UNA DOPPIA VERITA' ( The whole truth, USA 2016)
DI COURTNEY HUNT
Con KEANU REEVES, RENEE ZELLWEGER,Gabriel Basso, Gugu Mbatha-Raw.
GIALLO
Il "court-room drama" è quel sottogenere di giallo, in cui la maggior parte della storia si svolge all'interno di un'aula di tribunale, durante un processo: solitamente, informando via via lo spettatore dell'accaduto, si dà modo, sia a lui che al protagonista, consuetamente un avvocato che rappresenta un buon banco di prova per un attore, di elaborare la soluzione del mistero ed individuare il responsabile del misfatto. Classici di questo tipo di thriller sono "Anatomia di un omicidio" di Preminger, e "Testimone d'accusa" di Wilder: in questo, il legale che difende un giovane accusato di parricidio è impersonato da Keanu Reeves, il quale dovrà penare un bel pò per cercare di trarre in salvo il ragazzo, il quale si è chiuso in un assoluto mutismo. Certo, l'ucciso, via via che scorrono le testimonianze, appare come un odioso despota, capace di cose nefande, ma un omicidio resta tale: come sarà andata, in realtà? "Una scomoda verità", giunto da noi un anno dopo l'uscita americana, è un giallo diligente, che si fa vedere allettando il pubblico di appassionati di gialli, con una discreta idea nella svolta decisiva per sciogliere il nodo dell'intrigo. Non un capo d'opera, si capisce, ma il film tiene viva l'attenzione, seppure lasci forse fin troppe cose sospese, anche se, può darsi, fosse intenzione di sceneggiatura e regia lasciare lo spettatore con qualche dubbio da chiarire. Nel cast si rivede un James Belushi disponibile ad impersonare il tipaccio assassinato, e se Keanu Reeves appare leggermente imbolsito, Renèe Zellweger è quasi irriconoscibile per i troppi interventi di chirurgia estetica, ma recita bene un ruolo ambiguo quanto serve alla definizione del personaggio.
SISSIGNORE ( I, 1968)
DI UGO TOGNAZZI
Con UGO TOGNAZZI, Gastone Moschin, Maria Grazia Buccella, Franco Fabrizi.
COMMEDIA
Terza regia di Ugo Tognazzi, dopo "Il mantenuto" e "Il fischio al naso", scritto da Tonino Guerra, Franco Indovina, e Luigi Malerba, narra la parabola masochista-servile di Oscar, ometto al servizio totale di un avvocato intrallazzone e arraffa-denaro, che ci viene presentato disposto ad andare in carcere per sottrarvi il suo datore di lavoro, reo di aver causato un incidente costato la vita a quindici cinesi. Successivamente, il poveraccio, dopo tre anni ospite delle italiche prigioni, esce e viene "fatto sposare" all'amante del suo boss, il quale così fuga i sospetti della pressante moglie, e si gode la bella ragazza; il protagonista è costretto a vivere in case di lusso, senza il becco di un quattrino, si innamora della "moglie per forza", con la quale si può far vedere solo in pubblico, e viene messo di mezzo dall'avvocato, entrato nella costruzione di una nave, che affonda, anche se fa incassare i soldi di un'assicurazione previamente stipulata, tornando infine in galera. Racconto di un uomo senza storia, nè dignità nè nerbo, che è in pratica un fantoccio nelle mani di un farabutto, che arriva a raccontarsi di essere comunque felice, pur risultando a più riprese un uomo rovinato, "Sissignore" è una commedia velenosa, che non cerca più di tanto di far ridere lo spettatore. Tognazzi regista è più attento ai temi scelti che alle scelte estetiche, pur risultando un diligente impaginatore: nessuno dei suoi titoli è sbagliato, così come nessuno è catalogabile come un film del tutto riuscito. Qui si modera molto come interprete, lasciando più campo all'aggressivo Moschin, che ritroverà qualche anno dopo come compare in "Amici miei".
GHOST IN THE SHELL ( Ghost in the Shell, USA 2017)
DI RUPERT SANDERS
Con SCARLETT JOHANSSON, Takeshi Kitano, Michael Pitt, Pilou Asbaek.
FANTASCIENZA/AZIONE
Uscito nel 1989 il fumetto manga "Ghost in the Shell" è diventato rapidamente un oggetto di culto, i cui diritti per trarne un film versione live action, sono stati acquistati, addirittura nel 2008, da Steven Spielberg , ma ci sono voluti nove anni per arrivare a realizzare questo lungometraggio, tra rimandi e difficoltà varie. La storia del cyborg Mira Killian, che "risorge" in un corpo nuovo, portando con sè solo la propria mente, che diventa un supersoldato della Hanka Robotics, compagnia che assicura la sicurezza nella metropoli in cui la storia si svolge, combattendo il terrorismo. Obiettivo è eliminare il pericoloso Kuze, mente degli insorti; dopo alcune missioni in cui la sua abilità diventa necessaria, però, Mira viene a sapere che quel che le è stato detto circa il suo passato, forse, non rispecchia la realtà... Fino a metà proiezione, "Ghost in the Shell" versione "film" non convince più di tanto, presentando situazioni che emanano dejà vu, dai palazzi con gli ologrammi che rimandano ovviamente a "Blade runner" a inseguimenti e combattimenti che hanno illustri predecessori, il tutto miscelato secondo un'estetica che ricorda fin troppo i più moderni videogames, che imitano il cinema e spesso, graficamente, danno un'idea di ibrido; poi, dalla rivelazione decisiva in poi, il lungometraggio imbocca un versante noir che ne aumenta la qualità, e sottolinea maggiormente l'aspetto umanista del racconto. Certo, vedere che, in una storia ambientata in Giappone, molti dei personaggi principali hanno tratti somatici occidentali, ha causato, a ragione, le proteste di molti fans, anche non orientali: Scarlett Johansson, pur bellissima soprattutto nella versione in calzamaglia rosea, si impegna ma come nipponica rediviva non è credibilissima, così come lo è poco la scienziata Juliette Binoche. Ma sono gli inciampi dei blockbusters odierni, pensati troppo per attrarre spettatori subito, puntando su nomi di peso nel cast, magari destinati ad una manciata di scene, in teoria sopperendo a scivoloni di sceneggiature e distrazioni di regia.
SONG' E NAPULE ( I, 2013)
DI ANTONIO E MARCO MANETTI
Con ALESSANDRO ROJA, GIAMPAOLO MORELLI, Serena Rossi, Paolo Sassanelli.
COMMEDIA/AZIONE
Che in Italia sia scomparso per troppi anni il "cinema di genere" è assodato, e ricordato spesso sia dal critico che dall'appassionato di cinema qualsiasi, e che, per esempio, in Spagna, Francia e Inghilterra, il mantenimento in vita di tale categoria, oltre a costituire una branca del prodotto cinematografico nazionale viva e propositiva, può regalare piacevoli sorprese, consolidare carriere e lanciarne altre. I Manetti Bros., da anni presi in simpatia dalle frange più giovani della critica, ma non sempre aiutati dal sostegno del grande pubblico, sono tra quelli che più ci credono nel soffiare sulle braci della ripresa dell'ambito di cinema che dette vita, ai tempi della gloria, al western, al thriller, al polizi(ott)esco, al film di guerra nostrani: "Song'e Napule", che gioca nel titolo tra l'affermazione in dialetto della napoletanità come modo di essere, e lo sfondo della canzone partenopea più moderna, è una miscela divertente tra cinema d'azione e commedia ben recitata e assai sciolta. La storie contempla un poliziotto che nasce musicista e proprio per quello viene inflitrato in una band molto gradita in città, che suona in ricevimenti e matrimoni, e rischia doppio, perchè potrebbe finire male, ma anche mandare all'aria nuove amicizie e il sentimento che nutre per la sorella del leader del complesso: il tutto perchè il gruppo musicale suonerà ad una festa a cui parteciperà un imprendibile latitante....Le diverse improbabilità che accompagnano lo script, soprattutto nel finale, vengono attenuate dal netto non prendersi sul serio del film, che si fa seguire col sorriso, e inquadra una Napoli non banale: tra gli attori, ottimo Carlo Buccirosso nel piccolo ma succoso ruolo del funzionario, mentre il migliore risulta essere Giampaolo Morelli, che dovrebbe essere meglio sfruttato dai nostri cineasti.
HIGH SPIRITS- Fantasmi da legare ( High Spirits, USA 1988)
DI NEIL JORDAN
Con PETER O'TOOLE, STEVE GUTTENBERG, Daryl Hannah, Beverly D'Angelo.
COMMEDIA/FANTASTICO
Dopo aver sorpreso con "In compagnia dei lupi" e confermato a pubblico e critica l'impressione di aver trovato un nuovo regista di talento, Neil Jordan girò una commedia a sfondo fantastico, con spettri ed un maniero in rovina, con un cast interessante: si vuole che il discendente di una famiglia nobile, che ha sperperato la fortuna del casato, cui è rimasto solo un castello pieno di problemi, indebitato e incalzato dai creditori, organizzi una manfrina per turisti, spacciando l'antica abitazione per un luogo infestato da fantasmi. La cosa riscuote successo, ed un gruppo di ricchi desiderosi di serate con brivido incluso si precipita al castello, per scoprire rapidamente, che è una fregatura, con trucchi miserandi messi su dall'inguaiato ex- rampollo nobile. Però le presenze ci sono davvero, e complicheranno soprattutto la vita sentimentale di alcuni dei viaggiatori. "High spirits" non riscosse molto clamore alla propria uscita, ed il cinema di Jordan ha conosciuto altri migliori livelli: la commediola ha buoni attori, ma, ad esempio, ad un certo punto accantona Peter O'Toole per concentrarsi sulle scaramucce d'amore di Steve Guttenberg e Beverly D'Angelo, alle prese, rispettivamente, con i focosi spettri Daryl Hannah e Liam Neeson. L'umorismo, qua e là gradevole, non è dei più sottili ( Neeson si presenta in scena con flatulenze e rutti), ed il lungometraggio procede non sempre in maniera spedita verso un ovvio lieto fine. Stroncato oltremodo, e con fin troppa veemenza da alcuni critici quando uscì, è un titolo minore di un autore che ha alternato alti e bassi, ma ha colto anche momenti di cinema di alto livello.
ULTIMA NOTTE A WARLOCK ( Warlock, USA 1959)
DI EDWARD DMYTRYK
Con HENRY FONDA, RICHARD WIDMARK, Anthony Quinn, Dorothy Malone.
WESTERN
Ci sono gli western dei grandi spazi, con esodi e praterie, e ci sono gli western ambientati in una città dell'Ovest, generalmente ambientati tra il saloon, la strada principale, l'ufficio dello sceriffo: "Ultima notte a Warlock", ormai un classico del genere, è da ascrivere in questa seconda categoria. Infatti, nella cittadina in cui il rispetto per la legge è praticamente nullo, la sopraffazione è una condizione naturale, e chi spara più veloce ha ragione del prossimo, viene assoldato un pistolero di nero vestito, e dalle colt bordate d'oro, accompagnato da un amico fedelissimo, che zoppica, ma è pronto a porre mano alla pistola per aiutare l'altro: l'ex bandito Gannon, pentitosi della vita dissoluta condotta fino ad allora, diventa sceriffo, e con il mercenario ha un rapporto conflittuale. Un western carico di sottintesi, dal legame, per l'epoca, più o meno scopertamente, omosessuale, tra i personaggi di Fonda e Quinn, al pentito Widmark, che affronta gli sbagli del passato, e per questo viene vituperato, e subisce la violenza di quelli che un tempo erano i suoi alleati, il duello in sottofinale che dà la svolta alla pellicola, e la conclusione pacifista, ne fanno un lungometraggio moderno, fatto più di atmosfere tese che da veri e propri momenti d'azione tipici dei racconti del West. In più, Dmytryk è stato un regista attento alle tortuosità psicologica dei propri personaggi, e immette le passioni nascoste dei caratteri a bilanciare gli sviluppi del racconto. Dell'imponente cast, che assembla tre colossi della tradizione western, difficile dire chi sia il più bravo, tra il dolente Quinn, il combattuto Widmark e il duro Fonda.
MILIONARI ( I, 2015)
DI ALESSANDRO PIVA
Con FRANCESCO SCIANNA, VALENTINA LODOVINI, Carmine Recano, Salvatore Striano.
DRAMMATICO
Alessandro Piva, all'epoca dell'uscita de "Lacapagira", nel 1999, venne salutato come uno dei talenti italiani più promettenti, nel cinema; sono passati oltre quindici anni, e probabilmente Piva non ha avuto la carriera che in molti pronosticavano. Nel suo quarto titolo, narra l'ascesa e la caduta di un clan di camorristi nella Napoli che va dagli anni Settanta, alla conclusione dei Novanta: il protagonista "Alèndèlon" è scisso tra la natura criminale, e le ambizioni ad una vita borghese, sostenuto in questo dalla fidanzata di sempre, poi divenuta moglie, cui piace la vita lussuosa, ma non vuole sapere niente di come il marito provveda alle forti spese. Nello snodarsi di una storia fatta di furti, sparatorie, omicidi e scontro con altri malavitosi, si passa per il terremoto in Irpinia, e la guerra di mafie degli anni Ottanta, in cui i delitti commessi in pieno sole si susseguivano con efficace disinvoltura, Piva, che ha tratto il film dal romanzo di Cannavale e Gensini, dallo stesso titolo, vorrebbe forse fare una sorta di "Romanzo criminale" ambientato nel Napoletano: però il film ha un impianto poveristico che incide non poco sulla riuscita della pellicola ( la sequenza del terremoto vale per tutte, in questo senso, e non è questione di budget, ma di idee, il cinema si può fare anche con trucchi ingegnosi e non costosi), un pressapochismo narrativo che accumula diversi passaggi, tra ellissi e mancati collegamenti, e spesso, manca spessore a diversi personaggi, come la moglie ipocrita eppure fedele di Valentina Lodovini, che si affanna a costruire un carattere inconsistente.
LA MUMMIA ( The Mummy, USA 2017)
DI ALEX KURTZMAN
Con TOM CRUISE, Sofia Boutella, Annabelle Wallis, Russell Crowe.
FANTASTICO/AZIONE/HORROR
Dopo le versioni del '32, con Boris Karloff nei panni dell'arcaico Imhotep, del '58 con Christopher Lee dannato egizio in bende, del '99 con Arnold Vosloo potentissimo redivivo del deserto, nel 2017 la "Mummia" è una bellissima ex-principessa che per gelosia, brama di potere e patto con divinità del Male, viene sepolta viva, dopo essere stata interamente fasciata, e si risveglia nell'Iraq odierno; il soldato e cercatore di antichi tesori Tom Cruise, assieme a un fido commilitone, dopo un'esplosione, in fuga da dei miliziani, ritrovano il sepolcro della donna, che riprende vita per via del sangue di una ferita del protagonista. Da lì in poi, sciagure e malefici fino a Londra, con morti viventi spesso resi tali dal bacio mortale della mummia, e l'intervento di uno studioso che si chiama dottor Jekyll. Questo film è il primo capitolo del progetto "Dark Universe", che la Universal Pictures ha messo su per avere un proprio business da opporre al "Marvelverse" e all'universo Dc Comics della Warner Bros. : visto che la major possiede, da sempre, i diritti di sfruttamento dei "mostri" classici: infatti, poi vedremo "L'uomo invisibile" con Johnny Depp, "La moglie di Frankenstein" con Angelina Jolie e Javier Bardem, e ovviamente nuove versioni di "Dracula" e "L'uomo lupo". In America questo kolossal è partito così così, e sta andando invece assai bene nel resto del mondo: per essere un horror, il tutto è fin troppo buttato sull'umorismo, con risse con gli zombie che diventano un omaggio alla "danza degli scheletri" delle disneyane "Silly Simphonies", il problema pare soprattutto la regia, affidata all'anonimo Alex Kurtzman, che viene da sceneggiature celebri, che non trova mai una condizione definita per una storia che dovrebbe essere costituita soprattutto dal fantastico, mentre invece viaggia a tutta azione, senza due scene consecutive di dialogo. In più, visto che tutto il "Dark Universe" deve essere connesso, viene messo, abbastanza di forza nel racconto, un mister Hyde, impersonato da Russell Crowe, che è a capo di un'organizzazione per trovare e contenere creature mostruose. La bellissima algerina Sofia Boutella stravince il confronto con la carina ma scialba Annabelle Wallis, mentre Tom Cruise appare molto più in forma dell'altra star, Crowe, che non fornisce peraltro una delle sue migliori prove. Il film, di per sè, si lascia vedere, lasciando non molto nello spettatore: ma se oscuro deve essere, questo "Universe", qui siamo più che altro sull'opaco.
STAR TREK BEYOND ( Star Trek Beyond, USA 2016)
DI JUSTIN LIN
Con CHRIS PINE, ZACHARY QUINTO, Simon Pegg, Sofia Boutella.
FANTASCIENZA
Tra serie originale, con William Shatner, Leonard Nimoy & Co., secondo corso con Patrick Stewart, e reboot con Chris Pine e Zachary Quinto nei ruoli di Kirk e Spock, siamo al film numero tredici dell'epopea spaziale dell'astronave USS Enterprise, e del suo equipaggio: i primi due capitoli della versione per il Duemila, diretti da J. J. Abrams, avevano convinto eccome, anche molti spettatori non appartenenti alla folta schiera dei "Trekkies", i fans dichiarati della serie ideata da Gene Roddenberry. Il creatore di "Alias" e "Lost", impegnandosi con la saga "avversaria" di "Star Wars" passa il testimone della regia a Justin Lin, che proviene da un altro franchise di gran successo, quale "Fast & Furious": si comincia con Kirk che non sente più il viaggio nel cosmo con lo stesso spirito d'avventura, e medita di lasciare il comando dell'astronave, e Spock che apprende della morte dello Spock che lo ha preceduto (l'espediente, appunto, è quello delle diverse linee temporali), e anch'egli accusa un momento no. Approdati alla base spaziale di Yorktown, gli uomini del "Carro delle stelle" piombano in una nuova avventura, per rispondere ad una richiesta d'aiuto, stratagemma che nei film di fantascienza, spesso, cela trappole inusitate. Il cambio in regia non giova moltissimo alla serie: Lin imposta su un registro tutto d'azione il racconto, senza concedere quasi tempo di rifiatare nè allo spettatore, nè ai propri personaggi, ma così, il rischio è di metter su uno spettacolo efficace ma rutilante, come in alcuni momenti "Star Trek Beyond" mostra d'essere. Poi, in una saga in cui l'azione certo non è mancata mai, ma è sempre stato concesso spazio alla costruzione delle relazioni tra caratteri, e sull'aspetto teorico della fantascienza, buttarla a pieno ritmo sull'azione, può non convincere. Scorrevole e senza lasciare grande impronta di sè, il terzo film della terza fase della dimensione cinematografica di "Star Trek" appare come un episodio di transizione.
BLACK SUNDAY ( Black Sunday, USA 1977)
DI JOHN FRANKENHEIMER
Con ROBERT SHAW, BRUCE DERN, MARTHE KELLER, Bekim Fehmiu.
THRILLER/AZIONE
Fu il primo best-seller di Thomas Harris, anche a trovare la via del cinema: ispirato ai tremendi fatti delle Olimpiadi del 1972, con l'assassinio degli atleti israeliani da parte di un commando palestinese, "Black Sunday" ci mise poco a vendere i diritti per lo sfruttamento cinematografico. L'agente del Mossad Robert Shaw è a caccia di un gruppo di terroristi che, egli sospetta, sta progettando un grosso attentato negli Stati Uniti: nonostante un'incursione in cui decima, assieme a dei commilitoni, la squadra di attentatori, lascia in vita l'unica donna del gruppo, la quale è proprio la connessione con il complice americano, che può dare via libera al sanguinario intento. Affidata ad un professionista di lungo corso come John Frankenheimer, la versione cinematografica del romanzo di Harris "gira" l'iter della storia, mostrando solo in seconda battuta chi sia, in effetti, l'americano che porterà in fondo l'operazione che vede un dirigibile della Goodyear esplodere sullo stadio che ospita il Super Bowl, mentre, nel libro, è mostrato fin dall'inizio, ed è lui a cercare di contattare la terrorista. Benchè qualche recensore lo abbia definito un thriller di destra, all'epoca della sua uscita, non pare un film molto legato ad una matrice ideologica: il regista di "Va' e uccidi" confeziona un intrattenimento per grandi platee, che, magari, parte con calma, ma giunge ad un finale tirato quanto serve per avvincere; Robert Shaw, grande interprete scomparso troppo presto, è l'eroe d'azione che scavalca regole e limiti per arrivare a sventare la minaccia, Marthe Keller, assai in voga all'epoca, dà riflessi di incertezza a un personaggio negativo, dipinto perlomeno senza manicheismo, ma il più bravo in scena è Bruce Dern che interpreta un carattere nevrotico, infantile e represso con sciolta padronanza della recitazione.
LA TENEREZZA ( I, 2017)
DI GIANNI AMELIO
Con RENATO CARPENTIERI, Giovanna Mezzogiorno, Micaela Ramazzotti, Elio Germano.
DRAMMATICO
Va detto: scegliere di girare un film, oggi, in Italia ( ma non solo da noi), con protagonista un anziano, è già un atto di coraggio, che fa guadagnare simpatia. Però, non è solo questo che valorizza l'ultimo film di Gianni Amelio: nel raccontare questa storia di solitudini incrociate, di sentimenti restii ad emergere, di scontrosità fattasi natura, il regista calabrese ha messo la consapevolezza della maturità, e la sensibilità del saper annotare, tra i dettagli e le righe di comportamenti e atteggiamenti, facendo suo uno spunto venuto dal romanzo "La tentazione di essere felici", di Lorenzo Marone. Ambientato in una Napoli non usuale, di palazzi borghesi un tempo eleganti, oggi sbrecciati e trascurati, "La tenerezza" è un titolo che affascina e coinvolge: sa parlare allo spettatore con silenzi, frasi mozze e non detto, senza la facile scappatoia di scene madri, si noti il momento della tragedia, che dà la svolta al film, che ci racconta il "dopo", con lo sfondo di una notte di tempesta, buia e stremata da una pioggia torrenziale. Amelio è, di base, un anarcoide (in tutti i suoi film dipinge con scarsa simpatia a istituzioni e uomini che dettano le regole), e sembra trovare una forte congenialità con questo avvocato finito in disgrazia, attraversato da un egoismo che ha amministrato tutta la propria vita, che niente può fare per fermare l'affezione verso una famiglia giovane, venuta a vivergli accanto: perchè voler bene a qualcuno non è mai un fatto di convenienza, e implica anche, coscientemente o meno, il rischio di perderlo. Un magnifico Renato Carpentieri (lo dico da oltre vent'anni che è uno dei più bravi attori italiani, rimasi folgorato dal commissario dalla barba lasciata crescere come gramigna di "Puerto Escondido") riveste di ruvidità onesta un personaggio difficile da decifrare, apparentemente anaffettivo, in verità incapace di venire a patti con la propria emotività, che cela al mondo esterno: la regia ha comunque scelto un cast di alto livello, con la fragilità di Germano, l'amarezza della Mezzogiorno, la vitalità della Ramazzotti ed il contributo di Greta Scacchi, che in una sola scena, lascia comunque una certa traccia. La filmografia del regista è, di fatto, una delle più corpose e di qualità del cinema italiano degli ultimi quarant'anni: ma questo lungometraggio, ha quel sapore di vissuto, di riscontrabile, che appartiene alle opere che qualcosa sanno lasciare dentro a chi ci si confronta, dosato con qualche spruzzata d'umorismo di solito rado nei suoi film che equilibra la forte componente di dramma: perchè nella vita di tutti ci sono, e ci sono stati, quei legami a volte faticosi, fatti più di incomprensioni e di frasi arrivate alle labbra e non fatte uscire, cui un inaspettato e forse goffo, ma irresistibile gesto d'affetto può far tanto affinchè riescano a non perdersi.
GOLD- La grande truffa ( Gold, USA 2016)
DI STEPHEN GAGHAN
Con MATTHEW MCCONAUGHEY, EDGAR RAMIREZ, Bryce Dallas Howard, Toby Kebbell.
DRAMMATICO/COMMEDIA
"Basato su una storia FOTTUTAMENTE vera" specifica la frase di lancio sui manifesti: il terzo film da regista di Stephen Gaghan, sceneggiatore di buon successo ("Traffic"), specializzato nell'andare a rovistare nelle pecche dell' "American System", e nel riverniciare i suoi copioni, e le sue regie, di un sarcasmo caustico, è il racconto dell'avventura di due tipi all'apparenza quasi incompatibili, l'imprenditore Kenny Wells ed il geologo Michael Acosta, i quali si recano in Indonesia, all'inizio degli anni Novanta ( il riferimento è alla faccenda Bre-X, del 1993) e trovano tracce di un giacimento aureo dalle potenzialità clamorose, entrando in un giro di affari multimiliardario. Il film è narrato quasi per intero in flashback, durante un'interrogazione dell'FBI a Wells, intrallazzatore con fiuto e istinto da pioniere, a riguardo di conseguenze del ritrovamento che, forse, era una faccenda losca: "Gold", cui il sottotitolo italiano non fa un gran favore, perchè sciupa un pò l'effetto dello svolgimento della storia, è un film che nella prima parte fatica un pò a trovare ritmo, poi, via via, riesce ad interessare lo spettatore con l'intrigo portato in scena: semmai, dopo aver visto "Syriana", da Gaghan forse c'era da aspettarsi qualcosa di più che l'ennesima elegia dell'imprenditore americano che vede la luce dove gli altri non trovano che buio, che grazie al proprio carisma e all'arte del venditore assoluto riesce a "fare il surf" sopra ogni onda di improbabilità: e all'istrionismo scatenato del pur dotato Matthew McConaughey, che per questo ruolo si è appesantito di una ventina di chili, flaccido e untuoso, è preferibile la misura del più pacato Edgar Ramirez, socio forse infido, mentre è molto brava la sempre più lanciata Bryce Dallas Howard, in un ruolo di svampita, meno fatua di quanto possa sembrare. Il lungometraggio funziona meglio nella definizione dello strano rapporto di lavoro, poi divenuta insolita amicizia, tra i due caratteri principali, che come satira velenosa del mondo degli affari e dell'impensabile sua disponibilità a farsi imbrigliare da chi sa, come in un rodeo, cavalcare più possibile il momento buono.
UN DETECTIVE ( anche "MACCHIE DI BELLETTO") ( I, 1969)
DI ROMOLO GUERRIERI
Con FRANCO NERO, Delia Boccardo, Florinda Bolkan, Adolfo Celi.
GIALLO
E' un titolo un pò perso nell'abbondante filmografia di genere a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, quando l'Italia sfornava film a ripetizione, che fossero d'autore, imitazioni, dichiaratamente di cassetta o tentativi di emulare le produzioni internazionali: in questo lungometraggio, conosciuto anche con il titolo "Tracce di rossetto e droga per un detective", oppure "Macchie di belletto", come il romanzo di Ludovico Dentice da cui è tratto, Franco Nero interpreta un funzionario di polizia corrotto e dai metodi molto personali, che accetta dei soldi da un potente principe del foro, affinchè riesca a interrompere la relazione del figlio con una cantante straniera con i documenti non in regola. Ma l'assassinio del discografico con il quale la ragazza è sotto contratto, e la probabilità che la stessa sia l'autrice del delitto, complica le cose a tutti. Molte belle donne in una vicenda torbida, in cui il non cristallino protagonista, tuttavia, trova una sorta di via di riscatto. L'aspetto giallo del racconto non è la cosa migliore di questo film, che ha comunque un suo fascino nel disegnare un quadro in cui nessuno esce pulito dalla vicenda, e si riserva, tuttavia, un finale non scontato. Franco Nero gioca sull'ambiguità del suo personaggio, menando ceffoni al fulmicotone, facendo ora l'infido, ora l'uomo comunque rispettoso delle regole: gli sono intorno varie bellezze dell'epoca, come Delia Boccardo, Florinda Bolkan, e non accreditate, Laura Antonelli e Silvia Dionisio, mentre Adolfo Celi impersona con eleganza un carattere che rivela solo parzialmente le proprie intenzioni. Allestito con maestranze di peso, come le scenografie di Gian Tito Burchiellaro, ed i costumi di Luca Sabatelli, nonchè le musiche di Fred Bongusto, è un discreto giallo con tinte noir non di seconda mano.
L'UOMO, LA BESTIA E LA VIRTU' ( I, 1953)
DI STENO
Con TOTO', ORSON WELLES, Viviane Romance, Mario Castellani.
COMMEDIA
E' probabilmente uno dei film con Totò meno visti da fans e dal pubblico in generale, anche perchè, per ragioni di diritti, sparì negli archivi e fu possibile rivederlo solo negli ultimi vent'anni. Tratto da una novella di Luigi Pirandello, è abbastanza "bizarro", visto che ad un regista espertissimo e commerciale come Steno, capita di dirigere assieme il campionissimo partenopeo della risata, e il talento puro e incontrollabile Orson Welles: il quale nella prima parte aleggia perchè spesso rammentato, e nella seconda contende la scena al comico italiano. Una questione di sentimenti confusi e feriti, in cui un professore che dà ripetizioni al figlio di un capitano di mare, ha una relazione con la moglie di quest'ultimo, e vuole che lei lasci un marito che la trascura e non si fa problemi a sbandierare al mondo che ha un'altra famiglia a Napoli, e che l'altra donna gli concede molto di più, in camera da letto (si noti che siamo nel 1953!), ma il forte temperamento del marito mette soggezione alla donna, che si dispera e segue gli stratagemmi dell'amante per far rompere il matrimonio. Naturalmente, come in ogni commedia che si rispetti, le cose non vanno secondo i programmi. "L'uomo, la bestia e la virtù", rispetto ad altri titoli sia di Steno che di Totò, persegue meno l'effetto brillante, anche se i duetti tra il comico napoletano e la spalla fidata Mario Castellani ottengono il riso in maniera sciolta. Il grande e grosso Orson porta con sè il carisma e l'energia rude necessaria a definire il proprio personaggio, e il film è aggraziato e godibile, con la curiosa accoppiata ben gestita dalla regia. Finale in odor di malinconia, anche se sembra suggerire che, in fondo, con i sentimenti spesso si sbagli a costruire castelli senza base, e che non si devono sottovalutare le occasioni apparentemente meno allettanti.
IL DRAGO INVISIBILE ( Pete's dragon, USA 2016)
DI DAVID LOWERY
Con OAKES FEGLEY, Bryce Dallas Howard, Karl Urban, Robert Redford.
FANTASTICO
Alla Disney va dato atto di credere fieramente nelle proprie iniziative: altrimenti, perchè darsi la pena di fare un remake di una sua produzione, non tra le più remunerative di una lunga serie di grandi successi, e affidarla per di più ad un regista che viene dal cinema indipendente, con effetti speciali importanti e nomi di peso nel cast? "Elliott, il drago invisibile" era uscito nel '77, a tecnica mista, con apparizioni più corte del drago animato in mezzo ad attori veri e propri: la versione 2016 ne riprende lo spunto, con un drago che ha il potere di rendersi invisibile, che stringe amicizia con un bambino, mostrandosi solo a lui, ma l'ambientazione ed il contesto sono molto diversi, visto che il film originale era ambientato in una città di porto, e qua invece la storia si svolge nel verde silvestre. Il drago, che in versione cartoon era un rettilone classico, con un ciuffo rosa, qua ha un muso da cagnone ed è ricoperto di una pelliccia verde che lo aiuta a mimetizzarsi: oltre al vivace Oakes Fegley, da apprezzare il defilato e composto contributo di Redford e la grazia della Howard. Siamo chiaramente nell'ambito di un cinema per bambini, però il film di Lowery è ben fatto, e ha uno spirito educativo, dato che sottolinea la necessità di lasciare ancora spazio alla natura e di non forzare la mano nell'avanzare l'impronta umana dappertutto. I cattivi sono in realtà più stupidi che altro, e verso il finale, all'inevitabile nota malinconica che salva la pellicola da una ricattatoria conclusione in cui tutto scivola via senza problemi, l'ultima sequenza, che rimette alla Natura l'equilibrio di cui il pianeta necessita, non può non suscitare simpatia.
CANI ARRABBIATI ( I, 1974)
DI MARIO BAVA
Con RICCARDO CUCCIOLLA, Lea Kruger, Maurice Poli, George Eastman.
THRILLER
Divenuto cult anche per essere letteralmente sparito da archivi e listini per trent'anni, "Cani arrabbiati" è stato tolto dal limbo distributivo in cui era finito anche e soprattutto grazie all'iniziativa di Lea Kruger, la quale ha contattato colleghi e messo soldi di tasca propria per curarne il restyiling, e fornire ai cinefili l'occasione per visionare un titolo celeberrimo anche per essere stato visto da pochi. Il film è la cronaca di una fuga di malviventi, dopo una rapina, che prendono una donna come ostaggio, dopo averne uccisa un'altra, che si trovava con la rapita nel parcheggio sotterraneo, e sequestrano un'auto condotta da un uomo che ha un bambino molto malato a bordo. In parallelo, la madre del ragazzino che contatta continuamente un commissario, il quale non sa dare particolare conforto e solide risposte. Come il canone del genere prevede, molto dei caratteri in scena è sopra le righe, e, dato che la pellicola è ambientata per tre quarti nell'abitacolo dell'auto sequestrata, parolacce, scatti di violenza, sospetti, accuse e minacce sono a raffica, fino quasi ad un tutti contro tutti che porta la tensione ad un livello interessante. Però, nonostante Mario Bava sia stato uno stimabilissimo autore di genere, mai apprezzato in vita dall'Italia e puntualmente riconosciuto postumo, molto attivo ed abilissimo a lavorare con quel che aveva, "Cani arrabbiati" ha uno script monotono, che fruga nel voyeurismo dello spettatore mostrando lati triviali di un'umanità costretta e concentrata in uno spazio vitale esiguo, sotto pressione e pronta a tirar fuori il suo peggio. Per fortuna, lo sgambetto finale, beffardo e amaramente sarcastico, è ben giocato, e gioca a favore del film: tra gli attori, tra Don Backy e George Eastman, sempre spropositatamente sovreccitati, meglio il più misurato duro di Maurice Poli, mentre Riccardo Cucciolla dà fin troppa pacatezza al suo personaggio. Interessante, anche se poi non si è vista granchè, Lea Kruger.
WONDER WOMAN ( Wonder Woman, USA 2017)
DI PATTY JENKINS
Con GAL GADOT, Chris Pine, Danny Huston, Connie Nielsen.
FANTASTICO/AVVENTURA
Nella costruzione del cineuniverso DC, parallelo a quello Marvel ( ma attenzione, è una tendenza destinata a dilagare, perchè alla Universal stanno allestendo il "Mosterverse", visto che hanno i diritti dei mostri classici, ripartendo con l'imminente "La mummia", con tutti gli altri titoli poi collegati), siamo giunti all'atto terzo, visto che dopo "L'uomo d'acciaio" e "Batman V Superman:Dawn of Justice", con il lungometraggio dedicato all'eroina della casa di produzione, si procede filati verso il superkolossal "Justice League". L'azione è in flashback, visto che all'inizio ci troviamo nell'isola delle Amazzoni, discendenti di Zeus, in cui fiere guerriere si addestrano in maniera perpetua, finchè l'arrivo di un velivolo precipitato, su cui c'è la spia americana Steve Trevor, porta la guerra dentro quell'angolo di mondo privilegiato: è in corso la I° Guerra Mondiale, ed un generale tedesco particolarmente invasato sta cercando, con l'aiuto di una scienziata sfigurata e folle, un'arma finale a base di gas. La giovane Diana salva l'americano dall'annegamento, e decide di accompagnarlo nel compiere la propria missione, nell'intento di far finire il conflitto: convinta che Ares, responsabile di ogni guerra, possa essere fermato e allo stesso tempo avviare una pace senza fine, l'amazzone diverrà Wonder Woman, supereroina capace di balzi straordinari, dotata di una forza sovrumana, che con un lazo che fa dire la verità, una daga ed uno scudo a prova di bomba, e dei bracciali che sprigionano energia devastante, svolgerà un ruolo decisivo al fronte. Il taglio delle avventurone targate DC, rispetto a quelle Marvel, pare essere più fosco ( anche se il personaggio di Pine controbilancia con interventi spesso ironici) e laborioso nell'imbastire le storie, con ostentata cura nell'alternare tratteggio dei personaggi e sequenze d'azione. Se si deve andare per il sottile, risulta strano che una nave entrata nella dimensione-fantasma delle Amazzoni sparisca un attimo dopo senza spiegazione alcuna, e che un drappello eterogeneo, in cui figurano anche un magrebino ed un pellerossa girino per l'Europa in guerra senza che diano nell'occhio; però il colosso, pur con qualche ralenti di troppo, diverte e intende mandare un messaggio anti bellico apprezzabile. Secondo film, dopo quattordici anni dal primo, per Patty Jenkins, "Wonder Woman" puntando naturalmente ad essere uno dei titoli di successo dell'Estate cinematografica, trova nella maestosa israeliana Gal Gadot un buon mix di femminilità, atleticità e charme.