IL GENERALE DORME IN PIEDI (I, 1972)
DI FRANCESCO MASSARO
Con UGO TOGNAZZI, MARIANGELA MELATO, Mario Scaccia, Franco Fabrizi.
COMMEDIA
Militare di carriera, ufficiale medico ( anche se è "nato" veterinario, esercita mansioni da chirurgo, senza averne la qualifica...) il colonnello Leone ambisce sia alla promozione a generale, che a conquistare la piacente signora di un superiore, che non ci sta più troppo con la testa, ed impartisce ordini assurdi: la moglie del generale non disdegna le attenzioni dell'uomo, e via via, il protagonista rievoca sia certe malandrinate fatte passare per atti eroici durante il secondo conflitto mondiale, che la corruzione e la guerra di ruoli all'interno dell'esercito. E sullo sfondo, un potenziale golpe... Commedia che, appunto, ammicca al progettato colpo di Stato di Edgardo Sogno e compagnia non bella, come il successivo "Vogliamo i colonnelli", sempre con Tognazzi ( ma ce ne corre...), "Il generale dorme in piedi" ironizza sul "vizio" del personaggio principale, di strepitare, mentre dorme, su tutto quel che non va all'interno del mondo militare, e di come il problema rischi di creare guai sia a lui, che alle alte sfere in divisa. Certo, Francesco Massaro, non è stato proprio un gran regista, e prima di buttarsi definitivamente nell'ambito delle commediole scollacciate con Barbara Bouchet, Edwige Fenech e altre bellezze dell'epoca, provò a girare film di satira, piuttosto floscia, come in questo caso. Avendo due attori di prima qualità come Ugo Tognazzi e Mariangela Melato, che molto meglio frutteranno assieme ne "Il gatto", spreca ulteriormente l'occasione, con una commedia tendente al monotono, che raramente fa sorridere, e non denigra nessuno degli obiettivi prefissati.
UN UOMO, OGGI ( WUSA, USA 1970)
DI STUART ROSENBERG
Con PAUL NEWMAN, Joanne Woodward, Anthony Perkins, Pat Hingle.
DRAMMATICO
Tre personaggi in cerca di punti di riferimento, sul finire degli anni Sessanta: uno è un ex-mucisicta, con problemi di alcool, conservatore ma non reazionario, che si trova lavoro come speaker in una radio di ultradestra, ("W USA", da qui il titolo) pur senza condividerne le idee, che sostiene un candidato alle elezioni, una è un'ex-prostituta che si è messa il passato alle spalle, un altro è un idealista che crede nell'Uomo, e cerca risposte in associazioni religiose. I tre convergono, si incontrano, ma per due di loro, le cose sono destinate a finire in tragedia. E l'ironia è che chi fa il più cinico, ha il peso di sopravvivere. Paul Newman era, oltre che una grande star, un uomo che credeva molto in quello che faceva: "Un uomo, oggi" è tra i titoli che lo vedono protagonista, tra i meno ricordati, ma merita una riscoperta. Non del tutto riuscito, anche perchè Stuart Rosenberg era un regista più volenteroso che abile, e comunque gli va riconosciuto di aver spesso illustrato problematiche americane che altri non avrebbero portato su uno schermo, ma "WUSA" è un dramma che ha un crescendo netto, porta alla luce un' America con i nervi a fior di pelle, molto meno democratica e civile di quanto si presenti. Ed infatti il Watergate era alle porte, e i disagi sociali, con gli scontri razziali e politici erano all'ordine del giorno, all'epoca della realizzazione del lungometraggio. Fotografato splendidamente da Richard Moore e con musiche di buon livello di Lalo Schifrin, trova il suo meglio nelle buone interpretazioni di Newman, che non ha paura di interpretare un personaggio perlopiù sgradevole, Joanne Woodward e Anthony Perkins, forse il migliore in scena, nell'esporre la fragilità di un personaggio bene intenzionato, ma che compirà un atto estremo, e che subirà una sorte inaspettatamente barbara. Il film si chiude su Neil Diamond che intona "Glory road", con amara ironia.
I DIAVOLI VOLANTI (The flying deuces, USA 1939)
DI A.EDWARD SUTHERLAND
Con STAN LAUREL, OLIVER HARDY, Jean Parker, Reginald Gardiner.
COMMEDIA
Della filmografia della coppia Laurel & Hardy, è uno dei titoli più celebri, assieme a "Frà diavolo" e altri classici in bianco e nero dei due: Ollio, per una delusione amorosa, cerca di suicidarsi, coinvolgendo anche l'inseparabile amico, ma viene consigliato, invece, di arruolarsi nella Legione Straniera. Il che avviene, ma, ovviamente, il duo saprà creare scompiglio, e infilarsi in una serie di guai. Rispetto ad altro cinema della coppia comica, è un film che cerca meno l'effetto delle gags, puntando maggiormente sulla trama, e cercando di essere una commedia, più che un film comico vero e proprio. La simpatia dei due è innegabile, ma non sempre il ritmo è sostenuto, e la storia è pretestuosa, fin troppo: è come se la vis di Stanlio e Ollio venisse tenuta a freno, e loro leggermente snaturati. Celeberrima la canzone "Guardo gli angeli...", e notevoli le acrobazie dell'aereo nella parte finale: poetica la conclusione, con Stanlio che ritrova l'amico sotto altre spoglie, una delle cose migliori della pellicola. Ma non è tra i loro lavori più riusciti.
....E L'UOMO CREO' SATANA! (Inherit the wind, USA 1960)
DI STANLEY KRAMER
Con SPENCER TRACY, FREDRIC MARCH, Gene Kelly, Donna Anderson.
DRAMMATICO
Dal dramma teatrale "Inherit the wind", opera di Jerome Lawrence e Robert E.Lee, un film della stagione impegnata di Hollywood più volenterosa, ispirata e densa. Dirige Stanley Kramer, una garanzia in tal senso, e davanti alla macchina da presa va in scena una disfida tra due grandi vecchi del cinema, come Spencer Tracy e Fredric March, e un comprimario di lusso come Gene Kelly: la questione è un processo in cui un insegnante è accusato di sostenere e diffondere le teorie darwiniane ( siamo nel 1925, profonda provincia USA), e il vero conflitto è tra chi antepone la Parola di Dio davanti a tutto e non accetta gli studi della Scienza, e chi invece spinge per il progresso, e che l'uomo si evolva, consapevole delle proprie vere origini. Giocato come una lotta che si inasprisce via via che il processo va avanti, tra i due avvocati, che fuori dall'aula si trattano amichevolmente, il film ha un'ottima ambientazione, la sceneggiatura smorza la drammaticità dei toni con alcuni riflessi umoristici, e il tutto è fotografato in un luminoso, splendido bianco e nero. Ciò che rende prezioso il lungometraggio è sia quel che comunica, e la bravura sia di Kramer, nel centellinare la tensione dialettica ed emotiva, e nel saper dirigere gli attori, fondamentali in un lavoro che viene appunto, e in maniera evidente, dal teatro. Spencer Tracy sembra inizialmente quasi presente controvoglia, ma sa tirare fuori la durezza idealista del suo legale, ed è bravissimo: se possibile, ancor più notevole Fredric March, impegnato nella caratterizzazione di un uomo segretamente ottuso, ironico e facondo ufficialmente, ma stretto alle proprie insicurezze con protervia da fanatico. Meno famoso di quel che si meriti, un buon dramma processuale in chiave spiccatamente "liberal".
FANTASTIC FOUR-I FANTASTICI 4
( Fantastic Four, USA 2015)
DI JOSH TRANK
Con MILES TELLER, KATE MARA, JAMIE BELL, MICHAEL B. JORDAN.
FANTASTICO/AZIONE
Esperti del box-office avevano già annunciato che la nuova versione de "I Fantastici 4" sarebbe andata a picco, commercialmente parlando: la terza (se si considera anche la versione "invisibile" di Roger Corman degli anni Novanta) volta di Mr. Fantastic & soci, la famiglia allargata più famosa del mondo a fumetti, è partita decisamente con il piede sbagliato. Infatti, il regista Josh Trank ha rotto con la Fox prima ancora di terminare il film, e quindi il montaggio che vediamo non è neanche quello voluto dal regista ( il quale ha disconosciuto il lungometraggio), e queste sono cose che, solitamente, nuocciono a qualsiasi produzione cinematografica. L'incasso attuale, globale, è di 160 milioni di dollari, non pochi, ma ben lontani dalle cifre a cui sono abituati i film di supereroi degli ultimi anni. Di Trank si era apprezzato il poco costoso "Chronicles", e in parte questo suo primo film ad alto budget ne ricalca le atmosfere, la tendenza a raccontare la vicenda straordinaria di chi la vive per caso, ma il problema principale è che per metà proiezione si è occupati a raccontare le premesse e come i quattro eroi divengono tali ( con un passo non proprio speditissimo), e poi nella seconda parte i fatti si affastellano velocemente, fino a uno scontro finale tra i FF e il Dottor Destino (la cui origine qui è del tutto nuova...) abbastanza spiccio e senza pathos, con dialoghi di poco interesse ( Reed Richards, nei fumetti uno dei più geniali personaggi della Marvel, che arriva davanti all'ex-amico, e tutto quello che sa dirgli è "Basta!!!"). Inoltre, uno dei fattori più rilevanti delle avventure dei Fantastici 4, ma anche di quasi tutto l'universo marvelliano, è l'umorismo, che qui praticamente non esiste, e "La Cosa" offre solo l'infinita malinconia della sua condizione di uomo di pietra, senza quell'energia brillante che contraddistingue il personaggio, di solito. Non è brutto come l'hanno descritto, nè il peggior film da personaggi a fumetti, come hanno sentenziato recensori, professionisti e non, anche perchè arrivare ai livelli di "Daredevil" con Ben Affleck e del secondo "Ghost Rider" ce ne vuole, però è un'occasione fallita, un kolossal con poco sapore e una spettacolarità molto relativa. E tra due anni arriva il secondo, comunque.
COWBOY (Cowboy, USA 1958)
DI DELMER DAVES
Con JACK LEMMON, GLENN FORD, Anna Kashfi, Brian Donlevy.
WESTERN
La dura vita dei cowboys, dormire per terra attorno al fuoco, cavalcare per giornate intere, badare a mandrie numerose, e saper usare lazo e pistola, ha pur sempre il suo fascino. Un giovane pacato, che vuole impalmare una bella signorina la cui abbiente famiglia non ha intenzione di assentire al matrimonio della ragazza con un semplice receptionist d'albergo, mette i bastoni tra le ruote all'uomo, che decide di svezzarsi affidandosi alla scuola di vita del duro Tom Reece: non sarà facile, ma, come ogni romanzo di formazione, prevede nelle difficoltà una crescita. L'insolita coppia Jack Lemmon-Glenn Ford è al centro di un western altrettanto poco comune: niente indiani, nè duelli, nè sparatorie, ma l'avventura di ogni giorno che diventa una vera e propria dimensione. Delmer Daves imbastisce tra cieli di folgorante bellezza, spazi di ampio respiro e momenti di tensione (Frank, il personaggio di Lemmon, va poco d'accordo con alcuni membri del clan di Reece), una storia di amicizia virile che va oltre le delusioni amorose, le asprezze di una scelta di vita particolare, i disagi rispetto al quotidiano cui era abituato Frank. Tra i due interpreti maggiori, più a proprio agio Ford, mentre Lemmon talvolta non sembra la miglior scelta: fin troppo "gentile", anche se l'attore è di alto livello, la sua interpretazione, per un giovane che diventa "uomo duro" con slancio di volontà. Ben girato, ma privo di scene madri, rischia qua e là di non trovare un picco di tensione emotiva.
IL TRENO (The train, F/USA/I 1964)
DI JOHN FRANKENHEIMER
Con BURT LANCASTER, Paul Scofield, Jeanne Moreau, Michel Simon.
GUERRA
Sul volgere della guerra a sfavore dei tedeschi, la fuga dell'esercito germanico dai paesi che avevano invaso comportò strazi, violenze, la furia di chi si considerava invincibile e invece aveva scoperto che le cose stavano notevolmente mettendosi male. Scappando dalla Francia, il colonnello Von Waldheim, ritenuto un uomo interessato a tutelare le opere d'arte dai potenziali danni dell'invasione, trafuga capolavori in abbondanza: uomini della Resistenza, avvisati della cosa, organizzano una missione per contrastare l'operato del gerarca nazista. Finirà in un duello tra l'ufficiale tedesco ed un membro del commando che utilizzerà ogni risorsa, senza darsi per vinto, per fermare il treno su cui viaggiano opere da non lasciare alle truppe hitleriane. Considerato oggi un piccolo classico del cinema bellico, "Il treno" è un lavoro avvincente, che conferma, una volta di più, l'ottima mano da autore popolare di un cineasta che rientra tra i grandi sottovalutati (a mio avviso, quanto Robert Aldrich e John Sturges) del cinema americano: il dilemma etico, se va preservata l'arte o la vita umana, trova nella raffica di mitra finale la risposta che sceneggiatura e regia volevano dare. La crudeltà gratuita di uno sconfitto, venuto dall'aristocrazia e convinto di far parte di un Potere che decide vita o morte, distruzione o difesa, sconvolge e viene giustamente punita. Una bella interpretazione di Burt Lancaster, che investe grinta e umanità nel suo sagace e indomabile personaggio, e altrettanto bene figura Paul Scofield, che cela sotto l'eleganza dei modi un sostanziale disprezzo per la vita del prossimo: il crescendo del finale è opera di un regista che, se non avesse girato troppi film di ripiego nella fase conclusiva della carriera, meriterebbe altra fama, e comunque è da rivedere, per le invece svariate opere valide girate.
HORROR EXPRESS (Horror Express, GB/ES, 1972)
DI EUGENIO MARTIN
Con CHRISTOPHER LEE, PETER CUSHING, Silvia Tortosa, Telly Savalas.
HORROR
Tra i ghiacci è stata trovata una creatura preistorica, dal corpo di scimmia, dalla testa composta da un teschio, ma con le orbite ancora presenti: siamo nel 1906, e lo studioso che ha compiuto il ritrovamento, mette il fossile dentro una cassa e compie un viaggio sul treno che collega Pechino e Mosca. Solo che la creatura è solo ibernata, si risveglia, e si libera, cominciando a uccidere, con lo sguardo, i malcapitati che gli arrivano a tiro; e su un treno, le vie di fuga sono relativamente poche. Tra le numerose collaborazioni che vedevano nello stesso cast i nomi di Christopher Lee e Peter Cushing ( i quali, tra l'altro, hanno partecipato, in capitoli separati ma entrambi, alla saga di "Star Wars"), "Horror Express", coproduzione tra Inghilterra e Spagna, è una delle poche che li vede allearsi, anzichè nemici: diretto senza verve dall'ispanico Eugenio Martin, è un horror i cui effetti speciali erano già modesti all'epoca, con minor ricorso a scene sanguinarie, che nelle intenzioni vorrebbe montare una tensione sorda, che sfocia nel gran finale, in cui l'entità extraterrestre che si celava nella creatura venuta dai ghiacci si trasferisce in altre menti, causando, addirittura, il resuscitare delle sue vittime per volgerle contro i suoi nemici. Antecedendo "Cassandra Crossing", la soluzione parrebbe dirottare il treno verso un dirupo, dopo che il terrore si è diffuso nelle carrozze, ma i due protagonisti sapranno essere sagaci. C'è anche Telly Savalas in un numero barocco, di uomo della sicurezza, in realtà folle e gratuitamente violento, e se Cushing sembra defilarsi lasciando spazio al suo eterno opposto, Lee interpreta con notevole sobrietà un personaggio scritto con evidente superficialità.
"SOUTHPAW- L'ultima sfida"
DI ANTOINE FUQUA
Con JAKE GYLLENHAAL, Forrest Whitaker, Rachel McAdams, 50cent.
DRAMMATICO
Dal lusso di una vita agiata all'inferno e resurrezione, per un pugile che arriva a diventare campione del mondo dei pesi medi, per una rissa con lo sfidante, in un'escalation di assurdità parte un colpo di pistola che uccide la moglie del boxeur protagonista, e di lì guai a non finire. L'atleta, dotato di talento pugilistico ma di temperamento balzano, compie una sciocchezza dietro l'altra, sempre più gravi, finchè non perde tutto quel che ha, compresa la custodia della figlia. A terra nella vita come sul ring, non gli rimane altro che una sana dose di umiltà e ricominciare dal fondo, per riguadagnare il rispetto di se stesso, e quello che ha perduto. Vi sembra di averlo già sentito questo soggetto? Ma certo, è lo schema di "Rocky III" e di tanti altri drammi a sfondo sportivo. "Southpaw", che pare dovesse avere per protagonista, inizialmente, Eminem ed essere una sorta di sequel di "8 Mile", è un film sulla boxe, diretto da un regista non certo eccelso quale Antoine Fuqua, che forse è tra le cose migliori da lui girate: accolto da recensioni anche eccessivamente severe ( definito anche "il peggior lungometraggio sulla boxe mai realizzato"), ha il difetto, non da poco, di essere totalmente prevedibile, dal primo all'ultimo minuto. E' bravo Jake Gyllenhaal, ma non è una novità, ad aver messo su un fisico da guerriero del ring, come fece trentacinque anni fa Robert De Niro per "Toro scatenato", e la grinta che inietta nel personaggio è notevole: e le scene di boxe sono tra le più realistiche viste in una pellicola hollywoodiana, senza spettacolarismi, spesso mostrando i pugilatori in difesa e evitando di andare a faccia scoperta come in molti altri film. Sospeso tra la necessità di un messaggio edificante da spedire al pubblico, e la voglia di mostrare la rabbia che è necessaria ad un uomo di tale sport per riuscire ad affermarsi, è una pellicola che si fa vedere, ma non incide a fondo.
BLACK JACK (Heat, USA 1986)
DI DICK RICHARDS (e JERRY JAMESON, non accreditato)
Con BURT REYNOLDS, Peter Mac Nicol, Karen Young, Diana Scarwid.
THRILLER/AZIONE
Baffo alla messicana, sguardo da duro ma non privo d'ironia, un giubbotto di pelle a calzare le larghe spalle, e la tendenza ad appoggiarsi ad un tavolo da gioco ogni qual volta sia possibile, Nick Wild è uno che sbarca il lunario ingegnandosi: sa cogliere la fortuna con le carte in mano, fa la guardia del corpo a tempo perso, all'occorrenza aiuta chi non è cresciuto per strada a fare un figurone e farsi rispettare. Infatti, ci viene presentato all'inizio come uno che importuna una bionda capitata in un locale, quando arriva il pretendente gli strappa il parrucchino (fatta da Burt Reynolds fa un pò ridere, vero...) e lo sfida, ma ne prende di santa ragione: è tutto un trucco, però, come scopriremo più avanti, per favorire il tipo dietro pagamento e fargli conquistare la ragazza. Tratto dal romanzo omonimo di William Goldman, e affidato alle mani esperte di Dick Richards (che però venne affiancato da Jerry Jameson, il quale non figura nei titoli, dato che i rapporti con il divo non furono dei migliori, andando anche per le vie spicce), già responsabile del miglior Marlowe di sempre, escludendo "Il grande sonno", con Robert Mitchum in "Marlowe il poliziotto privato", "Heat", da noi divenuto "Black Jack" e da non confondere con il film di Paul Morrissey nè con il thriller d'azione di Michael Mann, è un piacevole intrattenimento, con scene d'azione un pò forzate, non si sa se per inadeguatezza della regia o per legnosità del protagonista, eppure specializzato in pellicole action. Alla resa dei conti, l'ironico Nick, risponde con violenza conclamata agli attacchi dei malavitosi, fino ad un finale in gondola che fa simpatia. Il meglio del film sta nel rapporto che si crea tra l'uomo di strada Wild e il goffo yuppie che vorrebbe diventare un "hard guy", un'amicizia virile inattesa che rafforza un plot non originalissimo e un'andatura leggermente blanda del racconto.
BLACK SEA (Black Sea, GB 2014)
DI KEVIN MACDONALD
Con JUDE LAW, Ben Mendehlson, Bobby Schofield, Grigoriy Dobrigin.
THRILLER/DRAMMATICO
Profondo Mar Nero: c'è un sommergibile tedesco, inabissatosi durante la II Guerra Mondiale e mai tornato in superficie, carico d'oro, sul fondale. Un esperto comandante di sommergibili, uso a recuperare relitti, con una situazione personale compromessa ( ha perso il lavoro, e ha rotto i rapporti con la moglie e il figlio) viene ingaggiato da un miliardario per comandare una squadra di recuperatori, metà inglesi, metà russi: sembra una buona occasione, ma la scarsa preparazione dell'equipaggio, unita a ostilità forti tra i due gruppi etnici, creeranno una spirale di guai che si faranno sempre più seri, e difficili da gestire. Un thriller claustrofobico, ambientato quasi tutto all'interno dello scafo del sottomarino che parte per il recupero dell'oro, diretto dal regista de "L'ultimo re di Scozia": è evidente che MacDonald non sia certo un ottimista sulla natura umana, per come sottolinea la capacità irrefrenabile di cannibalizzare i propri simili, da parte degli uomini, e per come ne illustri la tendenza ad una crudeltà ingiustificata. Sorretto da un buon ritmo, da una sapiente bravura nel montaggio che da un lato non permette allo spettatore di annoiarsi,per la tensione che si crea, da un altro serra sempre di più l'azione e lo spazio tra i personaggi, "Black Sea" è anche un apologo sulla pericolosità di certi utopisti, che in nome di astratti Pace e Bene, in concreto portano alla rovina chi li segue senza porsi domande: Jude Law fornisce una prova maiuscola, di perdente di carattere ( che non era il solito belloccio insulso, lo si era capito da un pò, qui sfoggia una stempiatura alla Phil Collins con disinvoltura, puntando sulla resa del personaggio), e le facce intorno aggiungono pathos a un racconto nero come l'avidità umana.