DOLOR Y GLORIA ( Dòlor y Gloria, ES 2019)
DI PEDRO ALMODòVAR
Con ANTONIO BANDERAS, Asier Extendìa, Leonardo Sbaraglia, Penelope Cruz.
DRAMMATICO
"Dolor y Gloria", regia numero ventidue di Pedro Almodòvar, ha riportato alla ribalta il regista spagnolo dopo qualche anno di riconsiderazione critica del suo operato, tanto da far scrivere a qualcuno, come accaduto anche per Tim Burton negli ultimi anni, che si tratta di un regista forse sopravvalutato ( ma "Julieta", il suo penultimo lavoro, aveva conquistato diverse recensioni buone); è un film-confessione, questo, lo sfogo di un autore che ha conosciuto, appunto, dopo anni di grandi successi e l'ebbrezza della consacrazione, anche la deriva della depressione, e molti mali psicosomatici che gli hanno impedito di lavorare al meglio, e fargli firmare di nuovo titoli di spicco. Magari, Almodòvar ha negato di aver fatto uso di eroina come invece fa e non poco il suo alter ego sullo schermo, Salvador, ma molto dell'impasto tra ricordo suggestivo e presente sperso pare proprio derivato dalla vita reale dell'autore. E' un film sostanzialmente onesto, come appunto dovrebbe essere un flusso che porta ad un'apertura circa la sfera personale, con gli amori andati male, la noia del clamore ripetuto all'infinito, le complicazioni dell'età che avanza e non fa reggere il passo: e la nota acuta di malinconia che sgorga dallo schermo è sincera. I tocchi almodòvariani si riconoscono in quegli sguardi femminili che comprendono le situazioni prima, nei dialoghi fluenti, meno nella scansione di un racconto che, verso la parte finale, pare fare il verso al terzo episodio di "Caro diario" di Moretti, quel "Dottori", che era la sterzata "in serio" di un film a questo imparentato. Antonio Banderas ha vinto a Cannes con un'interpretazione di mezzi toni, che, dopo anni in cui il divo spagnolo si era venduto a un cinema commerciale internazionale spesso becero, ne ripristina la buona caratura d'attore, e in un cast che gli ruota smaccatamente intorno, fa buona figura Asier Extendìa, nel ruolo dell'attore-feticcio del protagonista, carico di affetto e rancori verso il suo ex-nume. Il miglior lavoro dell'autore è l'ineguagliato "Tutto su mia madre", questo è uno snodo forse inevitabile per farlo tornare a un cinema di prima qualità, raccontato con lucida, amarognola coscienza di sè.
PSYCOSISSIMO ( I, 1961)
DI STENO
Con UGO TOGNAZZI, RAIMONDO VIANELLO, Edy Vessel, Monique Just.
COMMEDIA
La parodia cotta e mangiata è un fenomeno del cinema brillante italiano, spesso di serie B, quando addirittura di C, che prendeva a modello titoli di successo, realizzandone una versione riarrangiata in chiave ridanciana: lo fece Totò qualche volta, lo fecero Franco e Ciccio molto spesso, e anche Vianello & Tognazzi, coppia vincente in tv fino allo "scandalo" di "Un, due, tre!" che per aver fatto ironie politiche venne defenestrata subitamente dall'Italia democristiana. Qui l'ovvio riferimento, nel titolo, è al thriller di Hitchcock uscito solo un anno prima, ma di attinenze con il film con il Bates Motel c'è solo uno scheletro che gioca un ruolo decisivo nella trama. Lo spunto vuole che due attori mediocri, per equivoco vengono presi per killer professionisti da un uomo abbiente che vuole far fuori la moglie bella e sanguisuga, e che prendano al volo l'offerta per rimettere a posto i conti, chiaramente senza voler perpetrare il delitto, ma la sorte ci mette lo zampino... Curioso che un professionista del cinema popolare come Steno abbia messo insieme un pastrocchio di rara trasandatezza come questo, ma se, appunto, come parodia hitchcockiana non c'è niente, anche come film comico, "Psycosissimo" è un fallimento totale. Uggioso nella trama, recitato male da tutti ( e se Vianello era più che altro a suo agio in televisione, fa specie che Tognazzi impersoni in maniera così artificiosa il proprio personaggio, a cui vengono male perfino gli sbadigli...), petulante nei dialoghi, si annega da solo in una spinta totale verso il dimenticatoio. Un capitombolo in piena regola.
HIGHWAYMEN- L'ultima imboscata
( Higway Men, USA 2019)
DI JOHN LEE HANCOCK
Con KEVIN COSTNER, WOODY HARRELSON, Kathy Bates, Kim Dickens.
DRAMMATICO/AZIONE
Tra i più celebri fuorilegge di tutti i tempi, Bonnie Parker e Clyde Barrow sono stati protagonisti di canzoni, film, strisce a fumetti, in cui è stata narrata la loro avventura criminale, divenuti nel credo popolare/romantico la versione americana e adeguata agli anni Trenta del Ventesimo secolo di Robin Hood, essendo dediti a rapinare le banche che avevano parte della responsabilità della Grande Depressione. La versione più celebre è quella in cui Faye Dunaway e Warren Beatty impersonavano i due banditi, in "Gangster's story", di Arthur Penn, e per Netflix ora è uscito questo "Highwaymen", che narra la storia ma da altra angolazione. Infatti, lo script descrive la caccia ai due dopo che la scia di sangue lasciata dalle gesta a suon di pistole e mitra si era espansa troppo: ne sono conduttori i due sbirri "sorpassati" Frank Hamer e Maney Gault, con l'FBI di J. Edgar Hoover che soffia loro sul collo per concludere al più presto la pratica. Gli uomini di legge non sono meno violenti di coloro che cercano di mettere a freno, come emerge nei racconti sul passato dei due personaggi principali; Bonnie e Clyde vengono mostrati solo per poco, prima della resa dei conti finale, che sarà cruenta e veloce. La mossa intelligente alla base di questo lungometraggio, che è andato direttamente su piattaforma digitale, è appunto il fatto di cronaca divenuto storico narrato da un controcanto, che permette anche uno sguardo su un'America impoverita e dalla miseria incattivita, in mezzo a due guerre svolte in esterno. Illuminato da una fotografia lucida quanto elegante, di John Schwartzman, responsabile negli anni di titoli come "The Rock", "Jurassic World" e "The amazing Spider-Man", il film si dipana per oltre due ore con cadenza mai accelerata, dando tempo di esplorare ambiente e caratteri, ben retta dal professionale John Lee Hancock, qualche alto e basso in carriera, ma capace di confezionare bene un titolo. Nelle interpretazioni dei due poliziotti duri e perspicaci, un Kevin Costner segnato pesantemente dalle rughe e appesantito nel fisico tira fuori una buona interpretazione, che tiene testa al più duttile Woody Harrelson, nelle vesti di uno sbirro dedito all'alcool ma ancora recuperabile.
NOTTE SULLA CITTA' ( Un flic, F 1972)
DI JEAN-PIERRE MELVILLE
Con ALAIN DELON, Richard Crenna, Catherine Deneuve, Riccardo Cucciolla.
NOIR
Sotto una pioggia battente, quattro uomini giungono, a bordo di una macchina, in una località di mare, scendono e rapinano una banca: la sequenza, piuttosto realistica, è messa su con attenzione ai dettagli ( quel rumore di passi, così presente nei film dei primi anni Settanta, così fastidioso, così gradevole...), e in parallelo viene inquadrato un commissario dai modi fascinosi, che rivolge la parola a gente di malaffare per tirar fuori verità che fanno comodo, ma all'occasione adopera la durezza del mestiere. "Notte sulla città" è un noir alla Melville, con dialoghi scarni, tempi dilatati, eleganza di scrittura e pacatezza nella narrazione: il lavoro sugli interpreti è accurato, ponendo una star come la Deneuve in un ruolo importante ma non di prima fila, Cucciolla in una parte interessante che scinde un criminale da un marito che si premura di assicurarsi un nuovo posto in banca, Crenna capo della gang che con l'uomo di legge coltiva un ambiguo rapporto tra diffidenza e cordialità, Delon freddo e seducente. Il film ha una bella prima parte, e convince meno verso la conclusione, quando tira le somme e i conti devono essere regolati, con un finale piuttosto brusco, e ultime immagini senza parole. Jean-Pierre Melville conferma la sua personale via al pòlar, con una scansione della trama che va di pari passo alla costruzione e all'analisi dei personaggi, ma i suoi lavori migliori sono altri.
IL GRANDE SPIRITO ( I, 2019)
DI SERGIO RUBINI
Con SERGIO RUBINI, ROCCO PAPALEO, Ivana Lotito, Bianca Guaccero.
DRAMMATICO/COMMEDIA
Sui tetti di una città rarissimamente visitata dal cinema come Taranto nasce un rapporto strano che arriva a diventare un'amicizia inusitata, tra due persone molto lontane tra loro per carattere, identità e atteggiamento, ma fondamentalmente, due emarginati, come Tonino ( Sergio Rubini), rapinatore di mezza tacca, in fuga dai propri complici e dalla polizia dopo un colpo, la cui refurtiva è in un borsone trafugato da egli stesso, e Renato, un uomo affetto da turbe mentali che vive solo, ha un passato di ricoveri in psichiatria, e la convinzione di essere un pellerossa nato per sbaglio in Puglia. Tredicesima regia in quasi trent'anni per Sergio Rubini, "Il grande spirito" paga l'indecisione della sceneggiatura, sulla propria natura: dramma a sfondo noir con tinte da commedia, o commedia amara con cornice drammatica? Storia di miserie e umane meschinità, il nuovo film diretto e interpretato da Rubini mette in scena un rapporto sdrucito tra due persone che sanno di essere fondamentalmente sole, vivono guardandosi le spalle per un motivo o per l'altro, e scoprono di poter fare affidamento uno sull'altro, anche se la diffidenza è sempre pronta ad affacciarsi. Non sempre risolto benissimo, appunto, nella definizione del genere di cui fa parte, dura decisamente troppo, dato che si avvicina alle due ore di proiezione, quasi del tutto ambientato su tetti di condomini ultraurbani oppure nel basico appartamento di Renato, "Il grande spirito" ha tuttavia momenti indovinati, quadri di disperata o intenerita umanità, e un paio di impennate da crime movie non peregrini, come, ad esempio, la resa dei conti in sottofinale. Nel confronto tra un Rubini spiegazzato, aggressivo e ribollente di rabbia e un Papaleo frastornato, che si incanta ogni tanto, e ha slanci nobili nonostante lo squallore intorno, si ha modo di apprezzare il lavoro di due interpreti di valore, con il secondo che vince ai punti per l'aura drammatica che permea il suo personaggio; le musiche di Ludovico Einaudi sono un valore aggiunto ad un lungometraggio che, come molte altre regie di Sergio Rubini, soffre l'incertezza dell'autore, ma ha dalla sua l'originalità d'approccio nel narrare che ha sempre contraddistinto i titoli diretti dall'attore/autore pugliese, che con "La terra" ha girato, ad oggi, la sua opera migliore.
RICCHI DI FANTASIA ( I, 2018)
DI FRANCESCO MICCICHE'
Con SERGIO CASTELLITTO, SABRINA FERILLI, Valeria Fabrizi, Matilde Gioli.
COMMEDIA
Sergio (Castellitto) e Sabrina (Ferilli) sono due amanti clandestini, invischiati in due relazioni opprimenti, che vorrebbero tanto dare un calcio a una quotidianità che li rende infelici, ma che per le ristrettezze economiche in cui vivono, sono obbligati a non vivere insieme: a lui, geometra che si è dovuto riciclare come carpentiere, i colleghi fanno uno scherzo pesante, facendogli credere di essere vincitore di una cifra enorme come tre milioni di euro, e l'uomo, galvanizzato dalla svolta della sorte, manda al diavolo il datore di lavoro e la moglie rabbiosa, corre dall'amante a cui fa lasciare l'ottuso convivente, salvo crollare poco dopo, alla notizia che la vincita non è mai avvenuta... Come per il suo titolo d'esordio, "Loro chi?", Micciché guarda come modello alla commedia italiana che fu, inquadrando una realtà non sempre gradevole, problematiche di tutti i giorni, gente normale che da un lato risulta sognatrice indefessa, da un altro ha un approccio lazzaronesco alla vita: nel film c'è un tentativo di scrittura migliore della media di molte commedie italiane contemporanee, basate più che altro sul richiamo dell'attore protagonista, e questo è da apprezzare, nel racconto della semiodissea dello strampalato manipolo familiare composto dai parenti dei due protagonisti. Quello che convince meno è come le cose si risolvono in un finale che un Risi o un Monicelli dei tempi d'oro non avrebbero concesso ai propri personaggi, due caratteri come quelli di Matilde Gioli, figlia di Castellitto e ragazza madre nella pellicola, e del figlio della Ferilli, dedito più che altro alla Roma, sono unidimensionali e hanno battute forzate. Certo, si sorride a più riprese, e qualche volta si ridacchia, e non è poco: ma per essere una commedia memorabile sarebbe servita un pò di ferocia in più. Tra gli interpreti, da menzionare la verve grintosa di Castellitto, mentre più prigioniera di un personaggio di popolana ormai presentato in tutte le salse, appare la Ferilli.
LA RISPOSTA E' NELLE STELLE ( The longest ride, USA 2015)
DI GEORGE TILMAN, jr.
Con SCOTT EASTWOOD, BRITT ROBERTSON, Alan Alda, Jack Huston.
DRAMMATICO/SENTIMENTALE
Forse è vero, come ha scritto qualche critico, che i film tratti dai romanzi di Nicholas Sparks sono un sottogenere di quello smaccatamente sentimentale: hanno canoni, schemi, criteri molto riconoscibili, spesso sono segnati da incroci nel tempo e raffronti tra relazioni in tempo corrente e altre del passato, paralleli che si sfiorano, malattie che fanno il loro drammatico corso, e occasioni mancate o colte, con le prime avvenute nel passato, che insegnano appunto a quelle del presente a non essere sciupate. In questo film, tratto da un romanzo dello scrittore uscito appena due anni prima (ad oggi, l'ultimo edito da Sparks), un campione di rodeo che ha avuto un serio incidente, e ciò incide sulla sua vita, dato che prende belle dosi di antidolorifici, conosce una graziosa studentessa in Storia, in procinto di trasferirsi altrove; un anziano signore ha un incidente, viene salvato dal protagonista, e la studentessa comincia a far visita all'uomo, degente in ospedale, che le racconta la storia del suo matrimonio, dando luogo ad un'affezione via via sempre più solida. Il film è scontatissimo, girato in maniera diligente, senza alcun colpo d'ala, con una coppia di attori centrali di bell'aspetto, ma che danno un'interpretazione tutta di superficie, mentre il "vecchio" Alan Alda, pur con molto mestiere, fa presto a risultare il migliore in scena. Come i numerosi film tv da Rosamunde Pilcher, anche queste pellicole si somigliano un pò tutte, sia nelle conclusioni venate d'amarognolo, ma comunque con finali lieti nonostante le asperità delle vite, che mandano a casa più tranquille le affezionate spettatrici.
FATTI DI GENTE PERBENE ( I/F, 1975)
DI MAURO BOLOGNINI
Con GIANCARLO GIANNINI, CATHERINE DENEUVE, Fernando Rey, Marcel Bozzuffi.
DRAMMATICO
Agli albori del Novecento, a Torino, sollevò scalpore il caso Murri, che vide un giovane socialista di probabile buon avvenire, figlio di un luminare simbolo della laicità, mal visto dagli ambienti clericali, e dai cattolici più accaniti, andare a processo come accusato dell'omicidio del cognato, personalità in vista e di opposto credo, per liberare la sorella dalla tirannia del parente acquisito: traendo soggetto e sceneggiatura dal libro che a questa vicenda dedicò il giornalista Enzo Rossi Ròiss, Mauro Bolognini ne approfittò per un racconto che ponesse in evidenza lo scontro tra ultraconservatori filoreligiosi, e progressisti più propensi all'approccio intellettuale verso la società, all'inizio del "Secolo Breve". Contrassegnato da un pessimismo intriso di malinconia, "Fatti di gente perbene" ha nel cast diversi nomi importanti, anche in ruoli laterali come Laura Betti, Corrado Pani, Lino Troisi e Giacomo Rossi Stuart ( c'è anche il figlio Kim, nella parte di uno dei bambini della Murri): formalmente ben curato, nei costumi e nella ricostruzione d'ambiente, è accompagnato da una composizione non tra le più belle di Ennio Morricone, e mette in scena una questione etico-morale che sottolinea l'ipocrisia opportunista di un cattolicesimo parareazionario, abile a sfruttare politicamente uno scandalo a tinte fosche. Però, se l'intento era di coinvolgere a livello di coscienza, la pellicola non coinvolge, tende a mantenere sempre lo stesso tono nella narrazione, e spesso appare più verbosa di quanto richiesto. Il personaggio centrale di Giancarlo Giannini, nella seconda parte, viene sacrificato per dare più spazio a quello che subisce maggiormente la situazione, il docente universitario Murri, che Fernando Rey caratterizza con elegante sconcerto.
AVENGERS: ENDGAME ( Avengers: Endgame, USA 2019)
DI ANTHONY e JOE RUSSO
Con ROBERT DOWNEY Jr., CHRIS EVANS, CHRIS HEMSWORTH, SCARLETT JOHANSSON.
FANTASTICO/AVVENTURA
Due miliardi e duecento milioni di dollari riversati nelle casse della Marvel/Disney in neanche due settimane, fanno sì che il quarto film della serie degli "Avengers" ( in realtà è la seconda metà dell'ultimo capitolo di una trilogia, come risaputo) attenti al primato assoluto di "Avatar" come numero 1 dei box-office di ogni tempo. L'attesa di un anno ha evidentemente fomentato i fans delle avventure degli "eroi più potenti della Terra", e lo scontro decisivo con il cattivo alieno Thanos, titano che, come ogni dittatore, vede del Bene nelle sue deliranti mire, giunge al suo culmine, dopo la conclusione spiazzante di "Infinity War". Quarto titolo marvelliano firmato dai fratelli Russo, "Endgame" nel titolo allude alla parola che sancisce in inglese la fine di una partita a scacchi. Nei primi minuti ritroviamo Clint Barton, l' "Occhio di Falco" che perde la propria famiglia nello schiocco di dita mortale di Thanos, che con il potere delle Gemme dell'Infinito ha appunto spazzato via metà di ogni forma di vita sul nostro pianeta: gli eroi sopravvissuti, ancora sotto shock, cercano prima di darsi una spiegazione, poi di cercare vendetta, infine di provare a cambiare il corso di ciò che è avvenuto. Tre ore di proiezione che però pesano poco, visto che questo episodio contempla anche scene già viste in altri film del Marvel Cinematic Universe, da cambiare per alterare il presente: c'è da dire che i Russo sanno innescare il crescendo narrativo, giungendo ad un'epica battaglia finale che non fa rimpiangere gli ampi scenari di guerra della saga de "Il Signore degli anelli", e che viene dato spazio ad ogni personaggio per spiegarne il ruolo nell'epico scontro contro la minaccia venuta dal cosmo. Qualche buco di sceneggiatura, personaggi che curiosamente abbandonano remore etiche diventando più violenti, senza spiegazione convincente, e qui siamo ai difetti, comunque accettabili per la qualità dello spettacolone, che imprimerà una svolta decisiva nella cronologia della Marvel sezione cinema, e l'ironia che si affaccia ogni tanto non è mai fuori luogo. Analogamente all'ultimo "Star Wars", nel momento cruciale, quando pare che le forze negative abbiano il sopravvento, rimane a fronteggiarle il più coraggioso degli eroi, per vedere ribaltarsi la situazione anche in nome di uno spirito di Giustizia indomito: si può anche sospirare e scuotere un pò la testa, sogghignando di certa ingenuità molto americana, ma è una forma di invito a non perdersi d'animo che, specialmente se rivolto a platee giovani, può avere ascendente e sfidare la troppa rassegnazione e lo strisciante menefreghismo che circolano.