THE WIFE- Vivere nell'ombra ( The wife, USA/GB/SW 2018)
DI BJORN RUNGE
Con GLENN CLOSE, JONATHAN PRYCE, Max Irons, Christian Slater.
DRAMMATICO
Scrittore considerato un nume vivente della letteratura moderna, Joe Castleman riceve la notizia che gli è stato assegnato il premio Nobel della sua categoria: l'emozione unica del raggiungimento di un tale riconoscimento coinvolge anche la consorte, Joan, ed il figlio David. Ma l'ego dell'uomo non è così semplice da gestire, e ne sa qualcosa la solida Joan, che rivive anche il passato della lunga relazione, e le spine che non sono mancate: anche perchè dietro alla gloria arrivata all'uomo, c'è in realtà l'operato di lei, e non solo in senso metaforico. Dietro a "The wife" c'è la scrittura di un paio di donne, l'autrice del romanzo originale Meg Wolitzer, e la sceneggiatrice unica Jane Anderson, e si avverte: non che sia un'opera programmaticamente femminista, però certe attenzioni nell'elaborare una forma di egoismo al maschile molto marcata, sarebbero difficili da reperire in un testo scritto da uomini. Coprodotto tra Stati Uniti, Regno Unito e Svezia, il film di Bjorn Runge ha conquistato buone recensioni un pò dappertutto, e la sua natura di drama contenuto, senza scene in cui il pathos deliberatamente esplode, interessa lo spettatore e dipinge bene i confronti tra personaggi ben delineati, e molto umani, anche e soprattutto nei difetti. Candidata a diversi premi, Glenn Close verrà forse insignita ( un pò tardi) dell'Oscar per la miglior interpretazione femminile, e la merita tutta, nel dar volto e corpo a una figura forte, che dietro la calma di facciata nasconde un tumulto di ferite e di delusioni: forse un titolo fin troppo "scritto", ed in questo la regia pecca di relativa sudditanza, però la sostanziale qualità del film è consistente.
ANGELI CON LA PISTOLA (The pocketful of miracles, USA 1961)
DI FRANK CAPRA
Con BETTE DAVIS, GLENN FORD, Hope Lange, Peter Falk.
COMMEDIA
Classico natalizio divenuto tale negli anni, grazie a ripetute trasmissioni televisive, "Angeli con la pistola" è una commedia sentimentale ambientata nell'America del Proibizionismo, in cui la mendicante ubriacona Annie, che è considerata la portafortuna personale dal gangster Dave "Lo Sciccoso" Conway, grazie alle sue mele rosse che la donna gli regala prima di ogni sua impresa, va in crisi dopo quella che avrebbe dovuto essere una bella notizia: la figlia che la povera donna mantiene in Spagna ritorna negli USA, per presentarle il fidanzato, figlio di un nobile. Spaventata dal fatto che la ragazza possa scoprire la triste verità sulle sue condizioni, e di conseguenza che perda l'occasione di impalmare un giovane aristocratico, Annie va in crisi, ma la aiuta, impensabilmente, "Lo Sciccoso".... Frank Capra, per chiudere la carriera, scelse di rifare se stesso, e girò questo remake di "Signora per un giorno", che aveva diretto ventotto anni prima, con un cast di primo livello ( anche se avrebbe voluto Frank Sinatra o Dean Martin per il ruolo poi andato a Glenn Ford). Di durata molto abbondante, due ore e un quarto che per una commedia potrebbe essere una misura letale, il film comunque è godibilissimo, recitato con classe, via via sfumato dal sorriso alla commozione, a mano a mano che procede verso il finale: magari, con l'occhio meno ingenuo di cinquant'anni più tardi, appare un pò poco probabile che di una persona con un grado di alcolismo della protagonista, nessuno di quelli che l'hanno appena conosciuta, non si renda conto del problema, ma è un relativo dettaglio. Una favola, diretta da un creatore di sogni che contribuì a rendere meno brutale un mondo che aveva affrontato una guerra devastante come la II Mondiale.
DADDY SITTER ( Old dogs, USA 2009)
DI WALT BECKER
Con ROBIN WILLIAMS, JOHN TRAVOLTA, Seth Green, Kelly Preston.
COMMEDIA
Le accoppiate di volti famosi possono risultare indovinatissime o un'inesorabile occasione sperperata, a seconda, ovviamente, di quanto funzioni sullo schermo l'abbinamento di due attori amati dal pubblico. Robin Williams e John Travolta, in una commedia targata Disney, avrebbero potuto far faville, anche se, va detto, "Daddy Sitter" li mette insieme già nella fase declinante della loro parabola artistica. Stranissima coppia, il timido Dan (Williams) ed il più scafato Ray (Travolta) devono concludere un'operazione commerciale con una multinazionale giapponese, ma saltano fuori due figli che il primo ha avuto da una donna che si rifà viva sette anni dopo una notte brava: ne succederanno diverse, con l'ausilio dell'amico scapolo indefesso e apparentemente più pratico.... Nonostante soli 88 minuti di durata, questa commedia per famiglie sembra interminabile, le trovate presunte divertenti sono loffie o si basano su cascatoni, ruzzoloni e palline nei genitali, Williams e Travolta si spendono in smorfie a go-go senza risultare mai, appunto, in sintonia o anche buffi davvero, e la regia smorta di Becker, anche se prova a dare un ritmo frenetico alle gags, non contribuisce di sicuro alla riuscita del filmetto. Si abbonda in sbadigli, si arriva ad un happy end farlocco, e c'è anche una mezza citazione da "Una poltrona per due", a mezzo gorilla, discretamente fuori luogo.
TOTO' CONTRO I QUATTRO ( I, 1963)
DI STENO
Con TOTO', Nino Taranto, Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi.
COMMEDIA
"Pagate, ridete e dimenticate: è la legge di Steno", diceva, recensendo un film del regista romano Tullio Kezich, diversi anni fa. Opinione tagliente, ed anche fin troppo feroce, soprattutto se si confronta un qualsiasi film diretto da Stefano Vanzina con diversi "eredi", compresi quelli naturali, Enrico e Carlo; a riguardare oggi molte commediole da incasso facile e per platee dai gusti semplici, per quanto le si possano trovare datate, è difficile trovarvi dentro volgarità vere, o trovate di bass'ordine per suscitare la risataccia più greve o scontata. Anche un titolo minore come "Totò contro i 4", che riuniva sei spalle storiche del comico napoletano, come Aldo Fabrizi, Nino Taranto, Erminio Macario e Peppino De Filippo, aggiungendo Mario Castellani e Ugo D'Alessio, inventandosi un telaio con Totò commissario che affronta quattro personaggi che ne disturbano l'operato, ovviamente in chiave ridanciana, è un prodotto medio più che mai, ma che ha una sua dignità. E per quanto la parte con Macario sia la più forzata, anche se più costruita delle altre, quella con Fabrizi sembra non ritrovare l'alchimia formatasi tra il romano ed il campano, si ride con i duetti insieme a un esagitato De Filippo e ad un Nino Taranto che parla con un accento pugliese al cubo.
IL TESTIMONE INVISIBILE ( I, 2018)
DI STEFANO MORDINI
Con RICCARDO SCAMARCIO, Miriam Leone, Maria Paiato, Fabrizio Bentivoglio.
GIALLO
Il lanciato imprenditore Adriano Doria ha davvero ucciso l'amante Laura in una stanza di hotel, in cui si è risvegliato accanto al cadavere della giovane donna? Tre ore di tempo è quello che ha l'uomo per ricostruire i fatti, insieme ad una penalista di grido, e cercare una via d'uscita all'accusa di omicidio che lo riguarda: ma c'è un'altra morte di mezzo, un incidente che Adriano e Laura hanno causato, e che hanno cercato di occultare... Remake a giro stretto (l'originale è del 2016) di un thriller spagnolo, "Contrattempo", "Il testimone invisibile" è la quarta regia per il cinema di Stefano Mordini, che durante questa decade ha lavorato anche per progetti televisivi piuttosto seguiti, come "Ultimo". Costruito con un paio di colpi di scena piazzati bene, e con una rivelazione finale, a tal punto, forse non così imprevedibile, il film si segue con interesse, anche se la confezione fin troppo accurata, i dialoghi a volte quasi ovattati, e dialoghi che di naturale hanno poco, non fanno gioco alla riuscita della pellicola (nemmeno un paio di trovate di sceneggiatura piuttosto forzate). Se Scamarcio e la Leone non risultano simpaticissimi fin dall'inizio, il meglio attoriale va cercato nelle prove di Maria Paiato, attrice vista meno di quanto meriti al cinema, e di Fabrizio Bentivoglio, che sta diventando un caratterista lussuoso: giallo che più classico non si può, "Il testimone invisibile" è tuttavia un altro segnale, per fortuna non l'unico, che il tanto agognato "cinema medio", o di genere che dir si voglia, piano piano sta facendo sentire che non è defunto come si è lamentato per anni nei media. Un cinema che per troppi anni ha altalenato tra i lavori d'autore e le più sfacciate operazioni da incasso repentino e sonoro (cinepanettoni & commedie alla moda), non può che trarne giovamento.
IL DIAVOLO E L'ACQUA SANTA ( I, 1983)
DI BRUNO CORBUCCI
Con TOMAS MILIAN, PIERO MAZZARELLA, Margherita Fumero, Savina Gersak.
COMMEDIA
Ex idolo degli stadi, l'ex-calciatore Bruno Marangoni è diventato un truffatore, ma è messo male economicamente, e minaccia di buttarsi di sotto al Colosseo, ma lo dissuade dal gesto il prete don Gaetano, che poi lo ospita nella propria sacrestia, offrendogli di fare l'allenatore del Castelfranco, squadra del paese in cui il sacerdote officia. Va da sè che Marangoni ne combina di tutti i colori, pur facendo un gran lavoro con la compagine, che milita in serie D... Tra i due fratelli Corbucci, Bruno è quello che ha girato i film peggiori, e con Milian ha girato una sequela di titoli, spesso con l'attore di origine cubana nelle vesti dello sbirro Monnezza: qui siamo in una commediaccia con una storia messa insieme a fatica, con un Tomas Milian senza freni, che se la ride e bercia in continuazione, anche se la voce, come risaputo, è quella di Ferruccio Amendola. Ci fa un figurone a confronto Piero Mazzarella, attore lombardo dalla caratteristica voce "chiusa" che sfodera una moderazione utile a far migliorare le scenette cui si assiste, anche se alla fine rimane la solita sequenza di furbate con il furbastro Milian che "manna affanculo", "se rompe li cojoni" e via deliziando con un frasario da burini Doc. D'intorno, un carosello di caratteristi della commedia di serie B con diversi volti noti più del proprio nome, ed una partita finale tra i peggiori resoconti calcistici che si possano ricordare, visti all'interno di un film. Trash e basta.
MACCHINE MORTALI ( Mortal engines, USA/NZ 2018)
DI CHRISTIAN RIVERS
Con HERA HILMAR, ROBERT SHEEHAN, Hugo Weaving, Jihae.
FANTASCIENZA/AVVENTURA
Come negli ultimi anni è andato di moda, la fantascienza è spesso distopica, e tratta da romanzi piuttosto venduti tra le file dei giovanissimi: dietro a questo kolossal coprodotto da USA e Nuova Zelanda, c'è la trinità che dette vita alle due trilogie de "Il signore degli anelli" e "Lo Hobbit", vale a dire Peter Jackson, Philippa Boyens e Fran Shaw, che elabora un libro, firmato Christian Rivers. In cui si vuole che nel futuro le metropoli saranno semoventi ed ingloberanno, per assorbirne energie e proprietà, le città piccole. La metafora di un consumismo folle e cannibale, che si pappa i deboli per far reggere le strutture grandi, è appena accennata: in una trama che contempla l'inseguimento come leit-motiv assoluto ( accadeva anche in "Mad Max:Fury Road", per fare un esempio, ma è cinema di altro livello), si seguono le peripezie di due giovani, Hester e Tom, con lei che porta in volto i segni che motivano il suo odio verso il falso profeta Thaddeus Valentine, e lui che salva questi per poi doversi amaramente ricredere sulle intenzioni del condottiero londinese. In più, giunge a dar la caccia alla ragazza una sorta di cyborg, in realtà un morto vivente semi-meccanico, che pretende da lei la soddisfazione di un'antica promessa. Se le scenografie sono ragguardevoli, e al film non mancano riprese vertiginose a testimoniare lo sforzo produttivo, piuttosto notevole, "Macchine mortali", nonostante le firme illustri sullo script, dice poco di nuovo, con qualche scena spettacolare, ed una rivelazione quasi sul finale, simile ad una che in altri contesti, qualche decennio fa, fu uno shock per l'audience, e qui affonda invece nel banale. La parte più interessante è quella attinente allo zombie-cyborg Shrike, ma nell'economia narrativa del film emana un che di posticcio, e di incluso per cercare di dare più corpo ad una trama abbastanza gracile, nonostante il grosso dispendio economico. E poi, nonostante balzi, lotte, scontri e corse, gli attori sembrano tutti appena alzati dalla poltrona del coiffeur, a dare un tono ancora più posticcio all'intera operazione: si distingue un invecchiato Hugo Weaving tra attori di poco conto, ma ha gioco facile.
LA DOPPIA ORA ( I, 2009)
DI GIUSEPPE CAPOTONDI
Con KSENIA RAPPOPORT, FILIPPO TIMI, Antonia Truppo, Michele Di Mauro.
GIALLO
"La doppia ora" del titolo si riferisce a quando gli orologi, digitali e non, riportano un orario che appunto, per due volte, tra ore e minuti, è lo stesso numero:la cameriera slovena Sonia conosce un ex-poliziotto, Guido, custode di una villa, ad uno "speed date", ed i due approfondiscono la conoscenza, dando vita ad una storia. Ma in un pomeriggio in cui l'uomo e la donna sono seduti in un prato, un rapinatore li aggredisce e spara, uccidendo lui. Da lì in poi, oltre all'elaborazione del lutto, e del trauma che ne consegue, per Sonia cominciano strane visioni, le cresce dentro un'ansia che la inquieta, e appunto allo scoccare della "doppia ora", le sembra di vedere Guido nei posti più impensabili. C'è una spiegazione al tutto, e non tutti hanno detto la verità a proposito della propria identità.... Giuseppe Capotondi, venuto dal mondo dei videoclip per artisti famosi quali Negrita e Ligabue, esordì per il cinema con questo thriller-noir dallo spunto interessante, i tempi non accelerati, ed un occhio particolare per gli attori, che danno interpretazioni piuttosto convincenti. Peccato che nell'ultima parte, quando i misteri trovano chiarimento, la tensione accumulata durante il racconto si diluisca fin troppo, ed il film trovi una conclusione che sul piano sentimentale può essere apprezzabile, meno su quello della suspence. Nonostante le sostanzialmente buone critiche ricevute da questa opera prima, Capotondi poi ha avuto una pausa molto lunga, e dovrebbe far uscire il suo secondo lavoro l'anno prossimo: con le pecche di cui sopra, si nota una discreta mano, tuttavia, nel creare qualche spavento, e nella costruzione della psicologia dei personaggi.
MOWGLI- Il figlio della giungla
( Mowgli: Legend of the jungle, GB/USA 2018)
DI ANDY SERKIS
Con ROHAN CHAND, Matthew Rhys, Freida Pinto.
AVVENTURA
Di grosse produzioni messe su in contemporanea dalle majors è piena la Storia del cinema, vedi, per fare due esempi, i due film su Wyatt Earp del 1994 ("Tombstone" di George Pan Cosmatos, e appunto "Wyatt Earp" di Lawrence Kasdan"), e i due progetti sul rischio-Ebola dell'anno dopo ("Virus letale" di Wolfgang Petersen e l'abortito "Crisis in the hot zone" di Ridley Scott): di solito, chi arriva primo è più facile che vinca la sfida al box-office, e l'altro film ne esce con le ossa rotte, con brutto colpo economico allo studio produttore. Abbiamo avuto la versione live-action de "Il libro della jungla" un paio di stagioni fa, di Jon Favreau, nel filone degli adattamenti con attori ed effetti speciali dei classici dell'animazione Disney (prossimi ad uscire "Dumbo", "Aladdin" e "Mulan"), e Andy Serkis, l'interprete "mascherato" di Gollum, alla sua seconda prova da regista ha voluto trarre una propria lettura del romanzo di Rudyard Kipling più fedele all'opera letteraria, e dai toni meno edulcorati. Se, infatti, si ha occasione di leggere i due "Libri della jungla" dell'autore angloindiano, si avrà modo di constatare quanta amarezza, e quanta malinconia sia nel racconto, ricco di poesia e di inventiva sulle regole della Natura: in questa versione, uscita direttamente sulla piattaforma Netflix, si assiste ad un film avventuroso in cui gli effetti speciali non vengono certo lesinati, essendo gli animali ricreati con l'ausilio della computer graphic, ma con la particolarità dei tratti basati sull'interprete che dà loro voce ed espressione. Se la tigre Shere Khan ha infatti un muso atipico, è perchè è modellato su Benedict Cumberbatch che le dà "volto" e voce nella versione originale. Appassionato e coinvolgente, ben curato nelle parti d'azione, il film non dimentica di sottolineare le crudeltà della Natura, e la durezza del crescere di un giovanissimo, nell'imparare che il mondo ha le sue regole, da accettare o da mettere a rischio la propria assistenza scontrandovisi. Molto meno adatto ai bambini di entrambe le versioni disneyane, raccontando l'avventura di un "cucciolo d'Uomo" che assorbe gli insegnamenti del mondo selvaggio pur non riuscendo a soffocare la propria umana essenza, si schiera nettamente dalla parte della purezza dell'Ambiente, sottolineando la gratuità di certe malvagità umane.
LETTI SELVAGGI ( I/ES 1979)
DI LUIGI ZAMPA
Con MONICA VITTI, SYLVIA KRISTEL, LAURA ANTONELLI, URSULA ANDRESS.
COMMEDIA
Luigi Zampa, tra i molti "professionals" del nostro cinema, come i fratelli Corbucci, o Enzo G. Castellari e altri registi abili nel genere, che comunque sapevano come impostare un film, di solito soddisfacendo le platee popolari, e, ogni tanto, piazzare anche qualche buon colpo al botteghino, è stato tra i più longevi e, tutto sommato, migliori. Ha diretto gente come Alberto Sordi, Nino Manfredi, Aldo Fabrizi, Anna Magnani, Adolfo Celi, Totò, Ugo Tognazzi, Monica Vitti e tante altre colonne del cinema italiano: questo è il suo ultimo titolo, coprodotto con la Spagna. Otto episodi, spesso brevi, con quattro bellissime sulla cresta dell'onda in quegli anni, come la Vitti, Ursula Andress, Laura Antonelli e Ursula Andress, ognuna in due segmenti: seduttrici o sedotte, alle prese con mariti uggiosi, truffatori professionisti, maliarde da noir, vedove sensuali, business women, tutte sfoderano il proprio sex appeal, decisamente notevole, per una serie di scenette in cui l'umorismo dovrebbe fondersi a un pò di erotismo. In realtà piuttosto casto, il filmetto, purtroppo, non chiude in bellezza la carriera di Zampa: benchè ci sia la firma di Tonino Guerra tra gli sceneggiatori, le occasioni di divertimento sono veramente radissime, il ritmo inesistente, e diversi degli episodi sono a livello di barzelletta senza verve. Di una bellezza maestosa la Antonelli, all'apice della propria venustà, simpaticamente nevrotica e distrattamente sexy la Vitti, scultorea la Andress, e morbidamente scoperta la Krystel. Ma tutto ciò è sperperato, appunto, in storielle che nè mordono, nè divertono. L'episodio meno peggiore è quello in cui Monica Vitti e Michele Placido formano un'improvvisata coppia criminale, ma semplicemente perchè sono peggiori gli altri....
BLACK SNOW ( Nieve negra, ARG/ES 2017)
DI MARTIN HODARA
Con LEONARDO SBARAGLIA, RICARDO DARìN, Laia Costa, Federico Luppi.
DRAMMATICO
I rapporti familiari sono materia meno semplice di quanto si possa pensare: in ogni nucleo ci sono piccoli segreti, colpe, condivisioni, momenti meno felici e altri più "normali" che solo il tempo fa apprezzare come "belli". Ne sanno qualcosa i due fratelli Marcos e Salvador: dopo anni di rapporti inesistenti, il primo raggiunge la casa isolata di famiglia, nella Patagonia più rustica, per convincere il fratello a vendere abitazione e territorio ad un gruppo canadese che ha fatto un'offerta considerevole. Ma il parente, di carattere solitario e ostico, sembra possedere quell'irremovibile decisione plumbea che le persone tenacemente ottuse hanno pronta per ogni evenienza. In realtà ci sono spiegazioni sul perchè tra i due fratelli i rapporti siano tesi, e perchè il più anziano dei due ha scelto di vivere in solitudine, ma verranno fuori solo con lo scorrere della trama. Coproduzione argentino-spagnola, diretta da Martin Hodara, aiuto regista in titoli importanti venuti dal paese sudamericano, come "Nove regine", che qui è alla seconda direzione personale, "Nieve negra" (perchè il titolo in inglese?) è un dramma a tinte fosche, benissimo fotografato su un livido biancore della neve, che rasenta il thriller, e che fino a oltre metà gioca bene i passaggi tra flashback e presente. Peccato che verso la fine il film perda un pò di mordente, non sappia cogliere il proprio culmine emotivo, e si stemperi in un finale ambiguo che appare come posticcio. Nel confronto serrato tra i due fratelli Leonardo Sbaraglia e Ricardo Darìn l'intensità del secondo la spunta, però si sta parlando di uno degli interpreti di maggior qualità degli ultimi anni, che, anche quando è alle prese con un copione non del tutto ben congegnato, come in questo caso, sa apportare un valore in più ad un titolo.
IN NOME DEL POPOLO SOVRANO ( I, 1990)
DI LUIGI MAGNI
Con ELENA SOFIA RICCI, MASSIMO WERTMULLER, LUCA BARBARESCHI, ALBERTO SORDI.
DRAMMATICO/STORICO/COMMEDIA
Atto terzo di un'ideale trilogia concepita e diretta da Luigi Magni sul Risorgimento a Roma, con un primo e un secondo ("Nell'anno del Signore" e "In nome del Papa Re"), ancora più incentrati sul ruolo della Chiesa nella fase storica, "In nome del popolo sovrano" narra, come gli altri due film, vicende di singoli elementi legati tra loro, sullo sfondo storico di eventi più grandi. Il giovane nobile Arquati (Wertmuller), figlio di un marchese (Sordi), sposato a Cristina, che da un bel pò ha una relazione con l'ufficiale garibaldino Livraghi (Barbareschi) e, benchè nutra ancora affetto per il marito, un pò lo disprezza per l'inerzia che mostra: ma il consorte, trovatosi in mezzo ad uno scontro, in realtà ha salvato il rivale in amore dall'attacco di un soldato francese, e il fatto cambierà le cose. Intanto appunto le truppe di Napoleone sono giunte a contrastare la giovane Repubblica Romana: in fuga verso Venezia, Livraghi, con il prete patriota Ugo Bassi (Perrin) e il celebre ribelle Ciceruacchio (Manfredi), dovrà evitare controlli e imboscate degli austriaci che presidiano il percorso per giungere in Veneto. Magni ci ha messo tanta passione nel raccontare, con ironia, impeto e sarcasmo una grossa fetta di Storia d'Italia, sempre bacchettando il Potere, che fosse politico o religioso, e guardando con simpatia alla fallibilità di chi voleva sovvertire l'ordine precostituito. "In nome del popolo sovrano" rappresenta, però, uno dei suoi titoli meno convincenti: un pò per i troppi personaggi in scena, che forse distolgono l'attenzione dello spettatore dai fatti principali, un pò per una sceneggiatura, firmata con Arrigo Petacco, che non riesce ad essere fluida e non frammentaria; ed un pò per la scelta non azzeccatissima di alcuni interpreti. Se Wertmuller-Ricci sono una credibile coppia in crisi ( lui figura però meglio), non altrettanto si può dire del ribelle Barbareschi, e se Manfredi fa un bel monologo drammatico, Sordi conferma che sotto la direzione di questo regista si lascia andare troppo all'istrionico, offrendo una caratterizzazione sopra le righe e forzata, così come era risultato interpretando il fratacchione rozzo ma di buon cuore di "Nell'anno del Signore". In più, il film risente di quello stile incerto tra televisivo e cinematografico di cui diversi titoli italiani soffrirono tra la fine degli anni Ottanta ed i primi Novanta.
SE SON ROSE ( I, 2018)
DI LEONARDO PIERACCIONI
Con LEONARDO PIERACCIONI, Elena Cucci, Claudia Pandolfi, Gabriella Pession.
COMMEDIA
Il giornalista web Leonardo Giustini ( cognome scelto in omaggio all'amico Niki, scomparso l'anno scorso) è in uno stallo sentimentale: ha una giovane amica, ma la figlia quindicenne lo pensa infelice, e quindi manda un messaggio alle sue ex importanti, sintetico e diretto "Sono cambiato. Riproviamoci.". Le donne rispondono, e accettano di rivedere l'antico fidanzato: il confronto darà, forse, delle risposte. Arrivato alla tredicesima regia, Leonardo Pieraccioni, a cinquantaquattro anni, continua a vedersi come un eterno ragazzone, sempre con un sacco di tempo a disposizione, un arpeggio ruffiano di chitarra come commento musicale, le donne da scegliere, le gaffes da fare, un pò di filosofia spicciola alla buona a fare da intermezzo. Diciamocelo, ma quale donna quarantenne d'oggi risponderebbe ad un messaggio come quello inviato, ad uno che ritorna senza preamboli, in quel modo? Nei film di Pieraccioni, eppure, può succedere. Da ventitré anni il comico fiorentino racconta le sue favole all'acqua di rose ( visto che siamo in tema), su sentimenti, amicizie e tempo che miracolosamente passa più lento che dal vero, girando più o meno la stessa cosa: se si vuole essere obiettivi, questo è meno peggio di altri suoi lavori ( probabilmente il fondo è stato toccato con "Una moglie bellissima" e "Io e Marilyn", di una noia, un'approssimazione e una balordaggine di trama particolarmente indigeribili), in cui si fa spazio un accenno minimo di malinconia nella scena dell'incontro con la ex ammalatasi giovane di Alzheimer. Ogni personaggio femminile è uno stereotipo, e quella che recita meglio è Claudia Pandolfi nel ruolo dell'ex-moglie, mentre non si capisce come mai la figlia del protagonista, nata e cresciuta in Toscana, parla con l'accento romanesco di molti giovani attori evidentemente non andati a scuola di dizione. Mettiamola così: nell'universo bonaccione di Leonardo Pieraccioni, tutto sommato si campa bene, la gente alla fine non è cattiva, con due battute ci si toglie da una situazione, e alla fine qualcosina pare che cambi, nelle vite dei protagonisti, che, come si diceva un tempo, "mettono la testa a posto". Ovviamente, arrivederci alla prossima puntata, tra un paio d'anni, per un'altra novelletta tendenzialmente piatta, con qualche sorriso estratto a caso, ma fondamentalmente innocua.
BOHEMIAN RHAPSODY ( Bohemian Rhapsody, USA/GB 2018)
DI BRYAN SINGER ( e DEXTER FLETCHER, non accreditato)
Con RAMI MALEK, Gwylim Lee, Ben Hardy, Joseph Mazzello.
BIOGRAFICO/DRAMMATICO/MUSICALE
Nato con qualche trauma ( il cambio del protagonista scelto per impersonare Freddie Mercury, dall'estroso Sacha Baron-Cohen al poco visto al cinema Rami Malek, Bryan Singer che abbandona il film sul finire delle riprese, rimpiazzato da Dexter Fletcher per le rifiniture), arriva il bio-pic su Freddie Mercury anche da noi, dopo aver ottenuto incassi importanti un pò dappertutto. Scomparso nel Novembre del 1991 per le conseguenze di una polmonite, dopo aver contratto l'AIDS, nato Farroukh Bulsara, Mercury, come sappiamo, è stato il frontman di una delle band di maggiore importanza del rock, i Queen. Il lungometraggio narra quindici anni, dal 1970 al 1985, chiudendosi con la trionfale performance a Wembley per lo storico "Live Aid" organizzato da Bob Geldof per mandare aiuti economici in Africa: in mezzo, la formazione del gruppo, l'ascesa ad un successo duraturo, in anni fiorenti di grande musica e personaggi destinati a lasciare un segno robusto, il lasciarsi andare ad uno stile di vita eccessivo, ed un grande amore perlopiù platonico con una donna, nonostante l'omosessualità di Mercury, durato una vita. E' difficile, avendo amato tanto la musica di questo gruppo, dare un giudizio obiettivo ad un'operazione di questo genere: l'appassionato del rock trova inesattezze, non poca confusione cronologica nella pubblicazione delle canzoni più famose, un'importanza forse di troppo ad alcuni dettagli e il tralasciare cose probabilmente più essenziali ( perchè quel buco temporale tra il 1975 ed il 1980?), e magari, viene usato un canovaccio per certi versi non dissimile da quello di "The Doors" di Stone, compreso il via via sempre più scarso interesse per gli altri componenti del complesso. Però, il cinema è anche sintesi, e, specie se si racconta l'arco dell'esistenza di un dato personaggio, si deve sempre tener presente che è la visione di sceneggiatori e registi circa l'assunto. E allora "Bohemian Rhapsody" diventa un'altra cosa. Singer, con una carriera ormai pluriventennale, sa come intrattenere lo spettatore e creare un'aspettativa verso una conclusione che coinvolga. E se il Live Aid fu una tappa importante, ma a quel punto i Queen erano già leggende rock, tutta la sequenza della partecipazione è trascinante, dal tuffo a volo d'uccello in mezzo alla calca, all'appassionata prova di Mercury & Co. . In mezzo ad una rappresentazione accurata, con costumi praticamente identici a quelli dell'istrionico cantante di "We will rock you" e "A kind of magic", Rami Malek forse difetta in carisma, rispetto all'inarrivabile originale, ma infonde un'umanissima fragilità ad un titano della scena, e nel resto del cast si distingue la pacatezza di Gwylim Lee nel dar volto e riccioli a Brian May. E in quell'orgia festosa di gioia del pubblico in delirio e suoni rock epici a Wembley, si rivive l'emozione forte di un mondo che guardava ad un continente povero con compassione e solidarietà, che pensava al futuro con speranza, ebbro di difetti ma tuttavia migliore di un'era in cui rancori, chiusure e aggressività sono la componente maggiore di gente che ha preso il Potere grazie alla paura.