sabato 30 settembre 2017

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ADORABILE NEMICA ( The last word, USA 2017)
DI MARK PELLINGTON
Con SHIRLEY MACLAINE, AMANDA SEYFRIED, Ann' Jewel Lee, Anne Heche.
COMMEDIA/DRAMMATICO
Di Mark Pellington, che aveva piazzato due buoni film a cavallo tra la fine dei Novanta e l'inizio degli anni Duemila, si erano perse un pò le tracce, anche se aveva continuato a girare titoli che qua da noi non sono arrivati, e a produrre pellicole di altri. Dopo aver riscosso un certo interesse all'ultimo Sundance festival, è stato distribuito anche in Italia il suo ultimo lavoro, una dramedy prodotta dalle due protagoniste, Shirley MacLaine e Amanda Seyfried, la Hollywood di ieri e quella di oggi. In scena sono due donne, la ricca e scorbutica Harriett, anziana ex-donna di affari, conosciuta, temuta e mal sopportata nella comunità in cui vive, e la giovane giornalista Anne che compila necrologi nel giornale locale: la prima, dopo un tentativo di suicidio, per la consistente e crescente solitudine, si mette in testa di volere un epitaffio sul giornale che parli bene di lei, per lasciare una traccia positiva, e va a conoscere la ragazza.  Dopo le scintille iniziali, le due instaureranno, in poco più di due settimane, un forte rapporto di amicizia, quasi materno e filiale, e coinvolgono una bimba afroamericana che proviene da una periferia disagiata, nel loro viaggio alle radici di Harriet. Il film è chiaramente improntato su un registro molto femminile, anche se lo firma un uomo, e la complessità dei rapporti tra i personaggi maggiori è ben resa, anche per via di un buon script: essendo soprattutto un film di interpreti, la regia affida molto a primi piani, campi medi, e vola il giusto, tuttavia impostando la pellicola classicamente. Se c'è un difetto da riscontrare al film, è il pistolotto finale, un pò scontato e molto nella tradizione americana del sentimentalismo, di cui sinceramente si poteva fare a meno. Però va riconosciuto a Shirley MacLaine, a ottantatre anni, di avere ancora grinta e disponibilità da grande interprete, e a Amanda Seyfried di non farsi intimidire da una gigantessa del cinema con cui dividere la scena.
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MYSTERE ( I, 1983)
DI CARLO VANZINA
Con CAROLE BOUQUET, Philip Coccioletti, Duilio Del Prete, John Steiner.
THRILLER
Tra due dei risultati commerciali (e anche qualitativi, diciamolo) maggiori della carriera dei Vanzina seconda generazione, Enrico alla sceneggiatura e Carlo alla regia, quali "Sapore di mare" e "Vacanze di Natale", il duo generò questo thriller dalle pretese internazionali, con cast di volti conosciuti anche all'estero. La prostituta di alto bordo Mystère, che insieme ad una collega e amica ha visitato un cliente tedesco, è nell'occhio del mirino: l'amica ha rubato un accendino d'oro dell'uomo che contiene il microfilm in cui si vede chi ha sparato ad un importante uomo politico a Roma, e così, qualcuno che indossa scarpe nere e bianche e porta con sè un bastone che cela una lama mortale, comincia a uccidere per arrivare a lei. Il plot, vecchiotto già di una ventina d'anni per l'estro, non riesce mai a essere credibile: già dal proloogo, in cui si ricrea l'omicidio di John F. Kennedy in piazza di Spagna (!), per poi raccontare una capitale italiana in cui vanno parecchio di moda Ferrari e cabriolet varie, con servizi segreti non probabili, un ispettore che si chiama "Colt" (!!), due sicari di cui uno indossa occhiali neri nella sauna (!!!), ed un finale a Hong Kong premuto a forza e anche scandito malissimo nella messinscena. Aggiungiamo una musica stucchevole e attori mai in parte (Phil Coccioletti nel ruolo del duro ispettore, infatti, solo di bell'aspetto, negli anni a seguire ha fatto solo particine), lo spreco di interpreti come la stessa Bouquet, che, pur stupenda, posa e poco più, ma anche Del Prete e Steiner, che danno corpo a personaggi di cartapesta. Altro da dire? Ah, sì, una pretestuosissima concatenazione di eventi e motivazioni dei due personaggi principali, e una domanda che ti assilla alla fine della proiezione: ma che fine ha fatto il gatto di Mystère?

giovedì 28 settembre 2017

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SOLAMENTE NERO ( I, 1978)
DI ANTONIO BIDO
Con LINO CAPOLICCHIO, STEFANIA CASINI, Craig Hill, Massimo Serato.
THRILLER
In un campo, ancora prima dei titoli di testa, una ragazza viene strangolata: anni dopo, questa visione angosciosa ricorre nella mente del giovane Stefano, che torna a Venezia, dal fratello prete Paolo, dopo un periodo non facile, a causa di un esaurimento nervoso: questi gli racconta un pò di cose di persone che, nell'isoletta ove sorge la sua parrocchia, paiono compiere faccende oscure, trovandosi con una medium per misteriosi motivi. A una a una, a cominciare dalla donna che presiede le sedute spiritiche, tali persone cominciano a venire uccise, e forse la chiave del mistero è un quadro. A detta del suo autore, il titolo originale di questo thriller, prodotto dalla PAC al regista Antonio Bido, dopo il discreto successo del suo "Il gatto dagli occhi di giada", l'anno precedente, fosse inizialmente "Il terrore dietro l'angolo", ma il copioso successo di "Profondo rosso" spinse i finanziatori a dare un nome al film che richiamasse il blockbuster argentiano. Non ce n'era bisogno, dato che di rimandi al primo Argento, con aggiunta sia dell'originale protagonista del film sostituito poi da David Hemmings, Lino Capolicchio (ebbe un grave incidente stradale prima di iniziare le riprese), sia per via della trama, che tra flashbacks che nascondono particolari importanti, sia per il dipinto che, in pratica, racconta il trauma iniziale, e per lo schema dei delitti che si susseguono, siamo in piena celebrazione dell'autore di "Quattro mosche di velluto grigio": "Solamente nero" è un giallo di serie B, con personaggi scritti scialbamente, un plot che si annoda e ha buchi di logica piuttosto ampi, e una soluzione finale scopiazzata da "La donna che visse due volte". Ma questo va oltre la citazione, è proprio scimmiottare. Sul piano interpretativo, per personaggi così mal definiti, c'è anche da capire gli attori, che sembrano spersi nelle inquadrature. Senza nerbo, nè tensione. 

lunedì 25 settembre 2017

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BARRY SEAL- Una storia americana 
( American made, USA 2017)
DI DOUG LIMAN
Con TOM CRUISE, Sarah Wright, Domnhall Gleeson, Jesse Plemons.
COMMEDIA/DRAMMATICO/BIOGRAFICO
Doveva intitolarsi "Mena" ( dal nome della piccola città dell'Arkansas in cui è ambientata buona parte della storia), poi ha assunto il titolo "American Made", in originale, per sottolineare quel che, in molti altri film viene sintetizzato come "Solo in America!", e il set è stato funestato dalla morte accidentale di uno stuntman e di un pilota di aerei ( di cui le famiglie dei deceduti hanno chiesto conto al regista Doug Liman ed alla star Tom Cruise): "Barry Seal" è un bizzarro oggetto, se si vuole, ambientato tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, raccontando, certo in modo romanzato, la abbastanza incredibile storia di un pilota della TWA che venne ingaggiato dalla CIA per sorvolare il centro-America fotografando vari guerriglieri sparsi e incamerando prove per eventuali prove di forza dei governi statunitensi. Però, Seal viene là contattato da un trio di "imprenditori" che gli fanno portare delle robuste forniture di droga ( uno di loro è Pablo Escobar....): costretto a fare il doppio gioco, scoprirà che il tutto è regolato da giochi di equilibrio tra servizi segreti, amministrazione USA e trafficanti, e che questo genera un flusso di denaro esorbitante nelle sue tasche. E' un bizzarro oggetto perchè la sceneggiatura di Gary Spinelli (da tenere d'occhio per la buona qualità dei dialoghi e della struttura narrativa) sta in bilico tra commedia e dramma, con qualche strizzata d'occhio al grottesco, senza perdere di vista un quadro storico-politico che fa figurare l'operazione come la rilettura tra il sarcastico e il deplorante di tutta l'era reaganiana: avvincente anche se forse leggermente troppo lungo, il film di Liman sottolinea quanto sia maramaldo il corso della Storia dietro la facciata ufficiale che finisce nei libri. Tom Cruise fornisce la sua interpretazione più convincente, da molti anni in qua, seppure molto diverso fisicamente dal vero, corpulento Barry Seal ( azzardo, poi vediamo a Gennaio se mi sbaglio: potrebbe trasformarsi in una nomination agli Oscar) e mentre scorrono davanti ai  nostri occhi di spettatori le faccende del Nicaragua dei sandinisti, il tripudio di Ronald l'ex-attore, l'ascesa di Noriega e l'esplosione del narcotraffico colombiano, la pellicola non si fa sfuggire l'occasione di ghignare sull'eterno slogan del "sogno americano". 

domenica 24 settembre 2017

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PIRATI DEI CARAIBI- La vendetta di Salazar
( Pirates of the Caribbeans: Dead men tell no tales, USA 2017)
DI JOACHIM RONNING e ESPEN SANDBERG
Con JOHNNY DEPP, Javier Bardem, Kaya Scodelario, Geoffrey Rush.
FANTASTICO/AVVENTURA
In quattordici anni cinque capitoli, in media uno ogni tre anni ( ma in realtà tra il quarto e questo ne sono scorsi sei), e seppure sulla stampa ogni episodio sia stato accolto da recensioni annoiate, epiteti di sufficienza, e sulla disponibilità di Johnny Depp a riprendere un ruolo che ormai pare non sorprendere più, alla voce incassi si viaggia sempre alti: in tutto il mondo, "La vendetta di Salazar" ha incassato circa ottocento milioni di dollari, il che giustifica un eventuale numero sei della saga. Jack Sparrow qui entra in scena dopo che abbiamo conosciuto il figlio di Will Turner (Orlando Bloom) da bambino, mentre incontra lo spettro del padre, che gli rivela il segreto per liberarlo dalla possessione che lo lega alla nave fantasma su cui ancora attraversa i marosi: nove anni dopo, il giovane Turner si ritrova ad allearsi con Sparrow e la bella Carina Smyth (Kaya Scodelario), accusata di essere una strega, per compiere la propria missione: a dar filo da torcere ci sarà il feroce marinaio fantasma Armando Salazar (Javier Bardem), cacciatore di pirati, con la sua ciurma di zombie, che intende compiere la propria rivalsa contro Sparrow, responsabile della morte sua e di tutto l'equipaggio. In tutto ciò avrà un ruolo anche l'antico nemico del protagonista, Barbossa (Geoffrey Rush). A livello di budget e spettacolarità, la quinta avventura non tralascia niente, fino al rischio di ridondanza visiva, e di una durata fin troppo estesa, con centrotrenta minuti non tutti giustificabili (l'innesco della storia vero e proprio questa volta ci mette tanto a delinearsi), anche se vengono spiegate certe cose del passato di personaggi che conosciamo dal primo capitolo: il marchio disneyano sull'insieme si sente forte, anche per il tripudio di segreti caduti a rivelare un sentimentalismo di ritorno ed un effluvio di riconciliazioni romantiche nel finale, in cui ogni concatenazione sentimentale emerge. Se Johnny Depp, che, non dimentichiamolo, conquistò la prima delle sue tre candidature agli Oscar con la prima, divertente prova ne "La maledizione della prima luna", riveste per la quinta volta i panni bislacchi di Jack Sparrow come un vecchio guitto ripete per l'ennesima volta il proprio numero più celebre su un palco di cabaret, quindi, molto mestiere e poco altro, Javier Bardem infonde troppo gigionismo nel morto vivente cattivo, ben lontano dall'ottimo villain anti007 di "Skyfall", meglio figura Geoffrey Rush nell'ambiguità del suo personaggio,  ora temibile infame, ora inaspettato aiuto. 
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88 MINUTI ( 88 minutes, USA 2007)
DI JON AVNET
Con AL PACINO, Alicia Witt, Amy Brenneman, Leelee Sobieski.
THRILLER
Neanche un'ora e mezza, ed in questo poco tempo, lo psichiatra forense Jack Gramm deve provare a salvarsi la vita, e risolvere un rompicapo, per via del quale un killer sta uccidendo donne di sua conoscenza: in parallelo, un altro assassino che sta per andare incontro alla propria esecuzione, inchiodato da Gramm, che uccideva con le stesse modalità del nuovo serial killer (appese a testa in giù, le donne venivano dissanguate con ferite varie), gli manda minacce per conto di una voce telefonica che potrebbe appartenere, appunto, al secondo maniaco. Da noi è uscito in pratica direttamente "straight to video" questo thriller diretto da Jon Avnet, che ha la particolarità di svolgersi in tempo reale, durando un pò di più del tempo concesso al protagonista per arrivare di fronte al dunque ha il difetto, non da poco, di muoversi fin troppo sul crinale dell'inverosimiglianza dei troppi accadimenti che si susseguono in un lasso temporale più breve della durata di un film medio. Se l'identità di chi si muova dietro alle cattive intenzioni dell'assassino sia abbastanza prevedibile, basta andare per esclusione, nonostante le trappolette messe qua e là dalla sceneggiatura, il climax previsto nel finale è veramente troppo prestestuoso e macchinoso, anche per un thriller all'americana; e la trasformazione di Al Pacino da psichiatra di successo a pistolero è piuttosto forzata. Inoltre, la verifica del non eccelso talento di Avnet da regista, nonostante abbia girato almeno un film interessante quale "Pomodori verdi fritti", è il non aver saputo trarre da uno dei più grandi attori mai comparsi su grande schermo, come Pacino, un minimo di intensità nella scena dello sfogo in auto, sul trauma della propria vita. Certe cose, sono pecche non perdonabili.
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L'ARTIGLIO SCARLATTO ( The scarlet claw, USA 1944)
DI ROY WILLIAM NEILL
Con BASIL RATHBONE, Nigel Bruce, Paul Cavanagh, Gerald Hamer.
GIALLO
Avventura in Canada per l'incrollabile detective di Baker Street ed il suo aiutante fisso: Sherlock Holmes e il dottor Watson sono ad un convegno sul paranormale, quando viene assassinata la moglie di uno dei partecipanti, che si scopre aver precentemente chiesto aiuto all'investigatore inglese con una lettera, perchè si sentiva perseguitata. Punto sul vivo, Holmes si reca con Watson al villaggio ove è avvenuto il delitto, del quale gli abitanti accusano un fantomatico mostro che artiglia le vittime, e compare con un alone luminoso: ovviamente, da razionalista assoluto, Sherlock arriverà alla verità, molto meno suggestiva. Dopo esser stato uno dei più memorabili cattivi hollywoodiani ergendosi a nemico di Robin Hood e di Zorro, impersonati da Errol Flynn e Tyrone Power, il britannico Basil Rathbone divenne, per quattordici film, tutti piuttosto brevi, sotto l'ora e venti di proiezione, Sherlock Holmes, e per molti ancora oggi è stato il migliore a vestire la mantellina a scacchi e fumare la leggendaria pipa del detective inventato da Conan Doyle. Sul piano interpretativo, in effetti, Rathbone ci mette un'ironia sorniona ed un piglio da uomo pratico e abile, che esprime bene l'arguzia holmesiana: meno convincente, forse, la versione paciosa e quasi buffonesca di Watson raffigurata da Nigel Bruce. Certo, visti settant'anni dopo, questi piccoli film mostrano una certa databilità, ma probabilmente l'ambientazione in scenari foschi che rimandano agli scabri fondali visti per esempio negli horror come "L'uomo lupo", dovevano suscitare brividi in più: il cinema va contestualizzato, sempre. Tuttavia, una visione gradevole. 

mercoledì 20 settembre 2017

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BIG WEDDING ( The big wedding, USA 2013)
DI JUSTIN ZACKHAM
Con ROBERT DE NIRO, DIANE KEATON, Topher Grace, Susan Sarandon.
COMMEDIA
Si preannuncia un matrimonio movimentato quello tra Alejandro e Missy: lui è stato adottato dai Griffin, benestanti ormai separatisi da anni, e siccome alla cerimonia sarà presente anche la sua madre biologica, cattolicissima messicana, che disapproverebbe la situazione familiare in cui è cresciuto. Come spesso accade, però, mai fidarsi delle apparenze: difatti, nei giorni che precedono lo sposalizio, succedono diverse cose particolari, sentimentalmente, soprattutto.... Remake americano di una commedia francese, "Mon frère se marie", del 2006, "Big wedding" è uno di quei film annunciati come potenziali grossi successi, visti i nomi "pesanti" nel cast, la confezione comunque da serie A che Hollywood garantisce, che però, per vari motivi, deludono le aspettative, ed invece di ottenere un successo di pubblico consistente, diventano cose anonime, che non lasciano grande impronta nello spettatore. Tourbillon di rilanci amorosi, errori e ammissioni, colpe e scuse, tabù infranti e regole scavalcate, il filmetto spreca interpreti un tempo notevoli, come i vari De Niro, Keaton, Sarandon, e Williams (qui relegato in un ruolo marginalissimo), per via dell'inconcludenza di sceneggiatura, molto superficiale, e regia, appena diligente, di Justin Zackham. Si è visto ben di peggio, certo, qualche sorriso viene ottenuto, ma se De Niro ci mette l'ormai consueta maniera e nient'altro, la Keaton se la cava appena meglio indossando un pò di più il proprio ruolo. Lieto fine appiccicato dopo vari chiarimenti forzati, e non c'era da aspettarsi di più, tutto sommato, visto lo svolgimento. 

martedì 19 settembre 2017

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TEPEPA ( I, 1969)
DI GIULIO PETRONI
Con TOMAS MILIAN, JOHN STEINER, ORSON WELLES, Josè Torres.
WESTERN
"Tepepa" è un peone messicano che, dopo la rèvoluciòn messicana, non condivide il nuovo assetto di potere, e continua a ribellarsi con una brigata di poveracci: cercano di ucciderlo il colonnello Cascorro, emblema della corruzione e dei rivoluzionari presto famelici di agi, e un medico inglese che lo insegue per una vendetta personale. Considerato tra gli western non leoniani più riusciti, e divenuto negli anni oggetto di culto, il film di Giulio Petroni è, ancora oggi, quarantotto anni dopo la sua uscita, un titolo importante: racconto essenzialmente a due voci, perchè per tutta la sua durata si fonda sulla sfida tra il rivoluzionario e l'europeo fuori contesto, che diventa occasionale alleanza, promessa di morte, e forse un impensato rapporto di strano dualismo (ma uno dei due tradirà l'altro quando ne avrà occasione), innesca un passo curioso, tra il picaresco e l'epico, a sfondo marcatamente politico. Per essere un film concepito a ridosso del '68, e viste parecchie conseguenze di quella fase storica, è ancora più amaro e intelligente: il militare che viene scarrozzato sull'automobile che delinea più nettamente il dislivello con il "pueblo", interpretato da un Orson Welles serafico e feroce, infame fino all'ultimo respiro, è un'entità che va oltre il personaggio, e sia Tomas Milian che John Steiner, benchè portino nei propri ruoli molto della loro tipica caratterizzazione, donano un'umanità ed uno spessore consistenti ai due nemici/amici. I quali, oltretutto, sono scritti e resi con ampia gamma di sfaccettature, capaci di passare dalla crudeltà alla pietà, dall'istinto omicida al gesto generoso, con scioltezza veritiera. In questo senso, "Tepepa" è un film correlato al coevo "Quien Sabe?" di Damiano Damiani, con Gian Maria Volontè e Lou Castel contrapposti nello strano rapporto di fiducia e odio tra il messicano e l'uomo venuto dall'Europa: le musiche di Ennio Morricone contribuiscono a rendere memorabile il lungometraggio. La cavalcata finale nelle cui prime file è presente il ragazzo rappresenta anche per Petroni l'ostinazione ispiratrice a credere in una battaglia ancora possibile da vincere.

giovedì 14 settembre 2017

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LO ZIO INDEGNO ( I, 1989)
DI FRANCO BRUSATI
Con GIANCARLO GIANNINI, VITTORIO GASSMAN, Andrèa Ferreol, Stefania Sandrelli.
COMMEDIA
Si presenta come uno "zio" al protagonista Riccardo, titolare di un'industria avviata, che stenta a riconoscerlo, va nei cinema di terza visione a infastidire le ragazze giovanissime, scappa inseguito dai ragazzi, prende calci nel sedere da passanti senza prendersi la briga neanche di vedere chi sia stato, ruba qualche milioncino al nipote benestante, folleggia con parrucca nei ristoranti insieme a prostitute, si fa la bella signora che appunto il "nipote" vorrebbe corteggiare, in quanto amore della giovinezza, piazza un'amante africana ad un matematico della sua età, in cambio di uno scatolone di coperte e tostapane: è Luca, un tempo insegnante, che vive da sciamannato, ha una carica vitale inesauribile, nonostante il cuore gli dia qualche scossone, e incasina la vita del presunto discendente. Da un romanzo scritto di proprio pugno, Franco Brusati trasse questa commedia amara: la firma del regista di "Dimenticare Venezia" era un pò demodè ma ancora prestigiosa, alla sceneggiatura misero mano, con il regista, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, gente che aveva co-firmato anche "Amici miei", tanto per citarne uno, e il cast era composto dal duo Gassman-Giannini, ma con presenze di peso come Andrèa Ferreol, Stefania Sandrelli, eppure il film non funziona. Su tutto il lungometraggio aleggia un che di fuori tempo, dalle musiche demodè, allo stile registico che non sa imporre ritmo alla storia, giungendo affannosamente alla prevedibile conclusione che, in parte, riscatta le follie dell'anziano e spinge al cambiamento il più giovane. Se Giannini non pare mai convinto del ruolo che sostiene, Gassman, va detto, nell'ultima fase della sua carriera cinematografica, non fu al suo meglio ( ma fu il destino comune di tutti e quattro i "colonnelli della risata", onestamente), nonostante la vittoria, per questa parte, del Nastro d'Argento: e le presenze femminili sono rese con troppa superficialità per avere davvero spessore.
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IL CONTE MAX ( I, 1991)
DI CHRISTIAN DE SICA
Con CHRISTIAN DE SICA, ORNELLA MUTI, Antonello Fassari, Galeazzo Benti.
COMMEDIA
Terza versione del canovaccio già divenuto film negli anni Trenta, con Vittorio De Sica che si finge facoltoso signore per entrare nel bel mondo che ammira e invidia ("Il signor Max"), negli anni Cinquanta in cui De Sica senior era appunto il nobiluomo, in realtà spiantato e un pò approfittatore, cui si ispirava il giornalaio Alberto Sordi per introdursi nel jet set ("Il conte Max" A, diciamo), e negli anni Novanta Christian De Sica, per omaggiare l'illustre papà, volle cimentarsi davanti e dietro alla macchina da presa, per il suo secondo film da regista, con questo adattamento alle soglie del Duemila della storia. Pochi mesi De Sica III aveva diretto "Faccione", commediola dalla poca fortuna commerciale, ma che aveva qua e là colto qualche lieve apprezzamento commerciale, e qui girò un titolo in cui poteva essere presente e andare a briglia parecchio più sciolta come attore. Benchè la prima parte sia anche garbata, con il meccanico Alfredo che soccorre una bella modella ( Ornella Muti, ancora splendida, ma per l'età non credibilissima come cover-girl) e, con l'aiuto del distinto conte Max (Galeazzo Benti) la vuol seguire nel suo mondo scintillante, nella seconda la storia si attorciglia su se stessa, si comincia a parlare di "buzzicone"  e a sfornare un pò di parolacce, tanto per chiarire che i tempi son cambiati, e De Sica regista perde il controllo del De Sica attore, regalandogli anche un numero finale da musical che non c'entra assolutamente niente con il resto della pellicola. Remake fiacco e anche evitabile. 

mercoledì 13 settembre 2017

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LA TORRE NERA ( The Black Tower, USA 2017)
DI NIKOLAJ ARCEL
Con  TOM TAYLOR, IDRIS ELBA, MATTHEW MCCONAUGHEY, Claudia Kim.
FANTASTICO/AZIONE
Dagli anni Ottanta ad oggi, "La Torre Nera" è una serie di romanzi, otto finora, che Stephen King ha scritto creando anche connessioni con altre sue opere, che si differenzia da gran parte dei suoi scritti per essere una lunga saga fantasy, da "L'ultimo cavaliere": misto di fantastico, western, avventura e fantascienza, contempla la ricerca dell'edificio del titolo da parte di un "pistolero" (gunslinger, nell'originale) e della sua lotta contro uno stregone denominato l'Uomo Nero. A fronte di tale monumentale racconto, vedere che la trasposizione cinematografica, pensata per anni e rimandata, passata per varie mani registiche, tra cui Ron Howard, si risolve in 88 minuti di film, lascia abbastanza perplessi: premesso che, pur essendo un appassionato di molta della letteratura di King, dopo i primi due capitoli  ho perso l'interesse a seguirla, assistere ad una pellicola che spiega piuttosto frettolosamente le caratteristiche della serie, presenta un conflitto piuttosto già visto tra un solitario giustiziere ed un'incarnazione del Male subdola, e glaciale, e, soprattutto, non avvincendo mai, tentando di ovviare alla sensazione di tirato via della sceneggiatura con un pò d'azione, può apparire uno spreco di tempo. A cosa serve un'operazione del genere? Di fatto non incuriosisce a leggere gli otto libri, non convince gli aficionados, che non potranno non storcere la bocca dinanzi a tanta approssimazione, non fa venire assolutamente voglia di vederne ulteriori sviluppi. Affidato al danese Nikolaj Arcel, che dirige senza personalità un copione piuttosto rabberciato, con effetti speciali non esattamente sbalorditivi: e se Matthew McConaughey compie malefatte sull'onda di un sarcasmo sterile, Idris Elba rimanda ancora una volta la propria grande occasione al cinema, ed è un peccato, perchè è un ottimo attore. Dopo questa malriuscita versione per le sale, si sta pensando a trarre dagli otto romanzi una serie tv: dato che va di moda, potrebbe essere la soluzione migliore. 

lunedì 11 settembre 2017

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ALLA RICERCA DI DORY ( Finding Dory, USA 2016)
DI ANDREW STANTON e ANGUS MACLANE
ANIMAZIONE
COMMEDIA/AVVENTURA
"Alla ricerca di Nemo" fu, con suoi 940 milioni di dollari di introiti lordi, solo nelle sale, tra i film di maggior incasso dei primi anni Duemila, e uno dei pilastri che contribuirono a solidificare il mondo Pixar: motore della storia, la forza di volontà contro tutte le possibilità per riuscire in un intento sbalorditivo, con il pesce pagliaccio Marlin che parte per ritrovare il suo piccolo, Nemo, uscito dall'oceano, con il solo aiuto della femmina di pesce chirurgo Dory, affetta da perdita della memoria breve. Dopo ben tredici anni, che al cinema sono un'eternità e mezzo, intendendo gli spazi tra un episodio ed un altro di una saga, ma i tempi della casa creata da John Lasseter sono sempre molto blandi, eccone il sequel, in cui la stessa Dory si perde, ma in realtà è volontariamente partita per ritrovare i genitori, di cui non sa più niente da quando era poco più che neonata: naturalmente ci sono gli amici Marlin e Nemo, e c'è spazio per nuovi personaggi, come il sagace e divertente polpo Hank. E' vero, sono film di animazione dal potenziale commerciale stratosferico, con l'annessione di gadgets vari, e ricavato da quel che proviene dall'home video e dalle trasmissioni televisive: ma questo dittico, dagli scenari di straordinaria resa ( fondali dai colori sgargianti, cura del dettaglio splendida) è anche un modo gentile di parlare di handicap, fisico o mentale, all'infanzia, e di raccontare una storia con chi, diversamente abile, lo è davvero e può gestire una situazione e non lasciare la scena per forza agli altri. Il polpo Hank, che muta colore e forma, a seconda della situazione, per cavarsi dai guai, meriterebbe un film autonomo, e comunque anche l'anatra squinternata che emette solo il proprio verso, è un personaggio comico con una sua forza distinta. Un sequel ancora più riuscito del primo film.
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ESECUTORE OLTRE LA LEGGE ( Les seins de glace, I/F 1974)
DI GEORGES LAUTNER
Con MIREILLE DARC, CLAUDE BRASSEUR, ALAIN DELON, Nicoletta Machiavelli.
THRILLER/DRAMMATICO
Scrittore e sceneggiatore per la tv, Claude Brasseur incontra la fascinosa bionda Mireille Darc, e si incaponisce nel conquistarla, nonostante le iniziali ritrosie della donna: però, da parte dell' avvocato Alain Delon, che cura gli interessi di lei, comincia una serie di intimidazioni, dapprima quasi cortesi, verso lo scrittore, con consigli fermi e diretti di lasciarla perdere, e più questi continua a corteggiarla, peggio gli vanno le cose... Presentato dal titolo italiano come se fosse un giallo d'azione, con Alain Delon che, appunto, negli anni Settanta, alternava ruoli che lo vedevano spesso con la pistola in mano (i due "Borsalino", "Tony Arzenta") ad altri più introspettivi, "Esecutore oltre la legge" è in realtà una triste storia d'amore e follia, con delle venature gialle, giacchè il mistero che avvolge la Darc, si svela piano piano e la storia viaggia verso un finale che non sarà consolatorio; la regia di Lautner, più a suo agio con pòlars (i gialli francesi) e sparatorie, non coglie forse tutte le sfumature di un racconto che proviene da un romanzo di Richard Matheson, però è sobria, nonostante sia singolare, ad esempio, che nonostante la cupezza dell'atmosfera,e i sempre più evidenti segnali di disagio del suo oggetto del desiderio, il personaggio di Brasseur continui a fare il corteggiatore scanzonato, nonostante avvertimenti, durezze e anche violenza fisica. E anche che il legale di un teso Delon controlli un piccolo clan di tipi da cui prendere il largo, con l'unica motivazione, circa la loro devozione, di una gratitudine per averli tratti da guai giudiziari. Se non fosse per questi inciampi logico-narrativi, "Les seins de glace" potrebbe essere quasi classificato come un melò dai contorni torbidi, ma più delineato e apprezzabile. 

venerdì 8 settembre 2017

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ANNABELLE ( Annabelle, USA 2014)
DI JOHN R. LEONETTI
Con ANNABELLE WALLIS, WARD HORTON, Alfre Woodard, Eric Ladin.
HORROR
Oramai generare un "universo cinematico" è diventato un obbligo per le case di produzione, le quali intorno ad un film che ha avuto successo, mettono in cantiere altre pellicole che narrino il prima, il poi, il parallelamente, e magari narrare la storia di personaggi secondari che, però, sono piaciuti particolarmente al pubblico. Se "The Conjuring" ha avuto un certo successo, risultando tra gli horror più apprezzati dalle grandi platee degli ultimi anni, con tanto di sequel parimenti incassatore, ecco che viene approntato "Annabelle" che racconta ciò che è accaduto precedentemente alla bambola inquietante che compare nel lungometraggio diretto da James Wan: in cui due giovani coniugi, che aspettano una bambina, si prendono appunto in casa la bambola, regalata dal marito alla mogliettina, che ama collezionarle. Di lì a poco, la vita dei due si complica e non poco: l'assalto di due satanisti ad una coppia di vicini li coinvolge pesantemente, dato che poi si accaniscono sulla protagonista, si scatena un incendio nella loro abitazione, rumori e tracce preoccupanti si susseguono, e curiosamente la bambola, che si credeva perduta nel trasloco a Baltimora, viene ritrovata nella nuova casa. E' chiaro che il giocattolo porta male, quando non proprio sciagure, e che urge l'intervento di un esorcista, come da copione. Al di là del fatto che, va bene essere collezionisti, ma mettersi in casa un oggetto orripilante come la bambola Annabelle è piuttosto assurdo, il film non presenta una mezza novità che sia una, procede mettendo in scena ogni prevedibile passaggio tipico degli horror con oggetti o case infestate, non suscita un sobbalzo o almeno un brivido, e spessore dei personaggi a livello zero, o quasi. Naturalmente, essendo costato poco più di 6 milioni di dollari, e avendone incassati circa 250 a livello mondiale, ha già generato un seguito, uscito questa Estate, e mentre si sta producendo il terzo "Conjuring" è in fase di scrittura un altro horror collegato, che parla della suora-spettro vista nel secondo episodio della serie con i due coniugi Warren intenti a liberare dal Male le abitazioni ove vengono chiamati. Ma una cosa è fare i conti, altro è realizzare cinema di qualità.
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CODICE UNLOCKED ( Unlocked, USA 2017)
DI MICHAEL APTED
Con NOOMI RAPACE, Orlando Bloom, Michael Douglas, John Malkovich.
THRILLER/AZIONE
Nonostante il cast altisonante, visto che sul manifesto campeggiano le foto di Noomi Rapace, Orlando Bloom, Michael Douglas, John Malkovich e Toni Collette, e la regia di un "professional" che da più di trent'anni piazza film thriller o d'azione dal buon successo di pubblico ( ha diretto anche un Bond, "Il mondo non basta", il terzo con Pierce Brosnan), "Codice Unlocked" non ha entusiasmato nè pubblico nè critica. Il plot prevede che l'agente CIA Rapace, a Londra per servizio, sia chiamata per interrogare un sospettato jihadista, affiancata da colleghi europei: ma una telefonata di un suo superiore la mette in allerta, per via della tempistica della conoscenza delle informazioni sul prigioniero, ed infatti si sta trovando in una pericolosissima trappola. Da lì in poi è un continuo alternarsi di alleanze improvvise e altrettanto repentini tradimenti, con sparatorie, esecuzioni e fughe. In sè, il film si lascia vedere, pur accumulando le ovvie improbabilità che il genere comporta, però la sceneggiatura è fin troppo assortita di colpi di scena ed eliminazione di personaggi che si pensasse avessero altro sviluppo nel telaio del racconto. A conti fatti, la scena più riuscita della pellicola è quella sopra citata, della scoperta delle false generalità fornite dai "colleghi": nel cast, quello che sembra meno presente per onor di firma è Michael Douglas, mentre John Malkovich gigioneggia come tutte le altre volte che prende parte ad un film tanto per riscuotere.

mercoledì 6 settembre 2017

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PASSION ( Passion, USA 2012)
DI BRIAN DE PALMA
Con NOOMI RAPACE, RACHEL MCADAMS, Karoline Herfurth, Paul Anderson.
THRILLER
Presentato a Venezia con diversi fischi alla proiezione, è il secondo titolo di Brian De Palma a non avere regolare distribuzione nel nostro Paese: la cosa è, più che singolare, quasi incredibile, perchè si parla di un autore tra i maggiori del cinema americano degli ultimi quarant'anni, e comunque, al di là del risultato finale, non trovar posto nei cinema ad un lavoro che, a livello di realizzazione, è al di sopra della media di molti altri film che circolano nel buio delle sale. Il business è una jungla, vero, come ci ha insegnato molto altro cinema: e nel mondo della pubblicità, presentare come proprie idee venute magari ai sottoposti, può essere motivo di attrito, quando non di rancore. Tra Christine e Isabelle si innesca un rapporto strano: la seconda finisce nel letto dell'uomo della prima, ma questa è ancora più infida, giacchè si accaparra le iniziative dell'altra donna, e attua un gioco pericoloso di manipolazione, seduzione e sfida con lei. Ricatti, voyeurismo, tradimenti e sgambetti, per finire nel sangue: in mezzo, troppi psicofarmaci, e rabbia repressa. Per quanto immersi negli eleganti e asettici corridoi dell'ambiente dei pubblicitari di alta categoria, sono gli istinti viscerali e belluini a regolare a fondo le cose. Il problema maggiore di "Passion" sta nel titolo: infatti, di passione vera e propria non c'è gran traccia, in questo thriller laccato, ricco di inquadrature ben costruite, e scandito con sinuosa macchinosità nell'intrigo, che si inerpica fin troppo, fino ad un finale che sbanda nell'onirismo scatenato. Intendiamoci, la traccia di un regista e delle sue ossessioni più classiche, dallo sguardo nascosto, all'erotismo che serpeggia appena ai lati delle inquadrature, e qua e là sfocia in guizzi ben presenti nelle immagini, c'è: ma la concatenazione di eventi del racconto, che è l'immediato remake di un giallo francese di due anni prima, "Crime d'amour" di Alain Courneau, diviene ad un certo punto poco probabile, per la fin troppa elaborazione degli intenti dei personaggi. Del cast, stranamente fuori parte la di solito efficace Rapace, che come oggetto del desiderio di quasi tutti i personaggi principali, lascia più di una perplessità, mentre l'ambiguità di Rachel McAdams, vista la irrecuperabile falsità del suo personaggio, è ben resa. Un'occasione sprecata, ed è un gran peccato, visto che negli ultimi quindici anni De Palma ha girato solo quattro film: e "Redacted" è il migliore di questi.
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FRATELLO DI UN ALTRO PIANETA
( The brother from another planet, USA 1984)
DI JOHN SAYLES
Con JOE MORTON, Steve James, Dee Dee Bridgewater, David Strathairn.
FANTASCIENZA/COMMEDIA
Nel 1984 John Sayles, che, per coerenza, rimarrà uno dei più celeberrimi out-Hollywood di sempre, aveva già preso parte alla sceneggiatura di "E.T." ed era considerato un collaboratore di talento agli script che aiutava a rendere più appetibili e corposi, lavorando su psicologie e accadimenti. Riuscì a realizzare il suo primo film da regista, comparendovi, tra l'altro, accanto ad un giovane David Strathairn nelle vesti del duo di cacciatori alieni che non danno tregua al loro co-planetario (si dirà così?) finito sulla Terra, a New York, che cerca di sopravvivere facendo amicizia con il prossimo. Il buffo tipo ha sembianze afroamericane e viene preso in simpatia da diverse persone, ma deve difendersi dai due che vogliono appunto riportarlo da dove proviene. Dalla parte degli emarginati e dei fuori posto, il film in sè ha delle annotazioni simpatiche, Joe Morton, che rivedremo anni dopo in diverse pellicole, tra cui "Terminator 2" ( è l'ingegnere che ha aperto la strada a Skynet) si presta con silenziosa vivacità, non senza echi chapliniani, al gioco della regia: ma se l'atmosfera naive si accoglie con sorriso, miscelata alla forte databilità della pellicola, che restituisce nettamente l'aria di quegli anni, lo spunto non basta a giustificare quasi due ore di proiezione, che Sayles governa faticosamente, facendo vivere il suo film di episodi, senza curarsi del ritmo, generando non poca noia, alla fine. Annunciato e recensito su uno dei primi numeri di "Ciak", fu distribuito scarsamente in Italia, ma per ambire allo status di "cult-movie" non ha abbastanza spessore. 
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GOODBYE & AMEN (L'UOMO DELLA CIA) ( I, 1977)
DI DAMIANO DAMIANI
Con CLAUDIA CARDINALE, TONY MUSANTE, John Steiner, Renzo Palmer.
THRILLER
Il funzionario dell'ambasciata americana a Roma Carson sembra impazzito: ha abbandonato moglie e figlie, e con un fucile si è barricato in un appartamento, sequestrando una diva del cinema che era lì con l'amante, un giovane collega. Precedentemente, l'americano ha sparato, da perfetto cecchino, ad alcuni passanti, e la faccenda viene affidata in gestione, oltre che alla Polizia, anche all'agente della CIA Dannahey, che conosce di persona il sequestratore, e tutto questo trambusto rischia di compromettere un affaire che sta organizzando in Africa, cioè, l'attentato ad un despota. Tratto dal romanzo "Sulla pelle di lui" di Francis Clifford, è un thriller quasi girato tutto in un ambiente chiuso come l'hotel, che non rientra tra le cose migliori realizzate da Damiano Damiani: la sceneggiatura scritta in coppia con Nicola Badalucco è sbilanciata nel peso dato ai personaggi, visto che per metà abbondante, quello di Claudia Cardinale, l'attrice fedifraga, è sostanzialmente la protagonista, per poi, in pratica, sparire di scena, e ridistribuire maggiore importanza narrativa a quello di Tony Musante, l'agente dei servizi statunitensi. Di fatto, il carattere cui ruota intorno il racconto è quello dell'ambasciatore forse folle, e forse sotto una pressione eccessiva impersonato da John Steiner, bravo caratterista specializzato in parti da mellifluo con sprazzi di schizofrenia, che si accolla il lungometraggio sulle spalle. La regia sembra svagata, e non sa imprimere ritmo ad un film quanto mai asfittico. 

martedì 5 settembre 2017

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DUNKIRK ( Dunkirk, GB/USA/NL/F 2017)
DI CHRISTOPHER NOLAN
Con MARK RYLANCE, FIONN WHITEHEAD, TOM HARDY, KENNETH BRANAGH.
GUERRA
Per gli anglofoni è Dunkirk, per gli altri europei è Dunkerque, teatro di una vittoria dei tedeschi nel 1940, che costrinse le forze britanniche e francesi, con l'aggiunta di belgi e olandesi, a evacuare la zona in una fuga rimasta storica. Anche se ci sono appassionati di Storia che ancora oggi avanzano perplessità sul perchè le truppe germaniche non si siano accanite particolarmente sul nemico in fuga, lasciandogli vie d'uscita inusitate, l'episodio è considerato dagli inglesi come l'inizio del faticoso cammino che comportò anche i bombardamenti in Inghilterra, ma che si tramutò in un trionfo con gli Alleati sul pericolo nazista. Christopher Nolan, dopo aver chiuso la trilogia batmaniana, e aver viaggiato nei flussi temporali e nello spazio con "Interstellar", fa il "suo" film di guerra, appunto su questo episodio importante; pensando che, nel 1977, Richard Attenborough realizzò "Quell'ultimo ponte" su un'altra dèbacle alleata, quella dell'operazione Market Garden, con una frotta di star, facendo sonoramente fiasco, e questo film invece è campione d'incasso in molti Paesi, viene da riflettere su come sia cambiato il film di guerra, ma anche il pubblico che va a vederlo. Perchè, spesso, l'attuale cinema bellico punta i riflettori su apparenti perdite, per celebrare il coraggio anche nei rovesci della sorte e degli esiti del corso dei combattimenti, vedi, oltre a questo titolo, "USS Indianapolis", "Fury" e altri ancora. Costruendo il racconto su piani paralleli ma in realtà confluenti, perchè in più di un'occasione un dato fatto ci viene proposto da due ottiche differenti, "Dunkirk" è un lavoro di livello ottimo, che avvince lo spettatore, gli fa sentire la tensione della battaglia, l'attesa di qualcosa che faccia sperare in un Domani, la paura della morte e la vigliaccheria che marcia al passo del coraggio in certe situazioni estreme: umanista irredento, Nolan sottolinea, come in altre sue opere, l'importanza di ognuno nella chiamata a salvare il Bene comune, e qui, con una sceneggiatura che rende funzionali i dialoghi, scremandoli al massimo, elabora i personaggi mostrandone lo spessore. Tra l'altro, il film contiene scene di battaglia aerea straordinariamente coinvolgenti, e dribbla ogni potenziale retorica, puntando a raccontare maniere di sopravvivere in un quadro di inferno sull'acqua.