PSYCHO ( Psycho, USA 1998)
DI GUS VAN SANT
Con VINCE VAUGHN, Anne Heche, Julianne Moore, Viggo Mortensen.
THRILLER
Toccare i classici è un azzardo, sempre: mettersi in testa di rifare un titolo di importanza assoluta, poi, difficilmente non espone a ostilità vera e propria da parte degli appassionati di cinema. Tra tante imitazioni, o lungometraggi che risentono evidentemente della visione del film uscito nel 1960, Gus Van Sant volle realizzare un remake di "Psycho", film dirompente che portò avanti di tanto il livello di quel che si poteva far vedere e raccontare al cinema, quanto a violenza, scene impressionanti, morbosità e follia. Inevitabili scetticismo, diffidenza, quando non ostracismo o, addirittura, astio manifesto: in realtà, il regista di "Will Hunting" impagina un rifacimento che, a parte l'utilizzo del colore, e quindi il rosso del sangue che impregna la scena, qualche fuggevole dettaglio del corpo di Marion Crane in più, e alcuni particolari ( il ragno che esce dal naso della mummia della signora Bates), è un calco dell'originale come poche altre volte si è visto nella Storia del cinema. Le differenze maggiori sono nell'interpretazione che Vince Vaughn, rispetto a quella storica di Anthony Perkins, dà di Norman Bates, conferendogli una componente più ambigua sessualmente, e, appunto, nel colore che, rispetto al film di Hitchcock, ha un impatto bizzarramente meno stordente di come arrivava nel bianco e nero del '60. "Psycho" versione 1998 appare più, nella sostanza, come l'esercizio di stile di un cineasta capace e con personalità forte, ma non al punto da creare un proprio stile riconoscibile sempre e comunque: un'ottima impaginazione, una cura molto precisa nel ricostruire inquadrature e scenari, ma è abbastanza normale chiedersi, a pellicola terminata, della reale utilità di un'operazione come questa, che non rilegge il tema originario e non ne scava altre chiavi di lettura.
MA COSA CI DICE IL CERVELLO ( I, 2019)
DI RICCARDO MILANI
Con PAOLA CORTELLESI, Stefano Fresi, Vinicio Marchioni, Claudia Pandolfi.
COMMEDIA
A ruota dopo "Come un gatto in tangenziale", il film italiano che nella stagione '17/18 è risultato il titolo nazionale di maggior incasso, Riccardo Milani & Paola Cortellesi fanno uscire il quarto titolo realizzato insieme, a ridosso delle vacanze pasquali: l'attrice romana impersona qui Giovanna, che ufficialmente è un'impiegata ministeriale, ma in realtà fa parte dei servizi segreti, e sventa attacchi terroristici per campare. Nel frattempo, tra l'impegno come mamma single, e il lavoro che la porta in vari paesi a velocità lampo, viene coinvolta in una cena revival con quelli che una volta erano gli inseparabili compagni del liceo: scoperto che dietro la vita di ognuno c'è una situazione di disagio che assilla gli amici di un tempo, la protagonista si spende per "vendicarli". Se il riadattamento del canovaccio di "True lies" con Schwarzenegger superspia che fingeva di essere un grigio impiegato ( a sua volta già un remake di una pellicola francese, "La Totale") è messo come cornice, il tema di questa pellicola, in realtà, è la lotta ai malcostumi italici, che sembrano aver preso il sopravvento nel nostro quotidiano: gente che parcheggia in terza fila, persone aggressive, ragazzi violenti, eccetera. L'assunto della sceneggiatura è, a giusto titolo, che se ognuno, nel suo piccolo, intervenisse, senza farsi scoraggiare o sopraffare dalla comune maleducazione o inciviltà, la società potrebbe già migliorare; però, considerando che lo spunto è quello di una superdonna che deve confondersi nell'anonimato per compiere le proprie missioni al meglio, pare forse troppa la carne al fuoco per le esili spalle di questa commediola anche simpatica, e animata da buonissime intenzioni, ma un pò pressapochistica nella confezione, con inverosimiglianze a go-go, che se il registro fosse stato più paradossale, avrebbero avuto miglior collocazione. Molti i nomi che animano la nuova commedia italiana in cartellone, da Stefano Fresi, che dà le sfumature migliori al proprio personaggio, a Vinicio Marchioni, Paola Minaccioni, Ricky Memphis, Lucia Mascino e Claudia Pandolfi, con Paola Cortellesi che si spende parecchio, ma le battute che le hanno scritto, forse, non sono all'altezza della verve dell'interprete. Alla fine, meglio di "Mamma o papà?", ma meno divertente del titolo precedente di Milani.
SHAZAM! ( Shazam!, USA 2019)
DI DAVID F. SANBERG
Con ZACHARY LEVI, ASHER ANGEL, Mark Strong, Jack Dylan Grazer.
FANTASTICO/COMMEDIA
Investito da un antico mago, messo a guardia di tale potere, un ragazzino di quindici anni, ospite di una casa famiglia, giacchè ha smarrito la madre da piccolissimo, diventa, pronunciando la parola magica "Shazam!" un supereroe con tuta rossa, un fulmine sul petto e una mantella bianca con tanto di cappuccio, che rimarrà inutilizzato: dopo il non scontatissimo boom di "Aquaman" al box-office a inizio anno, prosegue la sfida DC-Marvel su schermo. Il risultato di "Justice League", che avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni, l'anti "Avengers" non ha convinto i boss del colosso cinefumettoso, e il rilancio di personaggi considerati, erroneamente, di minor interesse quali il semidio acquatico, Wonder Woman, e ora questo eroe capace di volare, lanciare fulmini, invulnerabile a proiettili o altro, e dotato di forza prodigiosa, sembrano riportare in proporzione la lotta economico-spettacolare. Fin dai manifesti è chiaro che "Shazam!" è un'operazione più ilare dei titoli precedenti di casa DC, che il tono punta sul leggero, e che la regia di David F. Sanberg adotta una chiave di commedia fantastica per raccontare la genesi del personaggio e la sua prima battaglia contro una nemesi, quale il dr. Sivana, posseduto dai demoni dei sette peccati capitali. La pellicola svolge abbastanza bene la sua missione di intrattenimento per famiglie, pur senza innescare un coinvolgimento di minimo stupore, anche per lo smorzamento continuo di qualsiasi tensione con battute e ammiccamenti: se, però, l'idea era di creare un rivale per il ben più dissacrante "Deadpool" di casa Marvel, la necessità di puntare ad un target familiare, attenua la carica comica e suscita poco più di qualche sorriso, invece del sarcasmo acido della serie del vigilante ciarliero e sboccato. Probabile un sequel, come accenna la scena dopo i titoli: se Zachary Levi fa anche troppe mossette e cerca continuamente di rimanere simpatico, Mark Strong, altrove interprete di solido valore, fa un cattivo canonico e senza colpi d'ala.
FAST & FURIOUS 6 ( Fast & Furious 6, USA 2013)
DI JUSTIN LIN
Con VIN DIESEL, PAUL WALKER, Michelle Rodriguez, Dwayne Johnson.
AZIONE
Di benzina ne è stata consumata un bel pò, e i motori hanno rombato spesso, da quando la saga dei ladri di macchine di "Fast & Furious" è partita, nel 2000: una delle poche serie che hanno visto crescere progressivamente sia i costi di produzione che il fatturato, e che, via via che gli episodi aumentavano, ha annesso nomi di peso al cast, e aumentato il tasso di spettacolo, per i fans. Inoltre, si cambia spesso locations ove far svolgere le storie, in cui la famiglia molto "Open" di Toretto e O'Conner, nel primo episodio rivali, poi amici per la pelle ( e per i copertoni), più o meno come James Bond, svolge le proprie avventure: dopo gli USA, il Giappone, la Repubblica Dominicana e il Brasile, questo sesto capitolo vede il racconto dipanarsi tra Inghilterra e Spagna. C'è un certo Shaw che è la versione spietata della gang di Toretto & Co., e questi ultimi vengono messi sulle sue tracce da un agente speciale, Hobbs, per spezzare il suo giro e cercare di elminarlo: tra gli assi nella manica, oltre all'efficienza della propria squadra, e cospicui mezzi economici, di Shaw, c'è la presenza, nello staff, di un personaggio importante dei primi capitoli.... Per essere un episodio di una serie basata tanto sui rapporti tra i personaggi, quanto, ancor più, sulle sequenze di inseguimento, incidenti spettacolari, e auto velocissime ridotte a ferraglia in un attimo, a Justin Lin pare riuscire di tenere in equilibrio gli obblighi della narrazione e la tentazione di cedere agli effetti più spettacolari, per gli appassionati di auto e di corse a quattro ruote. Però, nella lunga sequenza di inseguimento sul viadotto, con un carro armato che viaggia a circa 200 kilometri al'l'ora sulla highway, personaggi che balzano, più o meno rimanendo illesi, da una corsia all'altra rimanendo sospesi per secondi nel vuoto, e via smargiassando, si cede a compiacere il pubblico di adepti, e si rientra nel prevedibile e nel dejà-vu. Certo, qualche mossa riesce a regista e sceneggiatori, tipo il voltafaccia di uno dei personaggi più importanti, giocata al momento giusto: ma, appunto, nonostante per buona parte del racconto la suspence possa reggere, per non spiazzare i fans duri e puri, si finisce per raccontare sostanzialmente le solite cose, con tanto di preghiera finale intorno al tavolo da pranzo, che è una chiosa abbastanza sconcertante, visto tutto quel che accade prima...
MISS POTTER ( Miss Potter, USA/GB 2006)
DI CHRIS NOONAN
Con RENEE ZELLWEGER, EWAN MCGREGOR, Emily Watson, Barbara Flynn.
BIOGRAFICO/DRAMMATICO
Da noi è relativamente conosciuta, ma nella cultura anglosassone, Beatrix Potter, con le sue storie per bambini illustrate, è una figura letteraria storica: ultratrentenne non sposata, a fine Ottocento, quindi già personaggio anticonformista, si fece conoscere con novelle personalmente arricchite da disegni rappresentanti le molte creature che popolavano le sue storie. Ne hanno tratto una biopic che sfocia nel melò, dopo aver tirato fuori una vena surreale, che fa sì che i disegni prendano vita ammiccando lungo il racconto: diretto dall'australiano Chris Noonan, già firmatario di "Babe, maialino coraggioso", piccolo caso del cinema per ragazzi di metà anni Novanta, il film è coprodotto tra USA e Gran Bretagna, con due star quali Renee Zellweger e Ewan McGregor nei ruoli principali, e, in sostanza, si risolve in una pellicola tecnicamente ben fatta, fin troppo rileccata, che vorrebbe dirci della vita di una ribelle contro una famiglia che progettava altro per lei, e l'ambiente circostante che guardava con scetticismo alle vicende di una ragazza della buona borghesia che si incaponiva a voler vivere della propria fantasia. Però il film non coinvolge emotivamente lo spettatore, la regia non rimarca adeguatamente i cambi di passo della sceneggiatura verso il dramma, e se Ewan McGregor è fin troppo trattenuto, Renée Zellweger si immedesima abilmente nella parte della disegnatrice e scrittrice, senza tuttavia dare un'interpretazione memorabile, nonostante la candidatura al Golden Globe. Elegiaco, gradevole, poco incisivo.
LA BAMBA ( La Bamba, USA 1987)
DI LUIS VALDEZ
Con LOU DIAMOND PHILLIPS, Esai Morales, Rosanna DeSoto, Elizabeth Pena.
BIOGRAFICO
La fulminante carriera di Richard Valenzuela, in arte Ritchie Valens, il cui picco di fama venne raggiunto con una canzone destinata a diventare intramontabille, come "La Bamba", venne spezzata da un incidente aereo nel quale trovò la morte anche Buddy Holly, altro talento giovane esploso con "Summertime Blues": alfieri dell'onda del rock'n'roll che proprio negli anni Cinquanta cambiò il mondo giovanile, personaggi come questi sono stati spesso omaggiati di un film a loro dedicato, che ne raccontasse l'esistenza, quando ancora non si chiamavano "biopics". Diretto da Luis Valdez, che poi diresse solo film per la tv ( e infatti il taglio di questo lungometraggio, per molti versi, ricorda appunto una fiction televisiva dell'epoca, per quanto ben fatta), "La Bamba" ebbe un buon successo in America quando uscì, e da noi andò discretamente, senza fare incassi altisonanti: Lou Diamond Phillips impersona con grinta il cantante, e vanno in scena, perlopiù, i conflitti tra Valens ed il fratellastro Bob, pecora nera della famiglia, con momenti di grande tensione, ma anche slanci di affetto forte. E questo è l'aspetto più interessante della pellicola, assieme al quadro sugli immigrati latinoamericani, alle prese con la società americana dei Fifties, non sempre disposta ad accettare la coabitazione con persone provenienti da altri Stati. Per il resto, normale amministrazione con la corsa a inseguire il successo, la fama trovata, ed una tragedia in agguato, già annunciata numerose volte da sogni sinistramente premonitori.
ASSOLTO PER AVER COMMESSO IL FATTO ( I, 1992)
DI ALBERTO SORDI
Con ALBERTO SORDI, Angela Finocchiaro, Enzo Monteduro, Marco Predolin.
COMMEDIA
All'italiana, un ex funzionario di un ente statale quale la SIAE, procede a suon di furbate e intrallazzi, per compiere una scalata decisa e intraprendente alla conquista del potere televisivo, scavalcando colossi molto più forti, e riuscendo nell'intento: Alberto Sordi, da regista, inquadrava sempre un argomento che potenzialmente interessava la società italiana, dicendo la sua, spesso facendosi contestare dai critici. Come si è detto e ripetuto fino alla noia, il regista Sordi valeva assai meno del Sordi attore, sia per la visione moralisteggiante e tendente al retrogrado, sia per la statura vera e propria e la qualità delle opere: qui, c'è da dire, che il tema era più contingente di quanto, in corsa, si pensasse, perchè l'irruzione di Silvio Berlusconi sulla scena politica italiana era non prevista, e solo due anni dopo l'uscita di questo titolo, questi avrebbe conquistato la vittoria alle elezioni e realizzato il suo primo governo. Riconosciuto questo, assistendo a "Assolto per aver commesso il fatto", che irride sia alle contraddizioni della legge italica, che al come sia per certi versi ottuso il mondo della grande finanza, si sbadiglia a raffica, non c'è mai un'occasione per ridere o sorridere, e il Sordi regista non valorizza in alcun modo il sè che sta davanti alla macchina da presa, impacchettando un ruolo petulante e autocelebrativo che stanca ben presto. Non ha mai convinto in cabina di regia Albertone, diciamolo, e questi suoi ultimi lavori erano fuori tempo, mal girati, nonostante ci fosse la firma eccellente di Rodolfo Sonego in sceneggiatura, le tematiche erano solo accennate e comunque vigeva l'ultraconservatorismo sordiano sul film finito.
IL VIAGGIO DI YAO ( Yao, F 2018)
DI PHILIPPE GODEAU
Con OMAR SY, LIONEL LUIS BASSE, Fatoumata Diawara, Germaine Acogny.
COMMEDIA
Due vite così lontane, che molto difficilmente avrebbero potuto sfiorarsi, ma quelle di un attore francese famoso che ha appena pubblicato un'autobiografia, e di un ragazzino che abita in un villaggio in Senegal, si incrociano nel Paese di quest'ultimo, ove il divo è andato a promuovere la sua ultima fatica: la sua vita personale non va benissimo, a causa del recente divorzio, e simpatizza con il preadolescente, che ha fatto un viaggio fortunoso fino a Dakar per far firmare la propria copia del libro. "Il viaggio di Yao" è una commedia con qualche tonalità drammatica, che mette a confronto un occidentale venuto dal benessere con una realtà agli antipodi, quella dell'Africa appena modernizzata, ma lontanissima dalla dimensione in cui viviamo. Tra sentieri di terra battuta, usanze locali, l'avventura dello strano duo si dipana in due giornate, quel tempo che serve per accompagnare il ragazzo a casa, prima di riprendere un aereo e tornare in Francia: per raccontare l'oggi ennesima storia di una persona del mondo globalizzato e moderno che rischia di perdersi in un ambiente sconosciuto, ma ne torna migliorato, il film di Philippe Godeau rimane a metà, tra un veicolo per una star come Omar Sy, che si presta con partecipazione al racconto, ma con un'interpretazione parecchio di superficie, e una pellicola più ricercata e da circuito d'essai, senza uno stile veramente definito. Tutto sommato gradevole, "Il viaggio di Yao" approfondisce però poco di una terra che, fuori dai grandi centri urbani, presenta ancora sapore d'antico, e pretende di abbozzare una forma di lezioncina alla distrazione comoda degli Occidentali, alla quale era ben superiore, per dire, quella più solida, cinquant'anni fa, di "Riusciranno i nostri eroi a ritrovare..." di Scola.
DUMBO ( Dumbo, USA 2019)
DI TIM BURTON
Con NICO PARKER, Colin Farrell, Eva Green, Danny De Vito.
FANTASTICO/AVVENTURA
Nell'iniziativa disneyana di riadattare tutta la filmografia classica d'animazione del proprio repertorio, in versione live-action, uno dei pilastri della produzione come "Dumbo", oggi meno considerato che in passato, forse per la natura malinconica della storia, arriva in una sequenza serrata che vedrà, a ruota, giungere anche, durante quest'anno, "Aladdin" e "Il re leone". Rispetto all'originale del 1941, il racconto è ampliato includendo maggiormente gli esseri umani, imbastendo una trama in cui un reduce di guerra (siamo nel 1919, in Missouri) torna mutilato di un braccio al circo ove lavorava, e i cui due figli si dedicano al cucciolo di elefante che nasce contraddistinto da due orecchie giganti, che lo sgraziano, e splendidi occhi blu, che lo rendono dolcissimo. Come sappiamo, le orecchie così hanno una funzione che sconfina nell'incredibile, e la nuova sceneggiatura, firmata da Ehren Kruger, che ha nel curriculum degli script cose mica belle quali "Transformers" 2 e 3, ma anche il notevole thriller "Arlington Road", tiene conto del cambiamento di sensibilità riguardo al mondo animale, che, se il film degli anni Quaranta vedeva nel finale Dumbo rimanere nel circo, ma con tutti gli onori, qua sceglie altra soluzione. Recensori con la fretta di bastonare hanno affibbiato al nuovo lavoro di Tim Burton, il quale, a onor del vero, negli ultimi anni aveva intrapreso una china molto in regresso, critiche poco entusiaste (si è letto anche "troppi effetti speciali", ma se al centro della pellicola c'è un elefantino che vola....come altro mostrarlo?), ma se si vuole, in un'opera che sa di rivincita, si può leggere anche una parziale visione di se stesso del cineasta autore di "Edward Mani di Forbice". Infatti, nel piccolo elefante costretto a dar spettacolo seguendo regole che puntano solo a fare restare a bocca aperta le platee, si può anche scorgere l'amarezza di un narratore di favole che è rimasto incastrato nei meccanismi delle grosse produzioni, e nel megalunapark "Wonderland" non è del tutto sballato vederci Hollywood. A parte questo, "Dumbo" versione non animata, è un racconto intenerito e partecipe sull'Innocenza, e sulla magia di chi la possiede: resistere senza occhi lucidi alla madre del piccolo pachiderma che viene portata via, e non provare un briciolo di meraviglia nella sequenza del primo volo dell'elefante, in barba all'ignoranza, alla meschinità e alla volgarità di chi è bravo a far gruppo nel dare addosso a chi è "Diverso", è molto difficile. La doppia citazione spielberghiana del pre-finale, con due inquadrature "rubate" a "E.T." e "Incontri ravvicinati del terzo tipo" sono insieme un omaggio a quello che si può considerare il predecessore di Burton, e un atto di fede nel genere umano, quando riesce a sentire la propria coscienza, che restano dentro anche a visione finita.