IL CASINISTA ( I, 1980)
DI PIER FRANCESCO PINGITORE
Con PIPPO FRANCO, Renzo Montagnani, Bombolo, Enzo Cannavale.
Sceneggiatore e gagman fidato di un comico di successo, Pippo viene maltrattato da questi e sollecitato a trovare nuove idee, perchè le sue battute non fanno più ridere: con una cinepresa e con l'aiuto del cognato accalappiacani, si sbatte in giro per trovare ispirazione in situazioni prese dalla strada. Tra cani che lo inseguono, cadute, oggetti contundenti, il poveraccio si ritroverà sia in carcere per sbaglio, che sul set di un film porno, prendendo diverse sberle, cazzotti in testa, sempre a perdifiato, e sempre a peggiorare. Pippo Franco, dalla fine degli anni Settanta ai primi degli Ottanta, è stato un personaggio in vista, tra spettacoli televisivi e numerosi film, ad un ritmo di due o tre all'anno, puntualmente richiamanti spettatori nelle seconde e terze visioni: la sua comicità era sempre fondata sulla particolarità del suo aspetto, l'imbranataggine che egli sfoderava, e gli incidenti cui andava incontro regolarmente. Diretto anche qui, come in molti altri lungometraggi cui ha preso parte, da Pier Francesco Pingitore, come lui proveniente dalla popolaresca fucina del teatro Bagaglino, Franco ce la mette tutta, ma il film non fa ridere quasi mai: scene tirate per i capelli, trama zero, una combinazione di gags loffie che annoiano ben presto, con il protagonista che a bocca aperta corre e ansima, sempre con la solita maglietta polo a strisce bianche e verdi per tutta la durata della pellicola. Intorno gravitano i soliti noti Bombolo, Cannavale, Montagnani che sembrano muoversi a orecchio. Unico merito del film: non è volgare, come analoghe produzioni dell'epoca. Ma è poca roba, riguardo all'uggia che copiosa si sprigiona dallo schermo.
21 ( 21, USA 2008)
DI ROBERT LUKETIC
Con JIM STURGESS, Kate Bosworth, Kevin Spacey, Aaron Yoo.
DRAMMATICO/COMMEDIA
Il Blackjack è un gioco d'azzardo, che nei casinò tira parecchio: 21 è la cifra che non si deve passare per vincere e sbancare. Di titoli sul mondo dell'azzardo, delle carte e delle scommesse ne abbiamo visti un buon numero, di solito sono parabole, venate da un certo pessimismo, sul rischio e su come certe vite si portano al limite per puro gusto della sfida. Questo lungometraggio, preso da fatti realmente accaduti, racconta, concentrandola in un lasso di tempo più ristretto, l'impresa di un gruppo di studenti del MIT, Istituto di Tecnologia del Massachussetts riuscì a far molti soldi conteggiando le carte in più casinò, durante la decade '80/ '90. Qui lo studente Ben, che ha il sogno di laurearsi in Medicina a Harvard, e deve riuscire a mettere insieme la cospicua cifra necessaria per frequentare tale facoltà, e viene avvicinato da un docente che ha messo insieme una squadra abile nei calcoli matematici, che appunto indirizza dove si gioca forte per mettere in atto un piano che porterà a realizzare grosse cifre in barba ai controlli dei casinò. Lo spunto sarebbe interessante, ma dietro alla macchina da presa c'è Robert Luketic, che è sempre parso più a proprio agio con le commedie (molto leggere, se possibile), che con temi meno "gradevoli", vedi anche l'inciampo di "Paranoia": senza imprimere mai vere e proprie mutazioni ai caratteri in scena, la regia viaggia del tutto in superficie, confezionando un film che sostanzialmente si lascia vedere, ma non appassiona mai, nè, e questo è il difetto principale, nonostante i potenziali colpi di scena e ribaltamenti di prospettiva classici di questo sottogenere ( vedere "Nove regine", tutta un'altra musica, in materia...) lascia una volta che sia una che lo spettatore rimanga sorpreso dalle evoluzioni del racconto. E se Kevin Spacey fornisce una discreta prova, Jim Sturgess ha una faccia simpatica, ma sembra sempre che rivesta lo stesso personaggio in ogni film che interpreta.
MALEFICENT- Signora del Male
( Maleficent: Mistress of Evil, USA 2019)
DI JOACHIM RONNING
Con ANGELINA JOLIE, ELLE FANNING, Michelle Pfeiffer, Sam Riley.
FANTASTICO
Il numero due delle serie cinematografiche è spesso il più difficile: viene dopo il successo del capitolo primo, e deve non solo confermare, ma essere più spettacolare, non tradire il format originale e svelare, se possibile, cose che potrebbero dare altri risvolti a ciò che si è visto nell'episodio precedente. "Maleficent" è stato, a modo suo, un titolo abbastanza rivoluzionario nel grosso progetto di espansione della Disney: perchè è vero che è l'adattamento live action di un classico quale "La bella addormentata nel bosco", ma l'originalità veniva data dalla rilettura della storia conosciuta dal punto di vista del personaggio negativo, che implicava un'inedito approfondimento, per un lungometraggio progettato come blockbuster, di racconto e esplorazione dei caratteri. Dopo aver capito le ragioni del diventare una pur bellissima megera di Maleficent, e risolta la questione del sortilegio inflitto a Aurora, ecco che si profila una nuova prospettiva: la ragazza viene chiesta in sposa dall'aitante principe Filippo, e però la regina madre, genitrice del ragazzo, ha in antipatia la strega e ha mire per il regno da cui la futura nuora proviene.... Diretto dal regista norvegese Joachim Ronning, dapprima spesso al lavoro in tandem con il connazionale Espen Sandberg, il sequel convince nella parte iniziale, diventa macchinoso in quella centrale, in cui si spiega in maniera un pò prolissa e già vista l'origine della specie di Maleficent, e si chiude su un finale pirotecnico e spettacolare, in una battaglia finale che a livello di logica bellica è di una certa sconclusionatezza. Tuttavia, lo spettacolo c'è, e rimarranno questa volta più contenti gli spettatori giovanissimi, rispetto a quelli più adulti, a differenza del primo capitolo. E se Angelina Jolie compare meno di quanto ci si aspetti, ed Elle Fanning è una Aurora angelicata e ingenua forse fin troppo, meglio la melliflua crudeltà dell'ancor fascinosa Michelle Pfeiffer, regina dai propositi malvagi e dai metodi spietati.
JOKER ( Joker, USA 2019)
DI TODD PHILLIPS
Con JOAQUIN PHOENIX, Robert De Niro, Frances Conroy, Zazie Beetz.
DRAMMATICO
La madre lo chiama "Happy", e di professione fa il clown, ma Arthur Fleck ha un'indole che gli fa guardare alla vita come a una tragedia, si sente sempre fuori posto e la gente tende, quando non a evitarlo, addirittura a essergli ostile fino alle percosse: in una Gotham City che sembra la peggiore New York a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta ( non ci sono telefoni cellulari, i televisori perlopiù sono in bianco e nero o i primi che trasmettevano a colori, i videoregistratori sono mastodontici), Arthur sente sempre di più la propria esistenza precipitare in una spirale atroce di solitudine e follia, tutto gli gioca contro, e soffre di un disturbo che lo fa prorompere in una risata che suona come un urlo. A sorpresa vincitore del Leone d'Oro veneziano, "Joker", che racconta la genesi del nemico numero 1 di Batman, ma che non necessariamente va collegato all'universo DC rifondato da Nolan e Snyder, è un'opera cupa, mai illuminata dai raggi solari nemmeno nelle scene diurne, segnata da un pessimismo acuminato: per essere un titolo su depressione, alienazione che sfociano in pazzia omicida, sta raggiungendo incassi ragguardevoli un pò dappertutto, e per esempio qui in Italia, il film riempie le sale tutte le sere, e ha già messo insieme quasi sette milioni di euro, scatenando, peraltro, polemiche sui social network tra potenziali detrattori e spettatori che gli tributano un entusiasmo quasi sacrale. Eppure, nonostante una prova concentratissima e di valore di un attore di alta qualità come Joaquin Phoenix ( la cosa migliore è come riesca a far assumere agli occhi un'espressione disperata mentre la bocca gli si contorce in una delirante risata), in un'interpretazione che ha in sè sia il Travis Bickle di "Taxi driver", il Rupert Pupkin di "Re per una notte" e, nelle scene dell'ultima parte, quando il Joker è emerso, perfino il Michael Jackson da palco e da videoclip, il premio come miglior film all'ultimo festival di Venezia sembra generoso; nel raccontare come una fragilità livida possa tramutarsi in ferocia massacratrice, il film sta molto addosso al personaggio principale, ma non dà sufficiente spessore ai personaggi attorno ( De Niro, cui vanno appunto gli omaggi per i personaggi di cui sopra, è il presentatore tv che Arthur idolatra e che gli riserva i rari momenti di spensieratezza nelle sue trasmissioni), e non dice sostanzialmente cose nuovissime sui deserti di cemento e frettolosa superficialità quali sono le metropoli. Anche l'accelerata violenta, oltre che prevedibile nello svolgimento della trama, è cosa già presentata, oltre che dai titoli citati, anche in lavori come "Un uomo, oggi", con Newman e Perkins, per dirne uno. Bene che questo lungometraggio porti spettatori incuriositi nelle sale, bene anche che guadagni qualche futura nomination, perchè per quanto avesse già impressionato in personaggi estremi ne "Il gladiatore" e "The Master", Phoenix è un attore che merita consacrazione: ma parlare di capolavoro, e di cose mai viste sullo schermo, appare abbastanza eccessivo. Anche se è un segno di tempi che sembra abbiano non granché da dire.
IL BUONGIORNO DEL MATTINO ( Morning Glory, USA 2010)
DI ROGER MICHELL
Con RACHEL MCADAMS, Harrison Ford, Diane Keaton, Patrick Wilson.
COMMEDIA
Esser fatta fuori dal proprio lavoro, per una produttrice esecutiva tv, e ritrovarsi con la chance di dovere risollevare le sorti di uno storico programma mattutino sulle reti nazionali, è una scommessona. La giovane Becky è chiamata a dover gestire una star del giornalismo dal carattere scontroso e spocchioso, che, solo per non perdere i sei milioni del contratto in essere, accetta di presenziare accanto all'altra star del canale, che da anni conduce la trasmissione tra prodezze culinarie, curiosità edificanti e piccole notizie che al big delle inchieste mettono i brividi. Come combinare le cose, ottenere successo e compiere la missione richiesta dallo scettico boss del network? Roger Michell è un regista abile nel confezionare commedie che mandano via il pubblico rasserenato, che chiamano il film appena visto "carino", e che prevede una buona dose di prevedibilità ( anche qua, come sfuggirvi?), una discreta impaginazione del prodotto e valida conduzione degli interpreti, spesso nomi celebri. E qua, i comprimari ultralusso Harrison Ford e Diane Keaton si prestano con volenterosa disponibilità al gioco: tra l'altro, è probabile che il divo di "Indiana Jones", di cui si dice sia nella vita quotidiana tendenzialmente burbero, abbia messo molto di sè nel dipingere il grande giornalista che non accetta compromessi e offre più spigoli che altro. Tutto sommato, una commedia leggera che accenna a come, spesso, la tv faccia giochi di prestigio nel dare una versione molto parziale delle cose a chi la osserva, ma è una critica molto poco acuminata. Gradevole, recitato bene pressoché da tutto il cast, ma lascia di sè abbastanza poco.
RAMBO: LAST BLOOD ( Rambo: Last blood, USA 2019)
DI ADRIAN GRUNBERG
Con SYLVESTER STALLONE, Paz Vega, Yvette Monreal, Sergio Perris-Mencheta.
AZIONE
Benché solo qualche anno fa Sylvester Stallone avesse affermato perentoriamente, in alcune interviste, che non ci sarebbero stati ulteriori capitoli per le avventure di John Rambo, il reduce dal Vietnam che rispondeva con brutalità devastante alle ingiustizie subite, eccoci al capitolo quinto, che segue quello del 2008, che tanti fans riconquistò dopo gli scivoloni, seppure redditizi, del secondo e, ancor più, del terzo episodio della serie. Arrivato all'autunno della propria esistenza, Rambo è un uomo che ha trovato una dimensione tranquilla, tenendo nel ranch di famiglia la governante messicana e sua nipote, cui guarda come un vero e proprio clan d'appartenenza: purtroppo la ragazza vuole ritrovare il padre, un messicano tornato al proprio Paese, che si rivelerà un uomo senza cuore e abietto. Da lì a precipitare in un gorgo di vizio e violenza, anche tramite una falsa amica, ci vorrà poco: la giovane cade nelle grinfie di un cartello di narcotrafficanti, guidato da due efferati fratelli, che ricavano molto del denaro con cui operano dal mercato della prostituzione, e l''ex- soldato partirà verso la nazione confinante nel tentativo di recuperare la ragazza. Accolto da una sostanziale negatività, da parte di diversi recensori ( soprattutto quelli della categoria online, sempre spicci nei giudizi), il quinto atto dell'eterna tragedia del personaggio di David Morrell ( il quale, sembra, pure lui ha disconosciuto questo nuovo sviluppo del carattere da lui creato) è, sì, grossolano in diversi passaggi di sceneggiatura, vedi una presentazione dell'ambiente messicano, tra corrotti, delinquenti e farabutti vari che si può leggere come la visione di chi ha votato un presidente soprattutto perchè gli prometteva un muro divisorio da "quelli", approssimativo (di che campa John Rambo, un ranchero con due cavalli soltanto? come ha scavato una rete fitta di tunnel sotto la sua proprietà, da solo?) e, se si volesse leggere la pellicola come usava una volta, con il filtro dell'idelogia, sostenitore della vendetta come risorsa ultima dell'Uomo di fronte alle brutture dell'esistenza. Però, se pur si vuol definire il film "funereo" come ha scritto nella sua bella recensione Emiliano Morreale su "Repubblica", va detto anche che l'antitesi naturale di Rocky Balboa, che resta sempre invece un positivo, questo Berretto Verde che a stento placa i suoi istinti di violenza, che ammette il proprio squilibrio mentale e per il quale ogni scampolo di pace residua è distrutto, trova il suo viale del tramonto con la perdita dell'ultima innocenza conosciuta, e ritrova la sua furia annichilente, senza mai averla davvero smarrita. Per Rambo il conflitto è sempre a portata di tiro, ha vissuto l'orrore della guerra incamerandolo e riversandolo ad ogni occasione, più feroce che mai. E, su tale piano interpretativo, si potrebbe leggere l'intera saga come un monito pessimista, sulla natura ferina degli esseri umani, così protesi alla distruzione di ambiente e propri simili, da perdere ogni struttura evoluta, e utilizzare esperienza e logistica per perpetuare la via all'autodistruzione. Stallone, cui la macchina da presa non risparmia primi e primissimi piani, per sottolinearne l'avanzata età e la stanchezza mista a furore della maschera del personaggio, lascia il posto a Adrian Grunberg, che già con "Viaggio in Paradiso" con Mel Gibson non ci aveva fatto pensare che abbia una buona opinione del Messico: la tonalità western, con la resa dei conti giocata sottoterra come se fosse in una miniera, giova tutto sommato al film, che nell'ultimo atto pesta forte sul piano della truculenza, al punto da far somigliare il vecchio militare vagabondo ai vari Jason e Leatherface degli horror di culto degli anni Settanta e Ottanta.
C'ERA UNA VOLTA....A HOLLYWOOD
( Once upon a time...in Hollywood, USA 2019)
DI QUENTIN TARANTINO
Con LEONARDO DI CAPRIO, BRAD PITT, Margot Robbie, Margaret Qualley.
COMMEDIA/GROTTESCO/DRAMMATICO
Nel 1969, è un momento di stasi assoluta nel mondo del cinema americano: arriverà "Easy rider" di lì a un attimo, e a seguire i nuovi titani della regia come Coppola, Scorsese, Spielberg, Lucas, Milius e Cimino, ma in quel momento la grande industria, che fa capo a Hollywood è in panne. Un attore di successo in una serie western televisiva, che ha provato il salto sul grande schermo, ma non riesce a conquistare seguito e credibilità, con il suo stuntman personale, che gli fa anche da autista, e un pò da guardia del corpo, va in crisi e deve ridimensionarsi: tutto attorno ruotano figure che contano e che pensano di contare, e sullo sfondo, apparentemente pacifici, ma covando qualcosa di sinistro, ci sono i ragazzi della comunità di Charles Manson... Nona regia di Quentin Tarantino, "C'era una volta...a Hollywood" è un titolo che si distacca notevolmente dal resto dell'opera del regista de "Le Iene", un pò come accadde a "Jackie Brown", oltre vent'anni fa. Tarantino è un autore che ama spiazzare il pubblico, e mette su una commedia ad alto tasso di sarcasmo sul mondo placcato d'oro del cinema, mostrandone i vuoti annichilenti che sono appena dietro la cornice: due figure da poco come un attore di serie B e un cascatore sono quelli che salvano dalle insidie la maestosa ma fragile dimensione hollywoodiana, al punto da rivedere la storia vera, purtroppo, di Sharon Tate e del massacro di Cielo Drive ( comunque, pensando come il regista in "Bastardi senza gloria" riscrive la fine del nazismo, facendo a meno della Storia con la S maiuscola, è un'inezia). Rispetto ad altri lungometraggi tarantiniani, si rintracciano meno dialoghi ficcanti e destinati a diventare da antologia di altre volte, e si poteva alleggerire la lunga sequenza del film western, con Di Caprio che non ricorda le battute, ma considerare fallace un'opera filmica di questo livello è piuttosto sconcertante, per non dire grossolano: l'eleganza delle riprese, la sottigliezza della critica verso il mondo del cinema e chi lo compone, l'accelerazione improvvisa verso un'impennata di violenza che non sarà quella che ci si aspetta ( rimandata più volte durante la pellicola, arriva tutta verso il finale, e a prova di qualche stomaco), le prove divertite di molti volti famosi e l'irrefrenabile gusto cinefilo nel presentare nomi e citare episodi che fanno per forza sorridere chi coltiva la stessa passione per ogni cosa purché sia cinema ( una cosa per tutte: Nicholas Hammond, il primo Spider-Man di tv e cinema, nei panni di Sam Wanamaker, professionista del B-movie!). A fronte di tutto ciò, "C'era una volta...a Hollywood" suggerisce che sarebbe altrettanto divertente vedere un'operazione analoga dalle nostre parti, dedicata a quegli anni che videro fiorire gli western-spaghetti, i poliziotteschi, in un panorama cialtrone e vivacissimo, tutto da godersi. Se Margot Robbie è più che altro un'apparizione, Brad Pitt è il migliore in scena, nel dar volto e corpo a un personaggio paradossale, per cui il pubblico può fare il tifo, ma in fin dei conti, sotto un atteggiamento da pratico uomo d'esperienza, pulsa di un istinto omicida pronto ad affiorare rapidamente.
AMICI E NEMICI ( Escape to Athena, USA 1979)
DI GEORGE PAN COSMATOS
Con ROGER MOORE, TELLY SAVALAS, Elliott Gould, Claudia Cardinale.
AZIONE/COMMEDIA
Nel mezzo dell'Egeo, in un campo di prigionia gestito dal maggiore Hecht, si coalizzano tra greci, inglesi, americani e italiani (siamo infatti nel '44), per sottrarre all'esercito tedesco dei beni archeologici su cui i militari germanici intendono mettere le mani per lucrarci sopra: in realtà, è lo stesso obiettivo dei prigionieri alleati, ma c'è in ballo anche una base missilistica costruita dagli invasori per attaccare le flotte nemiche. Improntato fin dall'inizio come un film di guerra anomalo, che guarda alla serie "Gli eroi di Hogan" più che a pellicole belliche classiche, "Escape to Athena" mette insieme un cast ben fornito di nomi visti in titoli di successo, a partire dal corrente 007 Roger Moore, nelle vesti del comandante tedesco ( ovviamente, però, non è un nazista convinto, e passerà con scioltezza dalla parte dei buoni...): diretto dall'abile George Pan Cosmatos, che qui gioca in casa, e gira l'unico suo film "brillante", sfoggia una bellissima fotografia (ad opera di Gilbert Taylor), ma dipana con forte prevedibilità le oltre due ore di durata, tendendo al monotono, salvandosi perchè appunto non si prende sul serio, e si vede. Nel variopinto cast, discrete le prove di Moore e Savalas, Gould viaggia troppo sopra le righe con ammiccamenti e facce da buffone, Niven ha un ruolo malamente scritto, mentre delle due belle di turno, la Cardinale esibisce una sensualità matura, mentre la Powers ostenta una ricca inespressività. Molti botti, tensione inesistente, qualche stiracchiato sorriso.