB/CAN/IRE 2015)
DI JOHN CROWLEY
Con SAOIRSE RONAN, Emory Cohen, Domhnall Gleeson, Jim Broadbent.
DRAMMATICO/SENTIMENTALE
Da un paese d'Irlanda ai quartieri popolari d'America, il racconto dell'esperienza di una ragazza che appunto vuole una vita differente da quella di cui, a suo vedere, si sono accontentati i familiari, e vivere in un mondo più aperto seppure molto lontano dalle sue tradizioni. Accolta tramite una buona parola di un prete in un convitto per signorine, trovato lavoro in un grande magazzino, nonostante la nostalgia di casa e le difficoltà di adeguarsi ad un ambiente in tutto e per tutto inedito, conosce un giovane idraulico italiano, che le presenta la famiglia e con il quale, a breve, si sposa: un lutto familiare improvviso la fa correre nell'isola natìa, e lì ritrova amicizie, e viene corteggiata da un giovane di buona famiglia, che le chiede di sposarlo. La protagonista ha taciuto che è già coniugata negli Stati Uniti, anche alla madre, ed entra in crisi perchè, divisa tra due mondi e due opposte prospettive, vacilla.... Tratto da un romanzo di Colm Toìbìn, "Brooklyn" è diretto e interpretato diligentemente, con una buona impostazione e cura nel ricreare i primi anni Cinquanta al di là e al di qua dell'Atlantico: l'ambiguità sentimentale della protagonista Eilis, è ben resa da Saoirse Ronan, che è una credibilissima ragazza di quell'epoca, con i dubbi e le ritrosie sentimentali di un'età non ancora matura, e l'oscillazione che comportano scelte forti come quelle che la giovane donna compie. Però, a conti fatti, questo una volta si chiamava "cinema di papà", un esercizio quasi calligrafico, in cui niente è particolarmente sbagliato, ma la pacatezza di fondo sminuisce non di poco ogni effetto, più che altro emotivo, sullo spettatore.
FOXCATCHER- Una storia americana ( Foxcatcher, USA 2014)
DI BENNETT MILLER
Con CHANNING TATUM, STEVE CARELL, Mark Ruffalo, Vanessa Redgrave.
DRAMMATICO
Dalla vera storia dei fratelli Schultz, atleti di lotta libera, di cui uno, Dave, vinse l'oro a Los Angeles '84, e tratto dall'autobiografia dell'altro fratello, Mark, "Foxcatcher" è un lungometraggio che si guadagnò, due edizioni fa, cinque candidature agli Oscar, tra cui le più importanti, film, regia e due agli attori, protagonista (Steve Carell) e non protagonista (Mark Ruffalo): nel racconto è messo in risalto il rapporto del miliardario John E. Dupont, che finanziò Mark per portarlo alle Olimpiadi di Seul nel 1988. Dupont è un uomo ricco ma depresso e compresso, indecifrabile e scostante, che vive in soggezione dell'anziana madre e instaura con il giovane lottatore una forma d'amicizia che forse è una sorta di attrazione omosessuale sofferta e non espressa. Il film scritto e diretto da Bennett Miller, che vinse la palma d'Oro a Cannes per la miglior regia, è carico di un'atmosfera malsana lungo tutta la proiezione: i silenzi sono tesi, raramente interviene la musica ad alleggerire il dramma che si sta consumando, tra complessi di inferiorità, solitudine dovuta a difficoltà di relazione, la rabbia cova appena sotto la superficie, e il tutto sfocerà in tragedia. Con qualche pesantezza nel perdere, talvolta, il ritmo giusto, il film è comunque volutamente urticante, e molto deve a tre attori di grande impegno: se Tatum si sta affrancando dall'immagine del ragazzone tutto testosterone, massiccio e un pò ottuso di inizio carriera, Ruffalo è ormai una garanzia, e un attore partito brillante come Steve Carrell sorprende in una performance lodevole, di un uomo perennemente a disagio con il prossimo, che progressivamente appare come una sorta di Nosferatu ossessionato e livido.
EX MACHINA ( Ex Machina, GB 2015)
DI ALEX GARLAND
Con DOMHNALL GLEESON, ALICIA VIKANDER, Oscar Isaac, Sonoya Mizuno.
FANTASCIENZA
Una grande società di informatica indice un concorso per i suoi dipendenti, e un giovane programmatore lo vince: il premio è passare una settimana nell'abitazione di colui che ha creato la BlueBook, un genio della cibernetica dalla personalità bizzarra, che vive in una sorta di isolamento in una casa sotterranea, futuristica, che spiega all'ospite che la sua permanenza lì sarà più che altro per stimolare nel relazionarsi ad un altro essere umano una sua creazione, l'automa Ava. La sensazione di qualcosa che non va arriva presto, anche perchè la robot ha reazioni fin troppo umane, e stabilisce con il nuovo arrivato un feeling che lo manda in crisi, ma disturba anche il padrone di casa, che alterna cordialità a momenti in cui è estremamente scostante: ma chi non la racconta giusta? L'esordio dell'inglese Alex Garland, che se lo è anche scritto, è un titolo di fantascienza che ricorda molto certo settore del genere dei primi anni Settanta, che qualche recensore battezzò "fantacoscienza": infatti pone questioni sulla reale impersonalità di un'intelligenza creata dall'Uomo o, a leggerlo più a fondo, lancia un monito a non rendere troppo indipendenti e capaci di apprendere e rielaborare queste creazioni? Da notare che Garland ha scelto perlomeno tre interpreti che è probabile vedremo spesso e volentieri nei prossimi anni, come Domhnall Gleeson, Oscar Isaac ( a parte che poi hanno entrambi fatto parte dell'ultimo "Star Wars", ma i due hanno una somiglianza sia fisica che recitativa con i giovani Donald Sutherland e Al Pacino), e Alicia Vikander, attori bravi e in parte, con qualche punto in più per l'attrice svedese, perfetta nell'imprimere un'imprevista umanità, nel bene e nel male, ad un robot. E la scelta di chiudere il film su un finale beffardamente non conciliante, è segno di personalità del regista.
CAPTAIN AMERICA: CIVIL WAR ( Captain America:Civil War, USA 2016)
DI ANTHONY E JOE RUSSO
Con CHRIS EVANS, ROBERT DOWNEY Jr., Scarlett Johansson, Sebastian Stan.
FANTASTICO/AZIONE
Anche se è il terzo capitolo della serie "in solitaria" di Capitan America, "Civil War" è un non ufficiale film degli Avengers, dato che è molto incentrato sul gruppo di supereroi, unici assenti Thor e Hulk, e sui conflitti che esplodono tra due leader come Cap e Iron Man, dividendo il team in due fazioni. E' in gioco una formattazione delle regole d'ingaggio degli eroi dotati di superpoteri, e se Tony Stark aderisce al programma che il generale Ross consegna, Steve Rogers, pur capendo le responsabilità anche gravi degli effetti collaterali delle azioni da loro compiute, si rifiuta, dando il via allo scontro. Affidato ai fratelli Russo, che con "The winter solder" avevano realizzato un bel thriller d'azione, "Civil War" vede il ritorno di personaggi dal recente successo come Visione e Ant-Man, e presenta sia Black Panther, prossimo membro degli Avengers, e la terza versione di Spider-Man. Più drammatico nei confronti tra personalità forti, e meno propenso alle spruzzate di umorismo, questo capitolo delle avventure degli eroi Marvel è più che altro una riflessione sul ruolo degli USA nel panorama internazionale, e sulle responsabilità degli interventi bellici che costano anche vittime tra i civili. E' anche una nuova fase programmata del mondo filmico marvelliano, in cui tanti personaggi si incrociano ed hanno un peso, invece di limitarsi a piccole apparizioni, strizzate d'occhio per i fans: curiosa la svista storica sul Dicembre 1991, in cui in una fortezza sovietica si attua il programma del "Soldato d'Inverno", quando nell'Agosto precedente il golpe dei militari dette il via alla fine dell'URSS. Comunque va dato atto ai Russo, che dirigeranno anche il prossimo progetto sui Vendicatori, diviso in due segmenti, di saper imbastire pellicole ben bilanciate tra costruzione di sottotrame e tensione da thriller, e scontri spettacolari.
LA CORTA NOTTE DELLE BAMBOLE DI VETRO
( I, 1972)
DI ALDO LADO
Con JEAN SOREL, Ingrid Thulin, Barbara Bach, Mario Adorf.
THRILLER
Il titolo, va da sè, considerato periodo dell'uscita e genere, benchè sia abbastanza posticcio, fa parte del vasto arsenale dei primi anni Settanta nel giallo, con appunto film intitolati in modo particolare per attirare più pubblico possibile e relazionarsi al tanto in voga cinema argentiano. Ambientato in una Praga mesta, abbastanza poco credibilmente, perchè nel 1972 un giornalista americano che si muoveva con scioltezza nell'Europa dell'Est era piuttosto opinabile, ha uno spunto interessante, che rimanda a Edgar Allan Poe: infatti, il protagonista è un reporter che viene ritrovato in un parco e portato all'obitorio, ma in realtà, benchè non possa nè muoversi e nè parlare, e sia in una sorta di morte apparente, è perfettamente lucido e cerca sia di ricostruire quel che gli è successo, e come poter comunicare agli altri che è ancora vivo. Aldo Lado, che più tardi girerà anche "Il gatto dagli occhi di giada", è stato uno dei registi della serie B italiana più propensi a inserire connotazioni politiche, mescolandole a delitti e indagini: infatti, più che un thriller dalle screziature orrorifiche, è più un giallo con rivelazione conclusiva su un piano segreto. Non incalzante, e piuttosto traballante nella credibilità, in alcuni passaggi, buchi di sceneggiatura ( non ci verrà mai specificato esattamente come il protagonista sia stato conciato così) non è comunque uno dei peggiori titoli del filone: degli attori principali, Jean Sorel si impegna, Barbara Bach era già uno splendore, anche se compare in non moltissime scene, a Ingrid Thulin viene concesso meno spazio di quanto l'attrice avrebbe meritato, e quello più in palla sembra il collega scafato del giornalista, Mario Adorf.
FUGGIASCO ( Odd man out, GB 1947)
DI CAROL REED
Con JAMES MASON, Robert Newton, Kathleen Ryan, Cyril Cusack.
DRAMMATICO
Titolo colpevolmente un pò dimenticato, tra i classici dell'immediato dopoguerra, "Fuggiasco" è un'opera firmata da un regista di valore come Carol Reed, che può prestarsi a interpretazioni ambigue, visto che tratta di un attivista politico ribelle, che compie una rapina per trovare i fondi per la propria "Organizzazione" ( nella storia non viene mai menzionata l' IRA), uccide in una colluttazione una persona, viene ferito, e si raccontano le successive dodici ore, in una Belfast innevata, gli incontri dell'uomo in fuga con vari esempi di umanità, da delatori a comprensivi, da sleali a solidali. In questo senso, Reed privilegia, appunto, senza indugiare troppo in una visione politica, in una lettura di come gli esseri umani, al dunque delle cose, possano comportarsi, in un ampio spettro di atteggiamenti e reazioni psicologiche e comportamentali. Molto bella la parte finale, con più di un passo in una dimensione onirica, visto che il personaggio principale, ferito e in gravi condizioni, comincia a dissociare la realtà, trasfigurandola in allucinazioni, e la conclusione nella neve. Forse non è la più bella interpretazione di James Mason, come è stato scritto da qualcuno, semmai una delle tante riuscite da quello che è stato, ad avviso del sottoscritto, tra i più grandi attori del cinema britannico e americano di sempre.
IL CARABINIERE A CAVALLO ( I, 1961)
DI CARLO LIZZANI
Con NINO MANFREDI, Peppino De Filippo, Annette Stroyberg, Maurizio Arena.
COMMEDIA
Il carabiniere a cavallo Bartolomucci ha deciso di sposare l'amata fidanzata Letizia, e per motivi di regolamento, vuol farlo in segreto, senza che si sappia: la ragazza va a Roma con padre e madre, e il protagonista convoca come testimone ( anzi, "testimonio", come dicono nei dialoghi) l'amico e collega, il brigadiere Tarquinio. Nello stesso giorno, però, gli rubano il cavallo, Rutilio, e dopo essersi sposato in fretta e furia, e alla chetichella, dovrà darsi da fare non poco per cercare di recuperare l'equino, accompagnato dalla neo-moglie e dall'amico Tarquinio. Scritto da due cui il cinema italiano deve non poco, come Ruggero Maccari e Ettore Scola, e diretto da un autore solitamente versato verso l'impegno, come Carlo Lizzani, "Il carabiniere a cavallo" è uno dei primi ruoli da attore principale per Nino Manfredi, cui fa da spalla sapiente Peppino De Filippo, che a tratti scippa l'attenzione al collega più giovane. Il film è gradevole, mai caustico e tutto sommato risulta simpatico: quel che colpisce, semmai, è, visti i nomi in gioco, la leggerezza di una commedia di purissimo intrattenimento, senza risvolti sociali o politici. Ma soprattutto, se appunto sia Maccari che Scola e Lizzani sanno tratteggiare un carattere con pochi minuti, e a volte, pochi secondi, vedi il padre della sposa scorbutico al limite della cafonaggine, che d'improvviso svela un'affettuosità rustica, è il tono della narrazione, forse, rispetto all'anno in cui la pellicola è uscita, molto più in linea con commedie di una decade prima. Appaiono anche Luciano Salce nei panni di un prete sbrigativo, Aldo Giuffrè come giovane ufficiale, e Maurizio Arena come carabiniere propenso alle uscite con ragazze libere.
DUE TIPI INCORREGGIBILI ( Tough guys, USA 1986)
DI JEFF KANEW
Con KIRK DOUGLAS, BURT LANCASTER, Eli Wallach, Charles Durning.
COMMEDIA
Kirk e Burt sono stati due pilastri di Hollywood: due grandi, simboli anche di un cinema liberal e capace di spaziare dal disimpegno puro al film d'autore, trattando temi come la democrazia e i pericoli che possono insidiarla, la legge e l'avventura pura. Nonostante sette film insieme, sembra che, nonostante le analogie tra i due, non fossero neanche amici per la pelle, e che i produttori li mettessero insieme spesso perchè funzionavano al box-office, e anche perchè, in una forma di competizione leale, si impegnassero più che mai per primeggiare l'uno sull'altro. Tra i lungometraggi che li hanno visti insieme, come dimenticare, per fare due esempi, "Sfida all'O.K. Corral" e "Sette giorni a Maggio"? Questo fu l'ultimo titolo che li vide abbinati nello stesso cast: piuttosto in avanti con gli anni, interpretano infatti due ex-rapinatori che escono dal carcere dopo una condanna trentennale, per aver cercato di fare un colpo su un treno che porta in Messico. Naturalmente, dagli anni Cinquanta alla metà degli Ottanta il mondo è cambiato tantissimo, e i protagonisti sono a disagio con la nuova realtà: divenuti vecchi in prigione, cercano di farsi spazio menando qualche sganassone e tentando un reinserimento sociale, più impenitente Douglas che va in palestra e a ballare in discoteca, più malinconico Lancaster, che si ritrova in una casa di riposo dove incontra una vecchia fiamma. Ovviamente, dopo vari tentativi, ed essere scampati anche ad un anziano sicario che tenta più volte di farli fuori, si rimetteranno in società per cercare di compiere la rapina che avrebbero voluto realizzare tanti anni prima. Diretto dal regista de "La rivincita dei Nerds", "Tough guys" è una commediola inoffensiva e piuttosto datata, con i due divi attempati che si danno da fare, ma si vede che nelle scene d'azione c'è un certo sforzo, e se Douglas qua e là mostra qualche intonazione con il genere brillante, Lancaster non è a proprio agio: un certo numero di volti celebri di quegli anni, da Eli Wallach a Darlanne Fluegel, passando per Charles Durning, compaiono in una sciocchezzuola cui non si nega qualche leggero sorriso.
ZONA D'OMBRA- Una scomoda verità ( Concussion, USA 2016)
DI PETER LANDESMAN
Con WILL SMITH, Gugu Mbatha-Raw, Alec Baldwin, Albert Brooks.
DRAMMATICO
"Zona d'ombra" è stato realizzato partendo da un articolo sulla rivista "GQ" circa i danni cerebrali riportati da giocatori professionisti di football americano che hanno causato gravi scompensi, patologie neurologiche e addirittura la morte di molti di loro. Il regista Peter Landesman ha co-scritto questo lungometraggio e lo ha poi diretto, con una star che da tempo cerca occasioni di ruoli drammatici per bilanciare una carriera di successo spesso accomunata a parti brillanti, per quanto riguarda la sfera cinematografica. Will Smith infatti interpreta il patologo Bennet Omalu, nato in Nigeria e trasferitosi negli USA, che dopo aver eseguito autopsie di ex-atleti distrutti dalla loro follia elabora una teoria, che trova riscontro negli esami compiuti, che spiegherebbe con gli effetti dei pesantissimi scontri sostenuti e subiti dai giocatori lungo la carriera, certe cose che la National Football League vorrebbe oscurare. Il film vorrebbe essere di denuncia contro i colossi dello sport che cancellano i principi che li hanno fatti nascere e perseguono la logica del profitto senza tener conto di salute e valori, e la buona fede è ampiamente riconoscibile nel film di Landesman, questo va detto. Però quanta inzuppata di retorica a stelle e strisce sulla bellezza di essere, o diventare, un cittadino d'America, e soprattutto, se è tanto una patria di cose belle e libere, come viene giustificato il potere schiacciante di giganti come appunto la NFL ? Smith interpreta con aria anche troppo ingenua un curioso uomo di scienza che è però religiosissimo, però quando vuole dare spessore a ruoli drammatici, eccede con lo sguardo ferito, meglio di lui figurano gli scafati Alec Baldwin e Albert Brooks. Il film si risolve con tante buone intenzioni, ma se appunto voleva essere un atto di denuncia, o di protesta, lo è con anche troppa timidezza.
UN PAESE QUASI PERFETTO ( I, 2016)
DI MASSIMO GAUDIOSO
Con SILVIO ORLANDO, FABIO VOLO, Carlo Buccirosso, Nando Paone.
COMMEDIA
Ho sempre sostenuto che la commedia deve anche riflettere il momento in cui esce, un aspetto della società che vuole raccontare. E un paesino della provincia meridionale montana, da cui sono fuggiti quasi tutti, compreso il lavoro, racconta anch'esso l'Oggi: il soggetto vuole che ci sia una possibilità di far ripartire una quotidianità fatta di occupazione, ma l'azienda interessata a comprare esige che ci sia almeno un medico in paese. E quindi, viene fatta una corte fatta di tante bugie e illusioni al chirurgo plastico che, per scontare un'infrazione al volante, deve prestare servizio lì per un mese. E su equivoci pilotati per arrivare al traguardo di ottenere una ripartenza mostrando una non verità ai due fattori utili ( i compratori e il medico), si svolge tutto l'esordio solista di Massimo Gaudioso, che con Cappuccio e Nunziata aveva diretto "Il caricatore" e "La vita è una sola", e tanto cinema d'altri ha sceneggiato (Garrone, Verdone, Vicari, Di Gregorio...). Remake italiano de "La grande seduzione", commedia francese di tredici anni fa, "Un paese quasi perfetto" ha il pregio della leggerezza e di una strizzata d'occhio al neorealismo rosa d'antan, un cast di facce giuste, anche se duole dirlo, ma Silvio Orlando rifà se stesso, e meglio risultano Paone e Buccirosso; però l'aria da favola d'altri tempi è sul confine esilissimo dello stucchevole, e un finale cui vuol venire impressa per forza una spinta positiva, a tre minuti dai titoli di coda, è troppo anche per chi vuole più che altro svagarsi al cinema e uscire dalla sala con un sorriso. In pratica, una versione in montagna di "Benvenuti al Sud", con, in più, l'ammicco truffaldino all'italiana, per quanto a fin di bene.
DUPLEX- Un appartamento per tre ( Duplex, USA 2003)
DI DANNY DE VITO
Con BEN STILLER, DREW BARRYMORE, Eileen Essell, Harvey Fierstein.
COMMEDIA
Coppia di sposini freschi freschi, lui scrittore di successo non strabordante, lei giornalista, con pochi soldi vorrebbero metter su casa, ma appunto, la relativa disponibilità economica limita di molto le loro scelte. Trovano, a Brooklyn, un appartamento bifamiliare, da condividere con un'arzilla anziana: naturalmente, la convivenza si rivelerà molto più che problematica, dato che la vecchietta ha un carattere bizzoso e pretese oltre il sopportabile... Canovaccio non nuovo, la convivenza faticosa con una persona di età avanzata, con l'attore che più, negli ultimi vent'anni, è stato messo in situazioni disagevoli, nel cinema brillante americano, Ben Stiller, qui in tandem con Drew Barrymore. Il film ha qualche trovata che fa sorridere, più spesso cerca di provocare la risataccia con cose anche repellenti, come esigeva il galateo del "politically uncorrect", di gran moda dopo l'exploit dei fratelli Farrelly, e con l'esplosione di nuovi comici quali lo stesso Stiller, Jack Black, Vince Vaughn, Owen Wilson e altri. Però, nonostante la "sorpresina" finale, il film non diverte granchè, e la vecchina infernale alla lunga diventa più odiosa che divertente. Stupisce un pò che Danny De Vito, partito regista con occhio cinefilo (la parodia di "Delitto per delitto" rappresentata dalla sua opera prima "Getta la mamma dal treno") e con una delle più caustiche commedie sulla coppia e sul divorzio mai girate in America, si sia un pò troppo rilassato cercando la risata grassa a tutti i costi, al punto da far sembrare quasi questo come un film girato su commissione.
DOVE ERAVAMO RIMASTI ( Ricki and the Flash, USA 2015)
DI JONATHAN DEMME
Con MERYL STREEP, Mamie Gummer, Kevin Kline, Rick Springfield.
COMMEDIA/DRAMMATICO
In età matura ma ancora rock and roll abbastanza da indossare un "chiodo" come uniforme e cantare e suonare la chitarra elettrica sul palco di un locale di provincia in California, sebbene di giorno sia cassiera in un minimarket, Linda Brummel, in arte Ricki Rendazzo, deve tornare a Indianapolis perchè la figlia maggiore ( ne ha altri due), dopo il divorzio, è andata in depressione e ha tentato il suicidio: lì ritroverà il marito alto borghese che si è rifatto una famiglia con la seconda moglie, la diffidenza ed il rancore dei figli, e il generale disprezzo della comunità verso di lei, madre e sposa inaffidabile. Jonathan Demme, a cui comunque va riconosciuto di aver realizzato una "dramedy", sottogenere oggi assai in voga a Hollywood per l'equilibrio tra dramma e commedia, diciamo una commedia con toni e argomenti anche seri, ben confezionata, nonostante la grave malattia che lo ha colpito, è un autore che ha saputo sempre mettere al centro delle storie che ha raccontato personaggi problematici, in credito con la realtà, tutto sommato meno peggio di come si vedono. Se "Rachel sta per sposarsi" è stato un film che ha saputo raccontare, con gran raccolta di sfumature, il disagio tra una persona "scomoda" in una famiglia, soprattutto in un finale che non rimetteva a posto ogni cosa, ma stabiliva infine chi era davvero meno sensibile agli altri, e peggio, qua si guarda l'altro lato del disco, dato che siamo anche in ambito musicale. E quindi, come una "sciamannata" può provare a riorganizzarsi, anche se i treni migliori sembrano già passati, per avere perlomeno dei buoni rapporti e poter farsi apprezzare: peccato che in un finale edificante, in cui si passa dal disprezzo e dall'atteggiamento scostante con cui viene trattata e guardata la protagonista da tutti ( eccetto, a onor del vero, che dall'ex-marito, cui in una scena molto bella Meryl Streep e Kevin Kline concedono di mostrare la fragilità e i punti incrinati di una facciata perfetta), basti una canzone dedicata ai figli per far ballare tutti insieme e perdersi in un delirio d'abbracci, che risulta abbastanza forzato. Visto quel che il lungometraggio ci ha narrato fino ad allora.