IL RE ED IO ( The king and I, USA 1956)
DI WALTER LANG
Con DEBORAH KERR, YUL BRINNER, Rita Moreno, Martin Benson.
MUSICALE
Da un romanzo di Margaret Landon, narrante l'esperienza da istruttrice alla corte del re del Siam a metà Ottocento, una storia che ha ispirato, oltre a questo film, un remake nel 1999, ed un cartoon uscito nel 1998. Candidato a nove premi Oscar, vincitore di cinque, tra cui quello per il miglior attore a Yul Brinner, "Il re ed io" è tra i classici dell'era d'oro del musical hollywoodiano: da un'opera teatrale a firma Rodgers/Hammerstein, la combattuta relazione tra una donna occidentale ed un regnante orientale, con i contrasti di culture e mentalità e l'attrazione reciproca. L'origine teatrale emerge, anche e soprattutto perchè l'ambientazione è quasi esclusivamente all'interno della corte del re, salvo rare eccezioni, e sembra che Deborah Kerr fu scelta perchè Brinner aveva interceduto per lei, presso la produzione: venne doppiata nelle scene di canto, mentre il divo dalla testa rasata interpretò egli stesso i brani del suo personaggio. Celebre la scena di danza tra i due, eppure, tra i maggiori successi del musical, questo appare come uno dei più datati: senza gran equilibrio nell'amministrazione delle parti cantate, che infatti riempiono la prima metà di proiezione, e si diradano nella seconda, e tra l'altro nemmeno tra le musiche più belle dell'epoca, con uno Yul Brinner molto manierato e rigido, che prese l'Oscar non alla sua migliore prova, mentre gli è superiore Deborah Kerr, più in parte, e alle prese con un personaggio a più strati. Le cose migliori della pellicola sono le scenografie, e la lunga sequenza della rappresentazione musicale per l'ambasciatore inglese: un numero coreografato e diretto con bravura.
I TRE AVVENTURIERI ( Les aventuriers, F 1967)
DI ROBERT ENRICO
Con ALAIN DELON, LINO VENTURA, Johanna Shimkus, Serge Reggiani.
AVVENTURA
Il titolo italiano, come capita spesso, è fuorviante: perchè "Les aventuriers" in realtà sono due, Alain Delon e Lino Ventura. Il terzo sarebbe Serge Reggiani, che entra in scena a metà proiezione, ci resta in tutto una ventina di minuti, ma a dire il vero ha un ruolo-chiave, in effetti. Il film è una sorta di "buddy movie" in cui due amici si ritrovano prima inguaiati, poi si danno al gioco d'azzardo, e successivamente a caccia di un tesoro nascosto nelle profondità marine, braccati da gente che fa sul serio e spara, fino ad un finale inaspettato. Robert Enrico, regista specializzato in gialli e noir degli anni Sessanta e Settanta dirige senza avere del tutto le idee chiare: il film parte appunto come una commedia d'azione, per poi diluire il ritmo notevolmente, e con uno scarto drastico diventa una storia di combattimenti all'ultimo sangue, con finale drammatico. Colpa, probabilmente, di un copione un pò raffazzonato, ma anche del regista che non gestisce bene la struttura del racconto: Delon-Ventura funzionano abbastanza bene insieme, sebbene sia Reggiani a farsi carico del ruolo di maggior spessore. Tra scazzottate, immersioni, voli e sparatorie, un film che ha il suo momento migliore nella lunga scena d'azione nel pre-finale, ma che lascia poco di sè nello spettatore.
ANCHE I COMMERCIALISTI HANNO UN'ANIMA
( I, 1994)
DI MAURIZIO PONZI
Con ENRICO MONTESANO, RENATO POZZETTO, Sabrina Ferilli, Milena Vukotic.
COMMEDIA
L'abbinamento Montesano-Pozzetto ha dato discreti risultati commerciali (meno, comunque, dei due attori, ognuno per conto suo, insieme a Celentano), sia in film a episodi, o nei due titoli che girarono fianco a fianco, come "Noi uomini duri" e "Piedipiatti": fecero insieme anche questa commedia diretta da Maurizio Ponzi, che mette a confronto due diversi tipi di italiano. Quello pignolo, onesto, un pò troppo attento ai conti, e quello fanfarone, facilone e ciarlatano, accomunati dal fatto che entrambi sono commercialisti, e nell'Italia dell'avvento di Berlusconi in politica poteva essere una fotografia efficace sul momento. Purtroppo Ponzi dirige con piattezza una storiella perlopiù raffazzonata, che dileggia quelli che si danno a ricerche mistiche e sottolinea quanto sia facile approfittarsi di loro: non che dal cast ci sia da pretendere molto di più. I due comici, già in declino di attrazione verso il pubblico, non fanno granchè per brillare, tra un Enrico Montesano fin troppo contenuto nel rigore del personaggio, e un Renato Pozzetto che fa una versione blanda e più negativa del carattere interpretato in "Un povero ricco". Meglio appare Sabrina Ferilli, all'epoca una promessa di belle speranze e ancor più belle grazie, che perlomeno dà un'impronta personale ad un'arrivista sconclusionata e persa tra troppe attrattive. Rarissimo abbozzare anche un sorriso, per via di una sceneggiatura senza ritmo nè verve.
BATMAN V SUPERMAN: DAWN OF JUSTICE
( Batman V Superman: Dawn of Justice, USA 2016)
DI ZACK SNYDER
Con BEN AFFLECK, HENRY CAVILL, Jesse Eisenberg, Amy Adams, Gal Gadot.
FANTASTICO/AZIONE
La stagione dei superscontri, che proseguirà a breve anche nel terzo capitolo di "Captain America", che vedrà il Vendicatore blu, rosso e bianco combattere contro l'alleato Iron Man, è iniziata: finalmente insieme sullo schermo due dei più antichi supereroi, Batman e Superman, in un film che di fatto inaugura la nuova strategia dei fumetti DC Comics al cinema, visto che il prossimo passo è "Justice League", che arriverà nel 2017, e vedrà insieme a loro due, oltre a Wonder Woman, che già qui ha una parte importante, anche Aquaman, Lanterna Verde, Flash e Cyborg: insomma, la versione della casa rivale degli Avengers, una riunione di supereroi volti a battersi in squadra per annientare le minacce sulla collettività. Dopo il buon risultato de "L'uomo d'acciaio", Zack Snyder torna dietro la macchina da presa, e a pieni poteri, visto che produrrà e supervisionerà l'intera operazione Warner/Dc. Si sa che il regista di "300" ha una visione cupa, guerresca e non garantista del mondo e degli eroi: più "realisti", se si può usare tale concetto in questo contesto, ma qui Batman uccide i nemici, e del resto Superman lo aveva già fatto rompendo il collo al malvagio Generale Zod nel finale del lungometraggio che ha rilanciato l'ultimo figlio di Krypton. Snyder prepara una complessa introduzione, in cui l'ostilità di Bruce Wayne/Batman verso Superman viene spiegata a fondo, portando all'estremo le paure per un potere così illimitato, e le conseguenze sulla popolazione di un dispiego di forza devastante: infatti, a metà proiezione, non è raro incontrare disorientamento sui volti degli spettatori in sala, perchè le apparizioni in costume dei personaggi sono rapide e rare, per poi improntare nella seconda parte, tutto sul versante supereroistico, tra battaglie, esplosioni, voli e crolli delle scenografie. Giocando di rimandi e citazioni (da ricordare quello su "Excalibur", dalla cui visione esce la famiglia Wayne andando incontro alla sventura, e il cui finale ripeterà in una citazione vera e propria, questo film), capovolgendo anche il famoso "Il cavaliere oscuro" di Frank Miller, con ruoli invertiti, Snyder ha realizzato un filmone forse anche troppo lungo, tenebroso e senza un filo d'ironia, ma girato con gran smalto visivo, che sa esaltare il lato epico del mondo dei fumetti. Certo, se si guarda alla trilogia di Christopher Nolan , questo è in svantaggio, ma il Batman di Bale e il suo mondo sono anche riflessioni filosofiche, e decisamente una visione più progressista del tutto: però, con i suoi limiti, questo kolossal può intrigare e avvincere, con la specifica che è molto meno adatto ai ragazzi dei canoni Marvel. Nel cast, da notare i cameo di Jeffrey Dean Morgan come padre di Bruce, e Kevin Costner che ritorna brevemente come Jonathan Kent, e la nevrosi congenita del Lex Luthor di Jesse Eisenberg.
METTI UNA SERA A CENA ( I, 1969)
DI GIUSEPPE PATRONI GRIFFI
Con FLORINDA BOLKAN, TONY MUSANTE, JEAN-LOUIS TRINTIGNANT, LINO CAPOLICCHIO.
DRAMMATICO
Da una pièce teatrale dello stesso Patroni Griffi, che rimane considerato come uno dei grandi del teatro italiano, un film che ebbe un successo straordinario, ma che negli anni ha conosciuto un opacizzarsi della propria fama. Cinque personaggi di estrazione borghese, i rapporti tra di loro, tra cui un triangolo equilatero tra la moglie dello scrittore Michele, e gli attori Max e Ric, i ritorni di fiamma e gli abbandoni, la single cronica Giovanna, le passioni tempestose e le riconciliazioni. Il tutto ruota appunto ad un tavolo, in cui confronti fatti di chiacchiere intellettuali e pseudofilosofiche eludono la verità delle relazioni. Sicuramente, all'epoca, un film che ha attratto le platee per gli aspetti "trasgressivi" della trama, ma a vederlo oggi, "Metti una sera a cena", titolo che è divenuto via via anche un modo di dire, è un'opera di fin troppo evidente origine teatrale, con discussioni infinite che tendono al barboso, qualche scena nei letti per solleticare le curiosità pruriginose del pubblico, qualche nudo della Bolkan quasi più casto di quelli dei calendari da officina del meccanico, con una regia che non gestisce abbastanza bene i ritmi dei dialoghi e del racconto. Chiaro che il clou del lungometraggio è la sequenza del rapporto a tre tra Bolkan, Musante e Capolicchio, piuttosto pudica, tutto sommato, e che aver scelto la strada del flashback è stato decisivo per una storia che è fatta di conversazioni, ricordi non dichiarati e adeguamento alla realtà dei fatti. Del cast, quelli che figurano meglio sono Florinda Bolkan, in quella che è forse la sua miglior prova cinematografica, e Jean-Louis Trintignant, che però la sceneggiatura, cui collaborò anche un giovane Dario Argento, fa fin troppo defilare. Però quanta noia, quanto tergiversare e quanti minuti di troppo nell'allungare oltre modo un film che poteva durare oltre venti minuti in meno, senza che se ne fosse danneggiati....
FOREVER YOUNG ( I, 2016)
DI FAUSTO BRIZZI
Con FABRIZIO BENTIVOGLIO, SABRINA FERILLI, LILLO PETROLO, TEO TEOCOLI.
COMMEDIA
Il film a episodi non si fa praticamente più, ma è cresciuta la tendenza di girare commedie corali in cui i personaggi principali, via via, si scoprono sempre più connessi gli uni agli altri. In "Forever young" Fabrizio Bentivoglio convive con una universitaria che ha circa trent'anni meno di lui, ma scopre affinità maggiori con una donna appena più giovane di lui, che è la sua fisioterapista, Lillo alias Pasquale Petrolo è un dj che non ha capito che è passato del tempo dagli anni Ottanta, Sabrina Ferilli ha una relazione con un diciannovenne che scopre essere il figlio dell'amica Luisa Ranieri, che di rimorchiare baldi giovini nei locali ha il vizio, e Teo Teocoli è un iperattivo ultrasessantenne, suocero del pingue Stefano Fresi, che sfida continuamente per record assurdi. Fausto Brizzi torna al cinema con una commedia, appunto, fatta di molti personaggi, senza un vero e proprio protagonista, inquadrando il rifiuto di adeguarsi al tempo che passa da parte di persone comprese in un arco tra i quarantacinque e i sessant'anni, tra toyboys, attività fisiche esasperate, e patetismi ingombranti anche se apparentemente non considerati. Qualche sorriso il film lo riscuote, ma senza far sbellicare lo spettatore, nè suggerendogli una riflessione sul tema scelto, in sostanza la paura dell'invecchiare: Brizzi magari azzecca lo spunto, ma sia per scrittura che per superficialità congenita, i suoi film sono poca cosa, con un buon spiegamento d'attori ( qui, a sorpresa, ma neanche troppo, il più in palla è Bentivoglio, anche se se la gioca con Teocoli, con cui dà vita anche ad un brillante duetto) ma di incisività molto scarsa.
IL SAPORE DEL SUCCESSO ( Burnt, USA 2015)
DI JOHN WELLS
Con BRADLEY COOPER, Sienna Miller, Daniel Bruhl, Omar Sy.
COMMEDIA/DRAMMATICO
Lo chef à la page Adam Jones ha un grande avvenire alle spalle, dato che ha mandato a rotoli vita e successo professionale con eccessi di ogni tipo, e vuole ricominciare, dopo essersi bruciato a Parigi ( il titolo originale, "Burnt", appunto rimanda sia al difetto in cucina che all'essersi rovinati), a Londra, risalendo la china e riconquistando il prestigio avuto un tempo: ma il passato pesa, e non è detto che le buone intenzioni portino per forza a un traguardo. Dramedy girata da John Wells dopo la buona affermazione de "I segreti di Osage County", "Il sapore del successo" è stato il secondo film di scarso successo commerciale infilato da Bradley Cooper dopo il trionfo di "American sniper". Eppure le premesse per vincere la scommessa al botteghino c'erano eccome, dato che in tv trasmissioni come "Master Chef" e "Cucine da incubo" viaggiano a mille, e il cast è ben fornito, anche da star che si accontentano di ruoli defilati, come Emma Thompson, o di partecipazioni appena più lunghe di un cameo, come Uma Thurman. Il problema de "Il sapore del successo" è, semmai, la forte prevedibilità della trama, e di fin troppi ricorsi a clichès risaputi per descrivere un'ennesima parabola di caduta e ripresa di un personaggio per niente facile di carattere, come i cuochi descritti come fanatici, il passato burrascoso con cui si devono fare i conti e le frequentazioni pericolose, gli opposti che si attraggono eccetera. Nel cast, quello maggiormente in forma pare essere Daniel Bruhl, mentre da Wells, pur apprezzando la sapienza con cui dirige gli interpreti, ci si aspettava qualcosa di più che un film diligente, ma poco ispirato.
BIG EYES ( Big eyes, USA 2014)
DI TIM BURTON
Con AMY ADAMS, CHRISTOPH WALTZ, Danny Huston, Krysten Ritter.
DRAMMATICO
La vicenda della pittrice Margaret Keane, il cui secondo marito, Walter, da cui prese il cognome, si spacciò per l'autore dei quadri con i bambini dai grandi occhi malinconici, vista da Tim Burton: un progetto anomalo per l'autore di "Edward Mani di Forbice", visto che non c'è alcuna attinenza con il fantastico, e che si tratta nella sostanza di un dramma ambientato tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Un film che probabilmente voleva essere un capitolo a parte nella filmografia di chi da oltre venticinque anni spesso ha saputo incantare platee e recensori con creature spettacolari e tristi, freak persi in una solitudine meravigliosa e terribile, e dipingere loro intorno un mondo dai caratteri fiabeschi. Vincitore di un Golden Globe per la migliore interprete, andato a Amy Adams, meritoriamente, mentre il pur riconosciutamente bravo Christoph Waltz dà un'interpretazione più di maniera, anche se il suo personaggio invitava ad una prova più stratificata, dato che è un impostore della peggior specie, che arriva anche a minacciare di morte la moglie. Un'ottima ricostruzione d'ambiente e d'epoca, però non basta a definire riuscito un film interessante, ma che, in mano ad un autore che da qualche anno sembra un pò appannato, non sfrutta tutte le sue potenzialità. E Burton, dirigendo senza sbavature, senza l'elemento fantasia rischia di diventare un regista "normale", con un mezzo elogio a culti come i "Testimoni di Geova", che lascia perplessi, ad un certo punto del racconto: buone le intenzioni, per quanto riguarda la pellicola, relativamente soddisfacente il risultato.
BAT 21 ( Bat 21, USA 1988)
DI PETER MARKLE
Con GENE HACKMAN, Danny Glover, Jerry Reed, David Marshall Grant.
GUERRA
Il tenente colonnello Hambleton cade nella jungla vietnamita mentre la sorvola, con alcuni compagni, su un aereo abbattuto da un missile dei vietcong: sopravvissuto, rimane in contatto radio con un aviere, aspettando i soccorsi che tardano ad arrivare, per via della preponderante presenza sul territorio del nemico, che ovviamente gioca in casa. La cosa migliore, ma non sfruttata appieno, di "Bat 21" è la scelta del codice tra il protagonista ed il suo soccoritore, usando il linguaggio del golf, per non farsi intercettare dai vietcong: tratto da un romanzo, firmato da William C.Anderson, che scrisse anche la sceneggiatura, arrivò un pò tardi nel filone sulla guerra in Vietnam, dato che la parola definitiva sull'argomento, in sostanza, era stata detta da "Platoon" e "Full metal jacket". Affidato ad un regista molto giovane, Peter Markle, all'epoca ventiseienne, che successivamente ha girato, perlopiù, episodi di serie tv, il film è decoroso, anche se ideologicamente ambiguo: infatti, Hackman uccide un vietnamita dopo che questi lo ha sorpreso a rubare cibo in casa sua, lottando con lui e sparandogli un colpo di pistola, bofonchiando un "Mi dispiace" alla sgomenta famiglia dell'uomo. Per il resto, un film di guerra abbastanza convenzionale, che ha un respiro troppo asfittico perchè possa contenere scene memorabili: professionali le prove di Gene Hackman e Danny Glover, ma niente di più.
ROOM ( Room, IR/CAN 2015)
DI LENNY ABRAHAMSON
Con BRIE LARSON, JACOB TREMBLAY, Joan Allen, Sean Bridgers.
DRAMMATICO
In un'edizione degli Oscar che forse in troppi si sono affrettati a definire "scontata" ( ma siamo sicuri? L'Oscar a Di Caprio e "Il caso Spotlight" erano così prevedibili? E i sei premi, per quanto tecnici, a "Mad Max-Fury Road"?), il vero trionfatore, o che perlomeno ha sorpreso perchè, da indipendente, ha conquistato la statuetta per la miglior attrice a Brie Larson, finora non emersa. Film-scommessa già dal plot, che prevede metà proiezione ambientata in un'asfittica stanza, che si rivela essere un capanno in cui un maniaco tiene prigioniera da sette anni la protagonista, una ragazza rapita e abusata, e il figlio che è nato dai due: la tensione viene dai rapporti nello spazio ristretto, da una fuga che sembra quasi impossibile, e va progettata. Il bambino è la chiave sia per cercare la libertà, sia dopo, per riadattarsi ad una vita che vorrebbe tornare "normale". "Room" è una coproduzione tra Irlanda e Canada, sebbene sia ambientato negli USA, e la non ricerca di un qualcosa che risolva con troppa facilità una situazione complessa come quella presentata, è appunto non hollywoodiana. Abrahamson racconta senza tempi morti una storia che non era semplice da far digerire agli spettatori, servendosi anche del lavoro, di ottima qualità, dei suoi interpreti: brava, eccome, la Larson, che anche se il pubblico è portato a simpatizzare per lei, non nasconde gli spigoli ed i lati meno luminosi del personaggio, ma ancora di più brilla il piccolo Jacob Tremblay, di una naturalezza impressionante, così come lo sguardo del suo Jack, la prima volta che vede il cielo senza filtri, non si dimentica. Quasi a dire che una vita è materia fluida, liquida, nonostante le brutture che un essere umano incontri, è in qualche modo quasi obbligato a oltrepassarle, se vuole sopravvivere, il film si rivela toccante in diversi momenti, anche e soprattutto nei passi di un figlio che deve imparare a muoversi da solo in quel mondo fuori, così rischioso e misterioso.
IN FONDO AL BOSCO ( I, 2015)
DI STEFANO LODOVICHI
Con FILIPPO NIGRO, CAMILLA FILIPPI, Teo Achille Caprio, Giovanni Vettorazzo.
THRILLER
Cinque anni prima, il figlio di una coppia che vive in Val di Fassa, quattro anni di età, sparisce misteriosamente in una notte in cui viene celebrata una festa di paese con figure delle leggende locali: un giorno, il bambino, cresciuto, ritorna dal nulla, e invece di portare speranza e felicità, il suo arrivo crea tensioni fortissime, paure e disagio. Il padre era stato accusato di averlo ucciso, la moglie ha crisi di nervi, il padre della donna è convinto che ci sia di mezzo qualcosa di diabolico, e la gente della località scansa la famigliola ricongiunta. Cosa è successo davvero? Un thriller all'italiana, oggi, suscita curiosità, vista la carenza di cinema di genere: però che pochezza nella recitazione ( salvabile, ma appena, Nigro in un ruolo però monocorde), nella scrittura, nello sviluppo della storia. Un lungometraggio invaso da una cupezza assoluta, i cui personaggi hanno, dal primo all'ultimo, comportamenti sconcertanti, non si prova che fastidio per un insieme di odiosi, bambino compreso, perchè ammazza un cane piuttosto gratuitamente, che annoia e deprime, più che suscitare tensione e porre interrogativi. Azzarda un approccio horror per perdersi poco dopo in pastoie da giallo vago, che procede a tentoni. E quando il padre del bambino apre uno sportello della mensola di cucina, trovando una bottiglia con scritto "Grappa", come nelle recite del doposcuola, rimane solo da aspettare la fine, più irritati che mai da una storia che richiama la tragedia di Cogne, ma senza serietà.
NIGHTCRAWLER- Lo sciacallo ( Nightcrawler, USA 2014)
DI DAN GILROY
Con JAKE GYLLENHAAL, Rene Russo, Riz Ahmed, Bill Paxton.
NOIR
Giovane e sfrontato, Lou Bloom tira a campare rubacchiando qua e là, ma quando capita sulla scena di un incidente, una notte, vedendo operatori che riprendono l'accaduto, decide di attrezzarsi e offrire riprese esclusive ad un canale televisivo: il gioco riesce, e via via, il protagonista comincia a guadagnare abbastanza bene, e farsi un nome nel settore. Ma per avere sempre di più, comincia a oltrepassare i limiti, manomettendo scene dei crimini che riprende, entrando dove non dovrebbe, e rischiando parecchio: la sua natura psicotica lo porterà molto in là. Salutato con collettiva simpatia dalla critica, "Nightcrawler" è un noir moderno, con una vera e propria "jena" adeguata al mondo oltre il Duemila: la natura predatoria di Bloom, che rubi oggetti o immagini private, viene fuori comunque, a prezzo sempre più alto, soprattutto per gli altri. Non si fa scrupolo alcuno, pur di perseguire i propri fini, a scapito di vite spezzate o rischi enormi, fisici, oltre che etici. All'esordio, Tony Gilroy gira un buon thriller psicologico, magari dovrebbe, in futuro, sviluppare maggiormente il lato emotivo, ma è vero che siamo alle prese con un personaggio piuttosto ributtante, ed un'ottica "distaccata" forse era necessaria per creare meno empatia possibile con un individuo deviato, e la scelta di non giungere per forza ad un finale edificante, o moralista, è da apprezzare. Tra gli attori più coraggiosi della propria generazione, Jake Gyllenhaal azzecca un'altra interpretazione, in un ruolo infame che rende con febbrile aderenza.
AVE, CESARE! ( Hail, Caesar!, USA 2016)
DI JOEL E ETHAN COEN
Con JOSH BROLIN, GEORGE CLOONEY, Scarlett Johansson, Ralph Fiennes.
COMMEDIA
Hollywood, 1951: grattacapi a non finire per Eddie Mannix, un produttore esecutivo che deve mediare le bizze delle star, far quadrare i tempi di lavorazione, frenare le furie dei registi, forse ancor più primedonne dei divi, svicolare tra le regine del gossip. E se ci si mettono dei rivoluzionari comunisti, che rapiscono la star numero 1, allora sì che i guai aumentano: e pensare che sono capeggiati da qualcuno di insospettabile.... Ancora un film sul mondo del cinema, a venticinque anni da "Barton Fink", ma si può dire che ne sia il controcanto "luminoso", rispetto al grottesco virato in cupo thriller sul finale, della pellicola con John Turturro: i Coen Bros. prendono di mira religiosi, rivoluzionari "à la page" ( però, pensando a quante vite rovinate dal maccartismo, si rischia di sfiorare il cattivo gusto...), la fatuità dello star-system, con un lavoro scritto con ironia sapida, dipingendo un quadro d'insieme, alla fine, anche caritatevole, visto che il pavido divo qualcosa di umano assorbe, dopo l'esperienza del rapimento, e appare convinto del discorso umanista che il proprio personaggio fa nel finale del lungometraggio che sta girando. I numeri di musical sono, è vero, ben più che un riferimento alla fase più conservatrice di Hollywood, ma anche la più sognante e mai più così macchina dei sogni: e sono sequenze di uno splendore visivo abbagliante, una gioia per l'occhio. A conti fatti, pur divertendoci, viene anche da pensare che pare tutto un divertissement con un umorismo tutto in punta di penna, fatto di strizzate d'occhio, ammiccamenti, ma che ci sia più ragionamento che slancio, ed una freddezza generale, fin troppa, permea l'intero lavoro. Un cast che dà un ottimo contributo è un valore aggiunto, ma che i Coen sappiano scrivere e dirigere gli attori, è cosa solida e risaputa.
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT ( I, 2016)
DI GABRIELE MAINETTI
Con CLAUDIO SANTAMARIA, LUCA MARINELLI, Ilenia Pastorelli, Stefano Ambrogi.
FANTASTICO/AZIONE
Fin dalle prime inquadrature conosciamo la dimensione marginale di Enzo, delinquente di quart'ordine che, inseguito dalla polizia in una Roma che le voci dei telegiornali definiscono sull'orlo del precipizio, tra attentati e malavita imperante, si tuffa nel Tevere e viene contaminato da misteriose sostanze nocive contenute in bidoni sommersi. Da lì in poi, la sua vita cambia: se ferito si rigenera, acquista una forza sovrumana, sopravvive a cadute di decine di metri. Inizialmente continua a delinquere, anche perchè del resto dell'umanità non si cura, tra abbuffate di yogurt e mucchi di dvd porno che accatasta nella squallida abitazione in cui vive, ma l'incontro con una ragazza la cui mente è stata compromessa da orrori del passato e una sensibilità particolare, spinge l'uomo a sviluppare una forma di coscienza, cominciando a somigliare a Hiroshi Shiba, l'eroe dei manga degli anni Settanta che diventava Jeeg Robot d'acciaio. Sullo sfondo, bande di criminali che si sterminano in pieno giorno, ed uno psicopatico con la mania della pulizia che si esibisce cantando "Un'emozione da poco" di Anna Oxa in un night, e coltiva l'ambizione di impadronirsi della città. Scommessa totale di Gabriele Mainetti, che ha coscritto e diretto la pellicola, "Lo chiamavano Jeeg Robot" rimanda, nello spunto e anche un pò nella storia a "Unbreakable", con Bruce Willis, con un eroe riluttante, che ad un certo punto prende atto dei poteri "in più" che ha e decide di fare una scelta: quel che è notevole, è che questo film sia costato poco, per i canoni del cinema di oggi, un milione e settecentomila euro, e la resa visiva dimostra sia che è ancora possibile un cinema "di genere" dalle nostre parti, e che sfruttando al meglio le non troppe risorse a disposizione, un film che avvince lo spettatore e lo proietti in un quadro anche fantastico, sia fattibile. Mainelli, pur rubacchiando qua e là da altri lungometraggi ( ne cito un paio soli, "Il segreto dei suoi occhi", con una scena-clou tra la folla di uno stadio, e "Il ragazzo invisibile", molto meno riuscito omaggio ai supereroi di Salvatores), mette su un film con impennate di regia gustosissime ( la strage sulle note di "Ti stringerò" di Nada, degna di Quentin Tarantino e John Woo), un'intelligente descrizione dei personaggi, che sono tutti caratterizzati, anche quelli minori, ed un'ottima mano narrativa, che in un esordiente non è scontato trovare. Cast indovinatissimo, rimarchevole la stanchezza via via commutata in energia di Claudio Santamaria, ma brillano ancora di più la fragilità tenera di Ilenia Pastorelli, e il malato istrionismo di Luca Marinelli (azzardo: se il film gira nei mercati internazionali, facile che arrivino offerte importanti per quest'attore straordinario, credibile sia in un ruolo sopra le righe come questo, ma anche nelle mezze tinte de "La solitudine dei numeri primi" e "Tutti i santi giorni"). Una piacevolissima sorpresa.
SUSPENSE ( The innocents, GB 1961)
DI JACK CLAYTON
Con DEBORAH KERR, Pamela Franklin, Martin Stephens, Megs Jenkins.
HORROR
Su una sceneggiatura che vede anche la partecipazione di Truman Capote, è l'adattamento per il cinema più celebre del classico dell'orrore letterario "Il giro di vite" di Henry James: una governante dovrà prendersi cura di due bambini, assunta dallo zio, dato che i ragazzi sono orfani. I segnali di qualcosa di strano cominciano abbastanza presto, e con terrore la donna scoprirà che nel passato recente i due fanciulli sono stati coinvolti in cose poco chiare, e morbose, dal giardiniere della villa e dalla governante presente prima di lei, morti entrambi in circostanze oscure. Ma resta la loro presenza, e il mistero rischia di travolgere tutti. Scandita con eleganza e inesorabile circolarità, la trama avvince, in una storia fatta di molte sensazioni e radi fatti concreti, ma che appunto a livello psicologico, come l'antica letteratura orrorifica, si lavora chi ne fruisce, in questo caso lo spettatore, con efficacia, senza ricorrere a troppi artifici. Dall'incipit drammaticissimo, con due mani di donna congiunte in preghiera ed il suono del suo pianto, mescolato ad una nenia inquietante, Clayton dirige bene un film che lascia il segno: una grande Deborah Kerr, che considerava questa interpretazione come la sua migliore, accompagna chi vede il film in una progressiva discesa nella follia, e la cosa che incide più a fondo nella visione, è la sensazione di contagiosa morbosità, l'affondare in una sorta di sabbia mobile sordida, la corruzione dell'innocenza fatta tutta di accenni e allusioni, che disturba. Tra l'altro, da buon film europeo, "Suspense" non ha la necessità di imporre un finale edificante, e si chiude, anzi, con una nota grave ulteriore.
LA COSA DA UN ALTRO MONDO ( The thing from another world,
USA 1951)
DI CHRISTIAN NYBY ( e HOWARD HAWKS, non accreditato)
Con KENNETH TOBEY, Margaret Sheridan, Roger Cornthwaite, James Young.
FANTASCIENZA
Benchè ufficialmente sia firmato da Christian Nyby, che in pratica, firmò questo film e più che altro vari episodi di serie tv, "La cosa da un altro mondo", secondo testimonianze di chi stava sul set, è più che altro un' opera ufficiosa di Howard Hawks: rispetto al racconto originale di John W. Campbell, il remake di John Carpenter del 1982 è più fedele, perchè l'essere alieno che i malcapitati ricercatori in Alaska ritrovano, muta forma e si insinua nelle persone, mentre qua, vuoi per semplificare il racconto, vuoi per motivi di budget e resa degli effetti, la "Cosa" viene rappresentata da un umanoide con testa leggermente deformata e mani adunche e ricoperte di protuberanze come grosse spine. Inoltre, anche per via, probabilmente, della recente vittoria USA della guerra, viene celebrato il gioco di squadra e la compattezza degli statunitensi verso un pericolo proveniente da destinazione ignota. Classico che ha ispirato molta fantascienza successiva, il film ha ritmo, si nota una mano registica capace e abile nel tenere il racconto con la suspence necessaria, e, considerato che il film è stato realizzato agli albori degli anni Cinquanta, la messinscena è particolarmente curata, rispetto ad altre pellicole fantascientifiche degli stessi anni: in un cast puramente funzionale, l'unico nome che ha avuto qualche notorietà è stato proprio chi impersonava la Cosa aliena, James Arness, divenuto alla fine degli anni Settanta una piccola celebrità nei panni dello zio Zeb della serie televisiva "Alla conquista del West". Celebre l'avvertimento finale del giornalista, a minaccia debellata, via radio, sui pericoli che possono giungere dal cosmo.
L'ABBIAMO FATTA GROSSA ( I, 2016)
DI CARLO VERDONE
Con CARLO VERDONE, ANTONIO ALBANESE, Anna Kasyan, Clotilde Sabatino.
COMMEDIA
Nella sua carriera, non si può certo rimproverare a Carlo Verdone di non aver voluto confrontarsi con altri bei nomi del cinema italiano: Ornella Muti, Sergio Rubini, Margherita Buy, Sergio Castellitto, Silvio Muccino, Paola Cortellesi, Enrico Montesano, Alberto Sordi, Laura Morante.... La coppia comica formata con Antonio Albanese, potenzialmente, era interessante eccome: Verdone ha optato per costruire attorno a sè e al creatore di Alex Drastico, Frengo Stop, Epifanio e Cetto LaQualunque una storia rocambolesca, un pò alla De Funès, in cui un equivoco avvia un gioco di trappole ed espedienti su un grosso gruzzolo trovato in una valigetta, che naturalmente inguaia i due coprotagonisti, due disgraziati che sopravvivono a stento, un attore senza ruoli ed un investigatore-giallista che si è ridotto a dare la caccia ai gatti di signori benestanti. Il film ha un avvio macchinoso, per migliorare strada facendo: e qualche numero dei due, va detto, fa sorridere discretamente. Però la sceneggiatura non serve in maniera paritaria le due star, e Verdone ha molte più occasioni di conquistare i riflettori, Albanese in qualche momento appare forzato, e quel che delude è il ricorrere a vecchi cavalli di battaglia dei due commedianti, vedi la posa alla "duro di periferia" verdoniana e l'accento meridionale di laqualunquian-drastichiana provenienza. C'è lo sberleffo ad una politica idealista di facciata e losca in concreto, il racconto di ultracinquantenni che faticano a mettere insieme un pranzo ed una cena, ma dopo "Posti in piedi in Paradiso", è da registrare un inizio di involuzione di Carlo Verdone, che si spera passeggero soltanto.
SOTTO IL CIELO DELLE HAWAAI ( Aloha, USA 2015)
DI CAMERON CROWE
Con BRADLEY COOPER, Emma Stone, Rachel McAdams, John Krasinsky.
COMMEDIA/SENTIMENTALE
Uno dei temi principali del cinema di Cameron Crowe è il venire da un azzeramento della vita fin lì condotta dei suoi protagonisti: anche in "Sotto il cielo delle Hawaai", "Aloha" in originale, il personaggio principale Brian Grilcrest è un supervisore militare, che ha alle spalle un'esperienza traumatica in Iraq che ha rischiato di farlo morire, e si reca in una delle isole dell'arcipelago del Pacifico, in cui vive l'ex-fidanzata che si è fatta una famiglia, ma incontra anche una giovane ufficiale dell'aeronautica che non gli lesina sguardi interessati. Sullo sfondo, il marito dell'ex-fiamma, che parla in pratica a gesti, il miliardario bislacco che finanzia il programma spaziale che Grilcrest deve contribuire a promuovere impersonato da Bill Murray, un alto ufficiale ringhioso con il volto di Alec Baldwin, e la comunità locale che vorrebbe, una volta tanto, meno bugie dai militari. Pur avendo un cast assortito con nomi di peso, "Aloha" è stato il secondo tonfo consecutivo al box-office, cosa che solitamente affossa, o quasi, la carriera dei registi, e solo un grosso risultato per la prossima pellicola diretta, se ci sarà, risolleverà il cammino dell'ex-giornalista del "Rolling Stone" Crowe. Pur nell'ambito delle commedie sentimentali dal finale, se non scontato, piuttosto prevedibile, il film tutto sommato regge, grazie ad una buona colonna sonora e al tono della narrazione, mantenuto su un livello di una certa leggerezza. La cosa migliore forse è il dialogo a gesti abbozzati tra Cooper e Krasinsky; del cast, abbastanza funzionale, forse la migliore è Rachel McAdams, che interpreta il personaggio con il compito meno facile.
BELLIFRESCHI ( I, 1987)
DI ENRICO OLDOINI
Con LINO BANFI, CHRISTIAN DE SICA, Lionel Stander, Lisa Lavender.
COMMEDIA
I due guitti di terza categoria Tom e Jerry entrano di soppiatto nella villa di una star americana ( senza mai nominarlo, è Sylvester Stallone, all'epoca divo numero 1 al botteghino) e inavvertitamente con una mitragliatrice (!) di casa lo mandano quasi al camposanto: comincia una fuga che li vedrà travestirsi da donna, con gli equivoci e gli imbarazzi del caso. Soprattutto se un vecchio boss prende una cantonata per uno dei due.... Al terzo film diretto, Enrico Oldoini mette su una sorta di versione aglio e olio di "A qualcuno piace caldo", così sfacciatamente da citarlo con un paio di battute del celebre finale, e mostrandone il Vhs: doveva esserci Massimo Boldi, e non Lino Banfi, a dividere cartellone e film con Christian De Sica, ma problemi contrattuali e di tempo portarono invece il comico pugliese a confrontarsi con il futuro re dei cinepanettoni. A proprio agio con vestiti femminili e movenze da signora, Banfi e De Sica sembrano abbastanza compatibili, il guaio è il copione: occasioni di divertimento rarissime, umorismo impalpabile o fuori fuoco, situazioni viste e straviste, e se il romano rifà i numeri di ballo e canto con l'entusiasmo che ci ha sempre messo, il meridionale, diciamolo, nella sua veste "ripulita", senza parolacce e accelerazioni, ha sempre funzionato poco. Infatti l'unica scena in cui risulta divertente, è la scenata in limousine all'amico. Fiacco e tendente alla monotonia, vede un caratterista di alto livello come Lionel Stander sprecarsi in un numero da mafioso intenerito da parodia stinta.
THE HUNTER ( The Hunter, AUS 2011)
DI DANIEL NETTHEIM
Con WILLEM DAFOE, Frances O'Connor, Sam Neill, Finn Woodlock.
DRAMMATICO
Una multinazionale dagli intenti poco chiari incarica un mercenario di eliminare gli esemplari rimasti della "Tigre della Tasmania", mammifero considerato estinto ma che probabilmente ancora sopravvive in lande desolate, che secerne una tossina potente: naturalmente l'uomo deve prelevare dei campioni dall'animale e portarli alla compagnia. Tipo ruvido, il protagonista si presenta come biologo e affitta una stanza presso una famiglia il cui capo è sparito, anch'egli sulle tracce del rarissimo predatore: sullo sfondo, uno scontro annoso tra gente del posto che non vuole concedere spazio ai nuovi venuti e chiede però nuove risorse per trovare posti di lavoro, e ambientalisti ostici all'ingresso di grandi industrie nella zona. La caccia sarà lunga e rara di soddisfazioni, ma forse l'unico esemplare rimasto, è ancora in giro: il cacciatore si ritroverà preda, ma di "colleghi". Un film uscito quattro anni fa, da noi arrivato solo nei canali televisivi a pagamento, tratto da un romanzo di Julia Leigh, che non risparmia crudezze ( più di una volta il protagonista ucciderà innocenti piccoli canguri per adescare il suo obiettivo) e abbozza però una riflessione filosofica sulla solitudine che riequilibra il racconto notevolmente verso il finale. A differenza di una pellicola americana, quelle australiane evitano la virata verso l'edificante, e lo sguardo tra l'animale, che fa una scelta, e l'uomo che la caccia, roso da mille dubbi, è il momento più bello del film. Dafoe, da tempo relegato a ruoli da comprimario de luxe nelle grosse produzioni, dà corpo e volto ad un personaggio ostico, amaro e impaurito quanto distruttivo: il lungometraggio prende con ieratica lentezza la via dell'apologo esistenziale, ed è uno di quei film che lascia di sè traccia migliore a visione conclusa, più che durante.
IL CASO SPOTLIGHT ( Spotlight, USA 2015)
DI TOM MCCARTHY
Con MICHAEL KEATON, MARK RUFFALO, RACHEL MCADAMS, John Slattery.
DRAMMATICO
Solo sei candidature ai recenti premi Oscar, ma vinti due importantissimi, quello per il miglior film e per la miglior sceneggiatura originale, per "Il caso Spotlight", che torna a dare importanza a un cinema che raccontava come uomini armati di taccuino e dati sulla scrivania, abbiano dato svolte storiche a un sistema. Il modello, esplicitamente, è "Tutti gli uomini del presidente", o perlomeno quel tipo di dramma che, ad un certo punto, pur narrando vicende vere, al limite romanzandole dove necessario, si tramutano quasi in thriller e riescono ad avvincere lo spettatore che, per quanto sappia, più o meno, come siano andate le cose, sta in tensione fino alla fine. Dall'indagine del giornale USA "The Boston Globe", sull'arcivescovo della città Bernard Law, che coprì molti casi di pedofilia dentro la Chiesa locale, tra contrasti, reticenze, pressioni per non far uscire le notizie, il regista Tom McCarthy ha diretto e co-scritto un lungometraggio che, senza filtri, sottolinea, perchè ce n'è bisogno, anche se non sembra, la necessità di un'informazione libera e agguerrita. Non è un film anticlericale, si badi, anche perchè non sono quasi mai in scena religiosi: ma è un'opera che rivendica l'onestà morale come valore assoluto, e in quella che è la scena chiave, forse, del film, quella del locale in cui Paul Guilfoyle cerca di corrompere amichevolmente Michael Keaton, salutandolo con una velata minaccia alla sua opposizione netta, tratteggia un repellente e suadente ritratto degli agenti del Potere, sia religioso che politico. Un cast convinto ( tutti molto bravi, ma Keaton era da premio) aiuta notevolmente la riuscita della pellicola, forse cinematograficamente non innovativa, o troppo classica per regia e stile narrativo: ma un atto di coraggio come questo, su infanzie derubate e futuri adulti disastrati, sull' Innocenza violata nel modo più mellifluamente ignobile, meritava eccome riconoscimento.
10 SECONDI PER FUGGIRE ( Breakout, USA 1975)
DI TOM GRIES
Con CHARLES BRONSON, Robert Duvall, Jill Ireland, Randy Quaid.
AZIONE
Un uomo benestante è incastrato e messo in carcere in Messico per un omicidio attribuitogli e non commesso, e la moglie vuole organizzare la sua evasione per portarlo via da lì: ingaggia un aviatore per liberarlo, ma il primo tentativo fallisce, e il pilota, pur adirato con la donna, che non lo aveva avvertito della pericolosità della faccenda, è deciso a compiere l'impresa. Molti dei film d'azione con Charles Bronson, se si escludono quelli più truci sulla linea de "Il giustiziere della notte", sono pellicole che, viste anche dopo diversi anni, risultano tutto sommato godibili: il duro dal fisicaccio roccioso e dal baffo alla tartara era un'icona forse con dei limiti espressivi, ma che donava una grinta ed un'energia ai propri personaggi difficili da negare. Gaglioffo e baldanzoso, porta comunque rispetto alle donne, se la prende con chi campa di prepotenza, e ci mette anche un pò d'ironia, come in questo caso. Nel cast presenti anche Robert Duvall, Jill Ireland, Randy Quaid, il regista/attore Emilio Fernandez ( il Mapachi de "Il mucchio selvaggio") e John Huston, che in realtà gira tre brevi scene in una sala riunioni, ma che è indicato come uno degli interpreti principali. Con qualche falla narrativa ( perchè ad un certo punto il prigioniero che ha pagato secondini corrotti per fuggire, viene messo dentro una bara, con tanto di cadavere insieme a lui, e iniziano a seppellirlo, per poi praticamente dimenticare la scena in questione?), Tom Gries dà un'impronta scanzonata al tono che non dispiace.
DARK PLACES-Nei luoghi oscuri ( Dark places, F 2015)
DI GILLES PAQUET-BRENNER
Con CHARLIZE THERON, Nicholas Hoult, Christina Hendricks, Chloe-Grace Moretz.
THRILLER
Seppure sia un film tratto da un romanzo statunitense, di Gillian Flynn, e abbia un cast piuttosto ricco di nomi importanti provenienti dal cinema USA, e sia ambientato nella profonda provincia americana, è una produzione francese questo thriller, in cui un fatto di sangue avvenuto trent'anni prima non è forse andato come la versione ufficiale racconta. La protagonista, Libby Day, è quasi sul lastrico, vive da disadattata, nonostante, da unica sopravvissuta al massacro della propria famiglia da parte del fratello, coinvolto in giochi perversi da una ragazzina ricca e idiota, abbia potuto contare sull'aiuto di una fondazione a lei dedicata. Però certi ricordi non sono chiari, e per avere qualche soldo e tirare a campare un altro pò, la donna accetta di raccontare la propria storia a dei nerds che si ritrovano per studiare insieme i più celebri delitti avvenuti in America; e da lì, avrà modo di sentir vacillare i ricordi di una notte maledetta. Charlize Theron, in un ruolo in cui mortifica la propria avvenenza, si prende il rischio di un personaggio aspro, velenoso, ferito e ostico, in un giallo che, se letto in tal senso, può deludere, perchè il finale non è appunto "all'americana", e cioè a tutto c'è una risposta, e ogni trama e sottotrama ha una soluzione. Anche a livello di psicologia criminale, un passaggio verso la conclusione può apparire piuttosto sballato, senza voler rivelare troppo. Però "Dark places" è anche una parabola sul perdono e sull'ipocrisia insita in una provincia che smania pur di trovare capri espiatori, che può lasciare qualche riflessione viva nello spettatore, anche a visione finita.
KNOCK KNOCK ( Knock Knock, USA/CI 2015)
DI ELI ROTH
Con KEANU REEVES, Lorenza Izzo, Ana De Armas, Ignacia de Allemand.
THRILLER
Architetto coniugato con artista di successo, Evan lascia partire moglie e figlie per un weekend al mare, e nella serata, sotto una pioggia scrosciante, bussano alla sua porta due belle ragazze dalla parlantina sciolta e dall'atteggiamento sempre più confidenziale, che dicono di aver sbagliato indirizzo: l'uomo le fa entrare per chiamare un taxi e risolvere la cosa, ma le due si fanno sempre più provocanti, al punto di sedurlo sotto la doccia. E' solo l'inizio di un progressivo scivolare nella follia, perchè le due ospiti sfasceranno la casa e tortureranno l'architetto... Progetto sui generis per Eli Roth, anche perchè il livello di truculenza è notevolmente più basso delle sue altre pellicole, "Knock Knock" ha tra i precedenti di successo titoli come "Attrazione fatale", in cui l'uomo solitamente integerrimo, di fronte ad un'occasione di trasgressione cede, e apre un vaso di Pandora: lo schema del regista di "Cabin fever" ritorna, ad una prima parte in cui gli istinti conducono i protagonisti su strade rischiose, segue una seconda in cui, quasi da racconto moralista, paura, dolore e violenza si abbattono sui medesimi. Solo che questo lavoro, sembra molto trattenuto, forse nel tentativo di fare un film per platee più ampie, ma snatura in gran parte lo stile di Roth: quello che irrita nel racconto, è lo stato da imbelle totale del personaggio principale, che non riesce a cacciare di casa due sgallinate completamente fuori di testa, i fatti si susseguono in maniera sempre meno probabile, fino ad un finale che vorrebbe essere sardonico, ma è più che altro sconcertante.